La Siberia tra il Dragone e il Sultano

La luna di miele turco-russa è finita

La linea di faglia apertasi nel Nagorno-Karabakh ha dimostrato, se ce ne era ancora bisogno, che la luna di miele tra Turchia e Russia è ormai archiviata malgrado proprio sull’enclave a etnia armena Putin sia stato costretto – con gli accordi del 9 novembre – a un nuovo compromesso tattico per impedire il completo collasso del fronte. L’intraprendenza di quello che alcuni osservatori già chiamano “imperialismo ottomano” è sotto gli occhi di tutti e a Oriente i danni maggiori di tale intraprendenza li potrebbe subire proprio la Federazione. Non a caso sulla Moscova hanno da tempo iniziato a ricalibrare la politica nei confronti di Ankara: Sergej Lavrov, il ministro degli esteri russo, ha recentemente sostenuto di non aver mai considerato la Turchia “un alleato” ma solo un “partner”.  Il massiccio bombardamento russo a Idlib contro la guerriglia filoturca in Siria della fine di ottobre 2020, da questo punto di vista, è probabilmente stato un parlare a moglie perché suocera intenda. Ma la Transcaucasia è solo la punta dell’iceberg di uno scontro ben più ampio che parte dalla Crimea e si estende fino all’estremo Oriente russo ai confini con la Cina.

L’intelligence turca a caccia di spie

Il 16 ottobre scorso nell’incontro tra Volodomyr  Zelenskij e Recep Erdoğan non solo quest’ultimo ha dato il suo via libera alla cosiddetta “piattaforma di Crimea” promossa dal governo di Kiev (un’offensiva diplomatica volta al recupero della penisola annessa dalla Russia nel 2014, a cui guarda caso aderisce anche l’Azerbaijan) ma ha anche siglato degli accordi di collaborazione commerciali con l’Ucraina nel settore degli armamenti. La settimana successiva poi esplodeva una vera e propria spy-story tra Turchia e Russia. L’intelligence turca annunciava di aver arrestato il vicedirettore delegato di Bosphorus Gaz Emel Oztürk e altri quattro suoi collaboratori, che da tempo, secondo l’accusa, passavano informazioni riservate a un agente di Gazprom. Il gigante russo dell’energia avrebbe ottenute notizie sui volumi di acquisti di gas non russo della Turchia e dati sui giacimenti scoperti dalla Turchia nel Mar Nero quest’estate.

La guerra del gas

Al momento Putin fornisce a Erdoğan – via Turkish Stream – 7,75 miliardi di metri cubi all’anno di gas ma è chiaro che “l’indipendenza energetica” anelata da Erdoğan – se divenisse realtà – potrebbe rappresentare un duro colpo ai volumi di esportazioni russe, già in forse in Europa dopo che il progetto di North Stream 2 è entrato in stand-by in seguito al “caso Navalny”. Per tutta risposta la Duma russa ha fatto baluginare il blocco del turismo russo verso la Turchia, un business da qualche miliardo di dollari annuo. Più che punzecchiature tra i due eterni rivali con possibili conseguenze geopolitiche più vaste. La leva di un nuovo fondamentalismo islamico, di un califfato sui generis in cui la Turchia diventi la “protettrice di tutti i sunniti nel mondo”, potrebbe produrre una divisione insanabile tra i due stati. Si tratta di suggestioni – quelle dell’“imperialismo ottomano” – che vengono confermate negli ambienti diplomatici dei paesi balcanici anch’essi preoccupati dell’incipiente aggressività turca: «Indubbiamente, se analizziamo ciò che leggiamo e vediamo oggi, diventa chiaro che in alcuni circoli islamici radicali e organizzazioni religiose vaga l’idea che l’Europa dovrebbe essere un califfato islamico. Ciò che sta accadendo oggi in Francia, in Svezia, in altri stati dell’Europa occidentale, mi sembra che dovrebbe destare grande preoccupazione tra questi stati. Non mi occupo di attività di spionaggio in particolare, ma di tanto in tanto leggo in note analitiche che i servizi speciali turchi sono molto attivi», ha sostenuto l’ex ambasciatore serbo a Mosca, Slavenko Terzič.

Il Caucaso e il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”

Il riflesso dello scontro con la Francia sulla questione dei limiti del laicismo si è subito sentito a Mosca dove la preservazione degli equilibri, faticosamente costruiti dal regime di Putin, in una federazione multiconfessionale, sono considerati intangibili. Le manifestazioni antifrancesi guidate prima di tutto dai migranti azeri nella capitale russa sono state sì stroncate con durezza dalla polizia sul nascere, ma Putin ha voluto al contempo anche denunciare il “laicismo irresponsabile dell’Occidente”. Il terrorista che ha ucciso a Parigi l’insegnante francese faceva parte della diaspora cecena, e quindi formalmente antirussa, ma la reazione del presidente della Repubblica cecena Rusman Kadyrov, scagliatosi con forza contro Macron nei giorni successivi all’attentato, dimostra quanto gli umori dei musulmani del Caucaso restino antioccidentali: non è un caso che nel Caucaso russo furono migliaia i reclutati dall’Isis per la guerra in Siria. Del resto, non si soffia sulla “guerra di civiltà” solo da una parte: anche il primo ministro armeno Nikol Pashinyan aveva invitato gli stati europei a sostenere l’Armenia cristiana nel Nagorno-Karabakh in funzione antiturca, anche se sia Macron sia Trump hanno preferito fare orecchie da mercante.

