Il confederalismo democratico e l’ossessione anticurda della Turchia

Forze in campo e alleanze geopolitiche: combattenti o terroristi?

Daesh ha impressionato per ampiezza dei mezzi bellici a disposizione, dai blindati ai lanciagranate: armi che ha soprattutto strappato all’esercito iracheno, allorché si è impadronito di vaste porzioni di territorio in Iraq; vi si trovavano anche raffinerie, e con i proventi della vendita del petrolio il Califfato è stato in grado di foraggiare i suoi militanti, la cui entità numerica rimane incerta. Dato certo è invece il controllo esercitato da Daesh su alcune città conquistate – la siriana Raqqa e l’irachena Mosul – da quando ha avviato la sua azione militare, nel giugno 2014. 

A metà ottobre 2015, combattenti delle tribù arabe del Nord della Siria e assiro-cristiani confluiscono in un corpo combattente di nuova formazione, le Forze democratiche siriane (Sdf), in cui il ruolo prevalente fu esercitato da combattenti curdi dello Ypg. Essa riceveva, soprattutto per volontà di Francia e Stati Uniti, l’appoggio della coalizione internazionale che combatteva Daesh. Da allora a più riprese la Turchia avanzò la pretesa di colpire Sdf e Ypg, asserendo la loro contiguità con il “gruppo terroristico Pkk” e pertanto la loro rilevanza come minaccia terroristica. 

I combattenti curdi, sostenuti dalla coalizione internazionale e dimostratisi non pregiudizialmente ostili verso Russia e Iran, trassero vantaggio dall’offensiva del regime siriano per guadagnare terreno nell’area settentrionale a nord di Aleppo, a spese di fazioni ribelli spalleggiate da Arabia Saudita e Turchia. Ciò spinse la Turchia, a metà febbraio 2016, a bombardare postazioni curde oltreconfine, nonostante gli appelli di Washington e altre capitali occidentali affinché Ankara fermasse gli attacchi.

Obiettivo: il Confederalismo democratico in Rojava

Il 12 agosto 2016, Sdf liberò da Daesh la città di Manbij, a ovest dell’Eufrate. Il 24 agosto, artiglieri e aviatori delle forze armate turche, spalleggiati dall’Esl (Esercito siriano libero), avviarono in Siria l’Operazione Scudo dell’Eufrate, il cui scopo era duplice: respingere i jihadisti dalla zona di confine siro-turca (avvenne a Dabiq, poi a Jarabulus) e bloccare l’espansione dei curdi; il 28 agosto, per esempio, attacchi aerei colpiscono, mietendo 35 vittime, i villaggi Jeb el-Kussa e al-Amarneh, controllati da forze curde. Contemporaneamente il ministro degli Esteri francese Ayrault, intervistato da “Le Monde”, esortava in generale i russi a cessare i bombardamenti e a tornare a percorrere la “via politica”, al fine di risolvere il conflitto siriano. Auspicava una Siria pacificata, stabile e unitaria, che rispettasse i diritti delle proprie minoranze (menzionava espressamente cristiani e curdi). Definiva inoltre positivo un robusto inserimento della Turchia nella lotta contro Daesh e legittimava l’aspirazione turca alla sicurezza delle proprie frontiere; tuttavia metteva in guardia Ankara dall’innescare un violento ingranaggio, cedendo alla tentazione di affrontare in Siria la propria questione curda, vale a dire la lotta contro il Pkk. Ayrault rammentava che i curdi siriani combattevano efficacemente contro Daesh e che non occorreva aggiungere una dimensione anticurda ai nodi di conflittualità già esistenti in Siria.

