A chi è servito Daesh? La guerra internazionalizzata (e inefficace) e la costruzione del nemico

Perchè si parla di guerra internazionalizzata ?

Com’è stato possibile che l’Occidente sia caduto nella trappola del califfato e si sia lasciato coinvolgere in un conflitto che resta fondamentalmente interno all’islam, al di là delle stentoree dichiarazioni di guerra ai “miscredenti”, agli “infedeli”? Com’è possibile che l’ampia coalizione militare messa frettolosamente in piedi dai paesi arabi che si sentono in qualche modo minacciati dall’Isis sia stata fino a oggi così poco efficace?

In altri termini, i problemi sono di quattro ordini. Primo: come e perché i rapporti tra mondo occidentale e parte almeno di quello musulmano (non solo arabo) si sono tanto deteriorati nell’ultimo secolo da lasciar credere oggi a tanta parte dell’opinione pubblica che essi siano “sempre” stati cattivi? Secondo: attraverso quali fasi, e quali errori, si è giunti alla situazione attuale? Terzo: ci si trova dinanzi a una realtà davvero definibile in termini statuali, o a un’organizzazione terroristica che gioca sui due tavoli del tentato radicamento territoriale nel Vicino Oriente e della disseminazione di cellule di guerriglia tra Africa e Occidente? Quarto: com’è possibile che una coalizione così ampia da abbracciare, almeno in teoria, tutta la società civile del mondo intero contro quello che si proclama il Pericolo Pubblico Numero Uno non riesca ad aver ragione di una realtà politico-militare che in fondo, durante questi due anni, si è dimostrata tanto fragile da venir nella sostanza tenuta a bada dal sia pur debilitato esercito lealista siriano, da un po’ di milizie curde e da un pugno di pāsdārān iraniani, dal momento che l’amplissima e fortissima coalizione internazionale schierata contro lo Stato islamico, nonostante le migliaia di raid aerei fin qui realizzati, si è dimostrata inefficace? Siamo davvero dinanzi a una carenza di chiarezza sul piano del comune disegno politico, oppure in realtà l’Isis è servita e continua a servire a qualcuno e a qualcosa? E, se sì, a chi?

La risposta non può che partire da lontano: ma badate, non da tanto lontano come potrà sembrare a qualche lettore impaziente. La storia è vendicativa: la si può anche dimenticare, ma lei non si dimentica di noi. E il suo ritorno può essere molto brutale, magari inatteso, ma ha una sua logica di ferreo rigore. A quanti di voi l’espressione “Sykes-Picot” dice qualcosa di preciso? Eppure bisogna cominciare proprio da lì, da un secolo fa: da quando due diplomatici rappresentanti delle due potenze liberali impegnate nel primo conflitto mondiale disegnarono la mappa di quel che avrebbe dovuto essere il Vicino Oriente egemonizzato da francesi e britannici all’indomani della guerra, cioè una volta eliminato il “vecchio ordine” ottomano e senza tener il minimo conto delle genti che in quell’area erano insediate. Solo che, a quelle genti, la Repubblica Francese e Sua Maestà Britannica avevano fatto promesse precise e vincolanti: e su quelle basi alcune di esse, gli arabi sudditi dell’impero sultaniale – e, come sunniti, ligi al sultano ch’era anche califfo – si erano impegnati in quella guerra che noi conosciamo bene, se non altro, dall’efficace ancorché tendenzioso resoconto che il colonnello Thomas E. Lawrence ha tracciato nei Sette Pilastri della Saggezza. Il trattato anglofrancese e la ripartizione territoriale del Vicino Oriente che ne scaturì non violava soltanto le promesse che le potenze occidentali avevano fatto allo sharif al-Ḥusayn e alle tribù arabe che lo seguivano: violava confini nazionali, realtà religiose territoriali, antichi equilibri tradizionali per ritagliare su un territorio trattato come se fosse stato “vergine” – e che corrispondeva invece ai rapporti insediativi tra alcune delle più antiche e venerabili civiltà della storia umana – gli spazi ritenuti adatti alla nascita e allo sviluppo di “nuovi” stati destinati a vivere da satelliti delle potenze liberali sulla base di una mentalità che definire “coloniale” è un pietoso eufemismo. 