Lo sguardo russo verso lo Xinjiang

Dmitry Ruschin, Professore Associato del Dipartimento di Teoria e Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di San Pietroburgo sostiene che “l’internazionalismo sunnita” di Ankara è veramente su scala globale: «Erdoğan sta perfino interessandosi della regione autonoma uigura dello Xinjiang dove Xi ha più di un problema. È del tutto possibile che in questo modo voglia diventare un unificatore dei popoli turchi e un leader islamico su scala globale. Curiosamente, lo scontro della Turchia con la Cina significa supporto automatico per Ankara da Washington perlomeno in quel contesto». E a medio termine ciò potrebbe condurre a un confronto diretto tra Russia e Turchia.

Siberia: la protesta anticentralista

In questo quadro la Siberia può diventare uno dei teatri più importanti. Dallo scorso luglio Khabarovsk, la più grande città dell’Estremo oriente russo, a un paio di centinaia di chilometri da Vladivostok, “porta bianca” ai mercati orientali, sono in corso delle manifestazioni di massa dopo che Sergej Furgal il governatore della provincia, outsider e antiPutin, è stato arrestato con l’accusa di essere il mandante di alcuni omicidi risalenti a un’epoca in cui non aveva ancora in carico l’amministrazione. Il protrarsi e le dimensioni del movimento di protesta segnala però in maniera evidente che le sventure del governatore sono state solo la miccia dietro cui covano a livello di massa spinte anticentraliste (oblastničestvo) nei confronti di Mosca se non apertamente secessioniste. “The Diplomat” ha riassunto così la situazione: «Sin dai tempi della Russia imperiale, i suoi paesi e città sono stati visti come una semplice estensione della nazione europea, una frontiera asiatica da colonizzare e domare. Come parte dell’Unione Sovietica, le deportazioni di massa verso est e il suo status di destinazione per i prigionieri dei GULag hanno rafforzato questa nozione. Ma ora, come dimostrano i manifestanti a Khabarovsk, l’estremo Oriente russo potrebbe formare la propria identità».

proteste pro-Furgal in Siberia

Un punto importante della contesa è che, mentre la Russia orientale detiene gran parte delle risorse naturali del paese – inclusi petrolio, gas e metalli preziosi – i proventi della loro estrazione sono ampiamente usati per rimpolpare i forzieri di Mosca piuttosto che arricchire le comunità locali.

E la terra va ai cinesi

Che la Cina sicuramente sia interessata a sfruttare a suo vantaggio la situazione che sta montando nell’estremo Oriente russo non è un segreto. In questa zona della Siberia gli investimenti del Dragone sono massicci e alla fine del 2018, proprio a Khabarovsk, un’azienda russa ha annunciato l’intenzione di affittare ben 100.000 ettari di terreno paludoso coltivabile a soia e affittarlo a imprese cinesi. Alexander Bortnikov, il presidente del Fsb, ha più volte segnalato l’attivismo di servizi di molti paesi in tutta la Siberia. E se il nome della Cina non è stato fatto ufficialmente, la presenza discreta di informatori cinesi nelle zona è stata più volte confermata da più parti.

Dietro la provocazione, la mano dei turchi

Chi invece sicuramente opera in quell’area è l’intelligence turca. Questa può fare affidamento su un vasto retroterra di gruppi fondamentalisti islamici nel Centro Asia allo sbando dopo il crollo dell’Isis. L’Fsb (Federal’naja služba bezopasnosti – Agenzia federale per la sicurezza interna) nell’ultimo anno ha contato ben 22 tentativi di organizzare azioni terroristiche e diversive in Siberia. Si tratta per lo più di incidenti provocati da foreign-fighters di ritorno ai confini del Tagikistan e del Kazakhstan collegati a contingenti più folti del fondamentalismo islamico afgano. Ma alcune di queste avrebbero segni e obiettivi diversi e rimanderebbero a un inedito protagonismo turco. In particolare parliamo di una fallita provocazione organizzata proprio a Khabarovsk questa estate nel momento più caldo delle dimostrazioni di strada, il cui mandante sarebbe da ricercarsi proprio ad Ankara. Secondo quanto riportato da Semyon Pegov – un reporter russo di guerra che da molti anni gravita tra il Medio Oriente e la Siberia – quest’estate l’organizzazione terroristica siriana Hayat Tahrir Al-Sham, supervisionata dai servizi speciali turchi, aveva reclutato due residenti di Khabarovsk, guarda caso di origine uzbeka e di fede musulmana, per organizzare il lancio di bottiglie molotov contro la manifestazione a sostegno di Furgal, al fine di far ricadere poi la responsabilità sul governo russo e rendere ancora più incandescente di quanto non sia la situazione nella provincia. Un’azione diversiva fallita in seguito all’arresto dei due provocatori prezzolati da parte della polizia russa, ma che dimostrerebbe quanto la Turchia intenda sfruttare le contraddizioni interne russe.