A metà ottobre 2016 era palese la volontà degli alti gradi statunitensi di lanciare rapidamente un’offensiva su Raqqa, per impedire l’afflusso verso la città di ulteriori combattenti di Daesh reduci da Mosul. Ma la Turchia si oppose alla proposta di utilizzare in tale offensiva una forza a guida curda; taluni ufficiali occidentali sostenevano che avrebbe potuto accrescere la conflittualità interetnica in una città come Raqqa, abitata in prevalenza da genti d’origine araba, però gli Stati Uniti dubitavano che la Turchia fosse in grado di addestrare rapidamente combattenti arabi capaci di sostituire nell’offensiva i curdi, dimostratisi peraltro molto efficienti. Dal 17 ottobre era in corso l’offensiva su Mosul: la coalizione a guida statunitense garantiva alle truppe irachene sostegno con attacchi aerei, artiglieria e truppe d’élite; forze arabe sunnite erano incaricate di combattere nel centro cittadino, i curdi iracheni agivano per garantire sicurezza nell’area perimetrale attorno alla città, soprattutto a sudest. Simile fu l’approccio offensivo proposto dagli Stati Uniti per Raqqa, che richiedeva a tal fine circa 10 000 uomini. Gli ufficiali turchi preferirono attendere piuttosto che veder coinvolti nell’offensiva gli appartenenti allo Ypg. Dal canto loro, i curdi, nel negoziare la loro partecipazione all’offensiva, richiedevano sostegno politico in cambio del loro sforzo volto a creare una regione autonoma nel Nord della Siria. 

Come e chi ha liberato Raqqa

Sdf comunicò a inizio novembre 2016 l’avvio dell’Operazione Ira dell’Eufrate con la partecipazione di 30 000 combattenti e l’appoggio di 300 militari delle forze speciali statunitensi: l’obiettivo era sottrarre Raqqa al controllo di Daesh. A tal fine s’intendeva utilizzare la componente araba di Sdf, invece di quella curda, per evitare tensioni di natura etnica con la popolazione locale d’origine araba. Il capo di stato maggiore statunitense, Dunford, preferì puntare sull’Sdf invece che sull’esercito turco, visto che fino a quel momento la Turchia non aveva esitato ad attaccare Sdf per impedire il consolidamento del controllo curdo sulla zona di confine siro-turca, per quanto sapesse che godeva dell’appoggio statunitense.

Prima della guerra Raqqa annoverava circa 300 000 abitanti. Vi fu un’evacuazione negoziata della città spostando i jihadisti rimasti verso il deserto orientale siriano e la vittoria fu proclamata il 17 ottobre 2017. Nei giorni successivi Sdf provvide a ripulire il territorio dalle ultime sacche di resistenza di Daesh. Raqqa era però ridotta in larga parte in macerie ed erano seriamente danneggiate le reti idrica ed elettrica; a quanto sembra, oltre 1000 civili avevano perso la vita negli ultimi quattro mesi e 270 000 persone erano fuggite dalla città e dai villaggi circostanti, incrementando soprattutto il numero degli sfollati interni siriani. Talal Sello, portavoce di Sdf, invitava pertanto la comunità internazionale a stanziare fondi per sostenere il nascente consiglio civile chiamato a governare la città, aiutandolo nello sforzo di ricostruzione. La coalizione internazionale elogiava i combattenti, principalmente curdi, di Sdf, per tenacia e coraggio dimostrati in combattimento contro un nemico privo di principi, nonché per il loro costante sforzo per ridurre al minimo le perdite fra i civili, facendo spostare con grande cura le popolazioni, anticipatamente, da aree poi interessate da scontri armati dovuti all’avanzata. Sdf fu definita una “forza etnicamente diversificata”. In essa era effettivamente presente un consistente numero di combattenti arabi, ma nella struttura operativa prevalevano i curdi, collegati al Pkk; nei festeggiamenti del 20 ottobre, in una piazza di Raqqa in precedenza utilizzata da Daesh per decapitazioni pubbliche, i combattenti si radunarono dietro un enorme drappo raffigurante Öcalan; ciò contribuì ad alimentare timori fra gli ex abitanti di Raqqa di essere dominati al ritorno da una forza che percepivano ostile. Comunque 655 combattenti persero la vita nel corso della battaglia di Raqqa.

