Gli spartiacque delle comunità latinoamericane – 2

L’anno elettorale sudamericano è stato ricco di responsi in grado di fornire materiali per scattare una serie di foto del mondo latinoamericano. Qui Alfredo Somoza sembra accennare a un abbozzo di modello per un nuovo approccio a una politica svincolata da corruzione e commodities, autoritarismo e oligarchie, che già si trovano al centro del suo libro.Vedremo se quello che troviamo in Siamo già oltre? e accennato qui può svilupparsi in una nuova socialità o rimarrà a livello simbolico.

Sollecitato dalle considerazioni di Diego Battistessa, che ha utilizzato la chiave di lettura delle molte tornate elettorali del continente sudamericano per evocare scenari reali e possibili nel prossimo anno 2022 nel primo di questa coppia di articoli, Alfredo ha immaginato innanzitutto una dicotomia forte tra due concezioni di progressismo, forse mondi altrettanto distanti tra loro dell’abisso che li divide da una destra priva di idee e livorosa, ma che continua a rappresentare istanze neoliberiste provenienti per lo più dall’estero, ma anche collaterali ai mondi sovranisti anche legati alle sette religiose. Un mondo che la sconfitta di José Antonio Kast, ammiratore del boia Pinochet, ha collocato definitivamente nei manuali di storia; un sistema imposto dalle strategie dei gringos e un grimaldello in mano all’ultraneoliberismo, che con le svolte provenienti dai responsi del 2021 viene messo in soffitta… Alfredo Somoza si appresta a immaginare cosa potrà nascere da questo fermento che è sorto dai Movimenti popolari scesi in piazza negli ultimi anni per i diritti negati dal neoliberismo e che insieme alle istanze di emancipazione delle comunità indigene stanno mettendo sotto scacco i fantocci del Fmi.

Anche in questa seconda parte abbiamo intervallato la prosa di Alfredo con podcast raccolti durante l’anno e talvolta inseriti a punteggiare l’e-pub del suo Siamo già oltre?


Le due sinistre sudamericane

L’anno elettorale latinoamericano è stato ricco di appuntamenti molto importanti sia per il loro peso specifico sia per quello simbolico. La prima lettura riguarda la legittimità del processo elettorale. Non sempre sono state rispettate le regole, come nel clamoroso caso del Nicaragua dove il regime guidato da Daniel Ortega ha inscenato elezioni presidenziali senza opposizione. Ma anche buone notizie in questo senso, come le elezioni dell’Honduras, paese nel quale negli anni si sono succeduti colpi di stato e manipolazione dei risultati, e dove ha vinto la candidata della sinistra senza che ci siano dubbi sulla trasparenza del voto. Lo stesso si può dire del Venezuela, dove pare siano state rispettate le regole nelle elezioni amministrative che hanno visto la vittoria del partito di Nicolas Maduro. I segnali più interessanti arrivano però da tre paesi andini, Ecuador, Bolivia e Cile. In Ecuador il candidato della nuova sinistra e dei movimenti indigeni Yaku Pérez non riuscì per 30.000 voti a passare al secondo turno, nel quale l’imprenditore Guillermo Lasso riuscì a battere il candidato correista per 400.000 voti.

Di Ecuador durante l’anno avevamo parlato con Davide Matrone, docente a Quito:
Ne avevamo parlato con Davide Matrone: “Flessibili alle riforme Fmi a Quito | a Guayaquil le gang in carcere sono inflessibili”.

Chiaramente buona parte degli elettori di Pérez non votarono per Andrés Aráuz al secondo turno, anche se di “sinistra”, e questo perché ormai esistono due progetti di sinistra che spesso, come in Ecuador, si scontrano. Una sinistra ormai “tradizionale” e che ha governato a lungo, dai forti tratti populisti, poco ambientalista e lontana dalle minoranze. Sono il correismo ecuadoregno, il peronismo argentino, il post chavismo venezuelano, il Mas boliviano. L’altra nata dalla lotta dei movimenti sociali, minoranze etniche e di genere, ambientalisti, contadini. E lo schieramento di forze che ha sostenuto Pérez in Ecuador, Verònica Mendoza in Perù, che sosterrà Petro in Colombia e che ha fatto vincere Boric in Cile; le due sinistre hanno in comune molti riferimenti culturali, ma una diversa concezione della democrazia. Per i primi, Cuba è legittimata anche a reprimere per tutelare la rivoluzione, per gli altri il diritto a protestare e a opporsi è sacro; per i populisti lo stato deve essere gestore ed erogatore di assistenza senza preoccuparsi dell’economia, per gli altri deve guidare una crescita economica in senso inclusivo; per i primi le denunce di corruzione sono solo un complotto ai loro danni, per la nuova sinistra la politica deve anzitutto avere le mani pulite.

Il Sudamerica dei due progressismi sta velocemente virando di nuovo a sinistra a maggioranza e per il 2022 si prevede che altri due grandi paesi cambino guida: Colombia e Brasile. Se questo sarà confermato resteranno piccole isole di centrodestra in Uruguay, Paraguay ed Ecuador. Rispetto allo scenario precedente simile, quello degli anni 2000, le cose sono però radicalmente cambiate: si sono spenti gli slanci continentali, cioè le ipotesi di creazione di aree di libero scambio e di democrazia multilaterali; si è tornati drammaticamente a dipendere dalle commodities, che tra l’altro in questo periodo hanno subito un calo del loro prezzo internazionale; l’alleanza con la Cina ha indebolito la democrazia e rinforzato i circuiti di corruzione. Il Sudamerica in questa fase non interessa a nessuno, nemmeno agli Stati Uniti di Biden che hanno come unica priorità fermare l’immigrazione centroamericana.

Soprattutto mancano leadership. La politica sudamericana si è rimpicciolita per quanto riguarda la capacità dei nuovi leader. Nel 2022 potremo vedere sorgere forse due nuovi punti di riferimento, Gabriel Boric e Lula da Silva se sarà presidente. Il Brasile isolato da Bolsonaro non è stato solo un danno per se stesso, ma anche per tutto il processo politico sudamericano; il ritorno di Lula alla presidenza potrebbe segnare l’avvio di una nuova fase, ma prima ancora si dovrà dirimere cosa si intende per progressismo e come lo si aggiorna di fronte alle sfide del domani. Da questo punto di vista la lezione boliviana è illuminante: quando Evo Morales forzò la sua stessa costituzione per perpetuarsi al potere, disconoscendo il parere del suo popolo che aveva bocciato la proposta con un referendum, la sua caduta era già scritta. Anzi, quella mossa è stata la miccia che aspettavano i settori golpisti e della estrema destra boliviana per spazzare via dal potere l’esperienza del Mas; quello stesso Mas che con un nuovo candidato, Arce, nel rispetto del dettato costituzionale è tornato al potere a grandissima maggioranza. È questa la morale valida per tutto il continente: quella sinistra sopravvissuta agli anni Settanta, uscita dalle lotte popolari e arrivata al potere grazie alla fine della Guerra Fredda e quindi dei vincoli di schieramento dovrebbe essere paladina della democrazia e della trasparenza, seguendo l’esempio di grandi presidenti come Raul Alfonsin o Pepe Mujica. Non sempre è così, è questo resta uno dei grandi spartiacque irrisolti che comunque non impediscono di vincere e governare in assenza di una destra seria e con un progetto che non sia la tutela dei propri interessi. In America Latina la democrazia, malgrado i problemi enumerati, è solida e la gente vota ormai chi gli somiglia. Grande conquista mai scontata che nel 2022 si consoliderà.