E l’analisi di Luizard prosegue impietosa, analizzando le conseguenze della “cattiva pace” di Versailles: l’Iraq, «uno stato contro la sua società», fondato sulla duplice dominazione confessionale dei sunniti sugli sciiti e degli arabi sui curdi, attraverso una catena di rivolgimenti e di colpi di stato fino al Totentanz delle guerre avviate nel 1980 con lo scontro iracheno-iraniano e non ancora concluso; la Siria, quasi “risucchiata” dalla questione confessionale e dove la “rivoluzione” socialista e nazionale del partito Ba’th, attraverso la rottura con la Repubblica Araba Unita nasseriana e la progressiva conquista dell’esercito da parte degli alauiti, ha finito con il provocare la reazione sunnita di rito hanbalita, prossimo al wahhabismo saudita e caratterizzato da un violento antisciismo; il Libano e la Giordania, nati direttamente dalla spartizione anglo-francese del Vicino Oriente fondata sul “regime dei mandati” (e complicata dalla questione sionista e, dopo la fondazione dello stato d’Israele del 1948, dall’irrisolto problema israelo-palestinese); la presenza di stati vicini come Egitto, Turchia e Arabia Saudita, portatori ciascuno di una propria politica e caratterizzati da tipi d’islam profondamente differenti tra loro. 

Lo Stato islamico, al di là del pericolo da esso rappresentato nell’equilibrio del Vicino Oriente e – attraverso l’azione terroristica – nel resto del mondo, non è quindi una causa, bensì semmai un effetto di un secolo di lotte e di errori. Se il tentativo più energico di fondare un nuovo tipo di società arabo-musulmana attraverso il ricorso alla “laicizzazione” proposta dalle varie componenti del fenomeno che indichiamo come “socialismo arabo” non fosse fallito per vari motivi, tra i quali primeggiano tuttavia l’ostilità delle potenze occidentali e d’Israele, e se il fondamentalismo d’origine salafita non fosse stato incoraggiato in varie occasioni – non solo nel Vicino Oriente, ma anche nell’Afghanistan degli anni Ottanta nel quale gli statunitensi e i loro alleati se ne sono serviti contro il governo socialista di Kabul e l’Armata Rossa –, ci troveremmo oggi forse dinanzi a un quadro differente da quello che siamo costretti a fronteggiare: e dove, incarnato dalla compagine califfale, emerge un islam fatto anche di occidentali, di foreign fighters che hanno in qualche modo conosciuto la Modernità ma l’hanno concettualmente respinta pur mantenendone i connotati tecnici. Il caso delle Brigate Femminili di al-Khansā, così denominate dalla poetessa del VII secolo soprannominata Madre dei Martiri e alle quali sono affidate importanti mansioni di “polizia etica” e nell’ambito delle quali pochissimo si pratica l’arabo parlato, è quantomai eloquente a proposito della situazione che ci troviamo ad affrontare. Qui, le informazioni che Luizard ci fornisce a proposito dell’organizzazione interna dello Stato islamico, del suo funzionamento, del rapporto tra propaganda e comunicazione e della politica califfale nei confronti delle minoranze sono illuminanti e anche molto equilibrate. Per esempio, il suo parere a proposito del rispetto, da parte dello Stato islamico, dei cristiani che accettano sul suo territorio lo statuto di dhimmi, cioè di “assoggettati-protetti”, diverge da quello di molti osservatori. 

Ma è di grande interesse, soprattutto, quanto l’Autore ci dice a proposito della specifica volontà, da parte dell’Isis, di mostrare se stesso in un modo che possa coincidere con il peggiore ritratto che molti occidentali tracciano della società musulmana nel suo complesso: come se l’ispiratore e il consigliere segreto del califfo e della sua équipe di governo fosse lo “scontro di civiltà” descritto e preconizzato da Samuel P. Huntington. Insistendo presso i musulmani sul tema della lunga prevaricazione degli occidentali sull’islam, ma al tempo stesso presentandosi come una forza fondata sull’universalismo della umma musulmana che non conosce limiti né etnici né nazionali, e si annunzia quindi come potenzialmente conquistatrice, l’Isis è in ultima analisi riuscita a ottenere quello che voleva: la grande coalizione occidentale guidata dagli americani che, attaccandolo, dovrebbe dimostrare al mondo intero che esso rappresenta il “puro islam” che gli infedeli vogliono distruggere, e che qualunque musulmano che si lasci convincere a fiancheggiare il progetto degli infedeli è perciò stesso un rinnegato, un traditore passibile di morte ai sensi della sharī ‘a.