La trama turca

Il posizionamento internazionale di Ankara, con la preoccupazione per l’evoluzione favorevole ai curdi in Siria, si sviluppò su più fronti all’inizio del 2017, dopo l’insediamento a Washington dell’amministrazione Trump. Il 13 febbraio combattenti dell’Esl penetrarono in al-Bab, sottraendo vari quartieri al controllo di Daesh. Erdoğan annunciò personalmente tale successo parziale del gruppo ribelle siriano alleato, indicando i prossimi obiettivi di Scudo dell’Eufrate: Manbij, controllata da forze curdo-arabe, e poi Raqqa, capoluogo siriano del Daesh. Si trattava di propositi alquanto roboanti, considerando che per penetrare nella più piccola al-Bab soldati turchi e Esl avevano impiegato alcuni mesi. Poi Erdoğan si recò in Arabia Saudita. 

Ossessione anticurda: accordi con l’Arabia Saudita

Dall’inizio della Primavera araba non sono mancate divergenze di vedute con i sauditi: in Siria Ankara e Riad hanno talvolta appoggiato gruppi ribelli differenti, e le accomunava solo l’opposizione ad al-Assad e la percezione, condivisa con fastidio, d’un disimpegno statunitense dall’area mediorientale. Ankara decise di giocare più carte. Da un lato s’impegnava per una soluzione diplomatica al conflitto siriano nei colloqui di Astana patrocinati assieme a Mosca e Teheran; dall’altro faceva leva sull’ostilità saudita verso la sempre più influente presenza iraniana – in Libano, Yemen, Siria e Iraq – per avvicinare Riad e altri Paesi del Golfo che sostengono economicamente gli oppositori siriani. In tal modo riuscì a propagandare l’intenzione di creare una No-fly Zone, di circa 5000 chilometri quadrati, nei territori che con i ribelli siriani alleati aveva sottratto a Daesh; si guadagnò così il gradimento saudita: per Riad la presenza turca era un valido contrappeso a quella iraniana; per la Turchia ovviamente la No-fly Zone era da intendersi anche in chiave anticurda.

Ossessione anticurda: accordi con la Russia

Erdoğan auspicò che s’instaurasse una cooperazione militare turco-russa per compiere operazioni in Siria e pervenire alla formazione di una “zona di sicurezza” libera dalla presenza tanto di Daesh quanto dello Ypg. Putin ed Erdoğan tennero a Mosca una conferenza stampa congiunta (marzo 2017), dove Erdoğan dichiarò: «il vero obiettivo ora è Raqqa». La Turchia riteneva che lo Ypg fosse un’emanazione del Pkk e voleva escluderlo dall’operazione di Raqqa, alla quale auspicava invece di partecipare. Comunque, il 26 marzo, Sdf, fruendo ancora del sostegno statunitense, conquistò l’aeroporto militare di Tabqa, a 50 chilometri da Raqqa, controllato da Daesh dall’agosto 2014.

Il 13 novembre 2017 Putin ed Erdoğan s’incontrarono nuovamente a Soči. Si parlò dell’acquisizione del sistema di difesa antiaerea russo S-400 e del contributo di Mosca alla costruzione di una centrale nucleare ad Akkuyu, nel Sud della Turchia. Le divergenze riguardavano la Siria: Erdoğan lamentava l’intenzione del ministero degli Esteri russo di invitare esponenti del Pyd a prender parte al Congresso dei popoli della Siria, finalizzato a regolare la fase postbellica dell’ormai annoso conflitto. Il presidente turco aveva già criticato la dichiarazione russo-statunitense che riconduceva nell’ambito dei colloqui di Ginevra sotto l’egida dell’Onu la ricerca di soluzioni pacificatrici per la Siria: avrebbe preferito un prolungamento della sola conferenza di Astana per poter conservare maggiore influenza sugli sviluppi futuri nel paese; d’altro canto, non voleva polemizzare eccessivamente con Putin, al quale faticosamente era riuscito a riavvicinarsi, dopo l’aspra divergenza dovuta all’abbattimento d’un velivolo militare russo da parte turca nel novembre 2015 citato nel capitolo sui curdi in Turchia.

Ossessione anticurda: il sabotaggio turco della pace

Il 20 novembre 2017 Putin riceve a Soči al-Assad per definire la regolamentazione postbellica; una settimana dopo è prevista la ripresa dei colloqui di Ginevra. Ad Astana la Russia è riuscita a conseguire lo scopo di ridurre gli scontri armati tramite la creazione di quattro “zone di de-escalation” in territorio siriano; al-Assad intende dimostrare buona volontà, come richiesto da Putin, ma a sua volta esige qualche garanzia sulla “non ingerenza di attori esterni”.

Un paio di giorni dopo in una dichiarazione congiunta Putin, Erdoğan e Rohani invitano governo e opposizione a prendere parte a un Congresso dei Popoli impegnandosi a redigere una lista di partecipanti chiamati a elaborare una nuova Costituzione siriana e organizzare elezioni supervisionate dall’Onu. Fissata a fine gennaio, la riunione del Congresso risulterà inconcludente: nel frattempo, infatti, da un lato Turchia e Esl nel Nord, dall’altro truppe siriane con l’appoggio russo nell’area di Ghuta, a est di Damasco, ripresero l’iniziativa militare, svuotando di fatto il progetto.

Ossessione anticurda: i contrasti con gli Usa

A metà gennaio 2018 gli Stati Uniti, nell’ambito della coalizione internazionale impegnata contro Daesh, manifestarono la volontà di costituire in Siria una forza adibita alla protezione delle frontiere, che comprendesse 30 000 uomini. Con motivazioni differenti i più reagirono ostilmente. La Siria parlò d’attacco alla sovranità e all’integrità territoriale, la Russia accusò gli Stati Uniti di puntare a una suddivisione del paese e di adoperarsi per un cambio di governo; Erdoğan si irritò per il fatto che fosse prevista la confluenza in essa di membri dello Ypg: gli Stati Uniti, paese alleato di Ankara in ambito Nato, intendevano in sostanza proseguire la collaborazione con Ypg e continuare a fornirgli armi pur dopo che Daesh era stato sconfitto. Intollerabile per Ankara. 

Il Comando militare statunitense di Baghdad provò invano a sminuire la portata della nuova forza, indicando che essa avrebbe riflettuto la composizione etnica delle popolazioni dell’area in cui avrebbe operato, che l’apporto numerico di Sdf sarebbe stato solo della metà – necessario per garantire esperienza e disciplina –, che l’area da sorvegliare avrebbe incluso porzioni della valle dell’Eufrate, nonché aree di confine internazionale della Siria. La Turchia in riferimento alla costituzione della cosiddetta Forza per la Sicurezza delle Frontiere siriane negò di essere stata consultata da Washington e non poté tollerare che ciò implicasse il posizionamento pressoché costante di combattenti curdi al suo confine meridionale. Infatti erano già iniziati i colpi d’artiglieria contro le postazioni curde nell’enclave di Afrin.

Sconfinamento del conflitto: il ramoscello d’ulivo avvelenato

Sabato 20 gennaio 2018, nel pomeriggio l’attacco annunciato: aerei da combattimento turchi bombardarono postazioni nel Nord della Siria. Il bersaglio era costituito da postazioni d’osservazione dello Ypg nell’area di Afrin, come riferì l’agenzia di stampa turca “Anadolu”. Sull’attacco riferì anche l’Osservatorio siriano per i Diritti umani, che parlava di almeno dieci velivoli militari turchi implicati. La Francia richiedeva una riunione d’urgenza del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I prodromi risalivano a una settimana prima, quando le postazioni in territorio siriano controllate dai curdi erano state prese di mira da colpi d’artiglieria; a un raduno di suoi sostenitori, Erdoğan aveva annunciato come imminente un’operazione delle forze di sicurezza turche contro le milizie curde presenti nel Nord della Siria e lo scopo sarebbe stato di ripulire l’area di Afrin dalla presenza di forze terroristiche. 

In seguito all’offensiva, l’esercito turco sembrava intenzionato a far sloggiare lo Ypg non solo da Afrin ma anche dall’intera regione di confine siro-turca. Il 9 marzo, Erdoğan dichiarava che l’obiettivo di quel momento era Afrin, ma in seguito si sarebbe giunti a Manbij e dopo ancora si sarebbe garantito che l’intera area a est dell’Eufrate, fino al confine con l’Iraq, venisse “ripulita dai terroristi”. Il confine siro-turco a est dell’Eufrate si estendeva per circa 400 chilometri; in quel momento le truppe turche erano giunte a circa sei chilometri da Afrin e si preparavano ad assediarla. Vi penetreranno il 18 marzo.