D’altronde, la coalizione anti-Daesh per il momento – non osando portare lo scontro sul territorio nel quale ancora sussistono le forze califfali – altro non può fare se non affidarsi a forze a loro volta già da tempo compromesse nella destrutturazione del sia pur tutt’altro che ideale equilibrio vicino-orientale nato dalla Prima guerra mondiale. Luizard vede nella mancanza di un progetto politico da parte delle forze che avversano l’Isis il loro principale difetto politico: che cos’hanno gli eventuali “liberatori” da offrire agli arabi siriani e iracheni che in qualche modo si sono lasciati abbagliare, o convincere, o piegare, dal califfo? Ormai, una restaurazione degli antichi equilibri è divenuta impossibile per motivi tanto geopolitici quanto etno-religiosi. L’Iraq appare in mano alle milizie sciite che fatalmente guardano con simpatia al vicino Iran, ma non sembra che il riavvicinamento tra Iran e Stati Uniti (e perfino tra Iran e Turchia di Erdoğan, magari grazie al partner russo), e nemmeno quello diretto tra Stati Uniti e Russia – che del resto ha probabilmente le settimane contate, dato il prossimo avvicendamento nella Casa Bianca – stia aprendo la strada a soluzioni politiche nuove. Sia la Siria che l’Iraq parrebbero votate alla dissoluzione, magari camuffata da ridefinizione come stati federali: ma l’Isis, che appare a sua volta ormai in crisi, può aspirare a riciclarsi in forza musulmana “rispettabile”, come vorrebbero gli occidentali, tanto da proporsi come nucleo di uno stato sunnita arabo che magari non dispiacerebbe ai sauditi, addossato come si trova alla frontiera iraniana…

Non sembra quindi fuor di luogo, per quanto possa essere inaspettato e per questo stupirci un po’ (quanto meno, noialtri non francesi…), il fatto che nelle ultime righe del suo saggio Luizard torni a citare nientemeno che il vecchio nobilissimo Jules Ferry, «il padre della nostra scuola laica», che nondimeno difendeva con le unghie e con i denti (bec et ongles) la colonizzazione della Tunisia: quella che per noi fu “lo schiaffo di Tunisi” e la radice revanscistica del suo pur men che modesto colonialismo italiano… Siamo ancora prigionieri, in fondo, della vecchia contraddizione dell’Occidente: stato di diritto e diritti umani da una parte, “missione civilizzatrice dell’Europa” che peraltro – parole di Luizard, non mie – «è servito da copertura ad appetiti coloniali senza limiti». Appetiti, va aggiunto, complicati nell’ultimo secolo dalla questione del petrolio e dalla paradossale situazione creatasi da quando una dinastia di fedeli al credo islamico wahhabita (se di “credo islamico” si può ancora davvero parlare, per una dottrina che riduce insegnamento coranico e ḥadīt del Profeta all’ossessiva questione dell’unicità divina) da un lato si è vista padrona d’una buona fetta delle risorse energetiche del mondo, dall’altro si è aggiudicata il ruolo di fondamentale partner e alleata dell’Occidente sul piano militare ma anche su quello economico e finanziario; e ha posto le sue illimitate risorse al servizio della fitna antisciita. 

Forse, quando questo libro uscirà, lo Stato islamico sarà giunto da solo a una situazione di stallo; o forse lo squilibrio vicino-orientale si trascinerà ancora a lungo, vista appunto la carenza di soluzioni politiche che i governi occidentali sono stati in grado di proporre (o, peggio, gli errori che hanno fatto: senza ripensare a pagine più vecchie, basti pensare a quel che francesi e inglesi sono stati capaci di combinare tra Libia e Siria nel 2011). Nell’una come nell’altra evenienza, come si evolverà il rapporto tra presenza territoriale del califfato e disseminazione terroristica di cellule sue o che da esso si presentano come ispirate? Questa è forse, oggi, la più angosciosa domanda che noi ci poniamo. La “trappola dello Stato islamico” non sarebbe scattata, se il mondo occidentale avesse al tempo stesso combattuto con efficacia – ma la battaglia è ancora in corso – il pericolo terroristico, che si batte con l’intelligence, l’infiltrazione e la prevenzione socio-culturale, non certo con i raids aerei, e fosse riuscito a promuovere al tempo stesso una convinta e convincente risposta da parte dei suoi alleati arabi o comunque musulmani sunniti, i soli che dinanzi all’opinione pubblica islamica di tutto il mondo hanno il diritto di schiacciare la mostruosità ideologica travestita da estremismo religioso della quale in questo momento al-Baghdādī è formalmente il capo. Né i “crociati” occidentali, né gli “eretici” sciiti iraniani, potrebbero mai farlo senza trasformare gli adepti del califfo agli occhi del proletariato e del sottoproletariato musulmano del mondo – specie di quello dell’Africa – in altrettanti shuhadà, il martirio della fede. E noi sappiamo che l’ha spiegato quasi duemila anni fa il vecchio Tertulliano, che il sangue dei martiri è seme di nuovi fedeli. È questo il senso ultimo della “trappola” del Daesh. Un omicidio-suicidio.