A fine marzo 2018 Erdoğan criticò la proposta di mediazione, a suo dire “ingannevole”, proveniente dal presidente francese: la Turchia non intendeva negoziare con i “terroristi” curdi che stavano combattendo in Siria. Erdoğan accusò Macron d’intromissione nelle operazioni militari turche solo per aver ricevuto a Parigi degli esponenti di Sdf, mossa considerara da Ankara un atto ostile. Sdf era, per Erdoğan, alla stessa stregua del Pkk; d’altronde Unione europea e Stati Uniti non consideravano lo Ypg un gruppo terroristico. Agli esponenti di Sdf, Macron aveva assicurato sostegno per stabilire il dialogo con la Turchia e contribuire a stabilizzare l’area, tuttavia il proposito di dispiegare nell’area truppe francesi, asserito da esponenti della delegazione curda e riferito da giornali francesi, venne smentito dalla Francia; essa tuttavia non se la sentiva di abbandonare completamente i curdi, dopo esserne stata alleata nello sforzo bellico contro Daesh.

A metà giugno 2018, Turchia e Stati Uniti si accordarono; Ankara ottenne che le forze dello Ypg venissero allontanate da Manbij; truppe turche e statunitensi provvederanno d’ora in poi congiuntamente a pattugliamenti e ricognizioni dell’area. Lo Ypg attesta di aver concluso l’addestramento delle forze locali e d’aver pertanto avviato il ritiro da Manbij; tuttavia è ovvio che tale ritiro avviene dopo che lo Ypg ha ricevuto comunicazione da Washington dell’accordo turco-statunitense.

La Turchia continua a muoversi a tutto campo, al fine di non perdere la posizione finora acquisita sul fronte siriano allorché si tratterà di agire per instaurare sforzi multilaterali finalizzati a porre fine al conflitto in Siria. Punta a salvaguardare i gruppi ribelli moderati, che ha finora sostenuto e che sono ormai concentrati a Idlib e dintorni. A metà settembre, per evitare che fossero attaccati da truppe di al-Assad , si è accordata con la Russia a Soči per l’istituzione nella provincia di Idlib di una zona demilitarizzata, in vista della restituzione della zona stessa al controllo di Damasco. Ankara ha istituito molteplici postazioni d’osservazione nell’area, per supervisionare l’allontanamento degli armamenti pesanti dalla zona. Tuttavia permane l’obiettivo di arginare il consolidamento curdo nel Nord. A tal fine, a Soči la Turchia ha proposto che parte dei ribelli siano reinseriti nelle forze di sicurezza siriane e parte siano adoperati per contrastare un eventuale ritorno di forze curde nell’area di Afrin, a nord di Idlib. Nell’altra zona da cui i curdi sono stati allontanati, Manbij, la Turchia porta avanti l’impegno preso con gli Stati Uniti: sta infatti provvedendo ad addestrare truppe da adibire al pattugliamento congiunto turco-statunitense. Ciò potrebbe parzialmente consentire di lenire i dissapori recenti di Erdoğan con l’amministrazione Trump. Quest’ultima mantiene a sua volta un po’ di ambivalenza: continua ad avvalersi – nell’ambito della coalizione internazionale volta a estromettere il gruppo Stato Islamico dal territorio siriano – delle forze curde e arabe di Sdf: in particolare nell’assalto in corso all’ultimo baluardo di Daesh, Hajin, nelle vicinanze del confine siro-iracheno. Lo sforzo turco consta anche di una continua proposizione, e procrastinazione, di incontri ad alto livello fra Russia, Turchia, Francia e Germania: lo scopo è coinvolgere i governi di Parigi e Berlino, sul piano economico, nella ricostruzione postbellica siriana. Del resto né la Turchia di Erdoğan né la Russia di Putin sono in grado di provvedervi da sé in assenza di aiuti finanziari. 

Frags tratti da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, con i contributi di Giovanni Caputo, Kamal Chomani e Nicola Pedde, Torino, Rosenberg & Sellier, 2018, disponibile in libreria e su tutte le maggiori piattaforme online.