Le sanzioni internazionali funzionano?
Congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione, embargo commerciale, restrizioni finanziarie, nonché sanzioni secondarie e “indirette” come la chiusura di conti bancari… ma le sanzioni – oltre a portare alla fame le popolazioni civili – possono davvero spingere il governante di turno a cambiare la sua politica? Vari studi e rapporti dimostrano di no. Inoltre, perché le sanzioni abbiano legittimità devono discendere dalla condanna espressa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ed è qui che generalmente si inceppa il meccanismo – come ha spiegato alcuni mesi fa Alfredo Somoza nel suo ultimo volume – «perché il suo statuto prevede che Usa, Russia, Cina, Francia, Regno Unito siano membri permanenti e abbiano potere di veto su qualsiasi argomento discusso dal Consiglio. Questo meccanismo “truccato”, che fu pensato nella logica della Guerra Fredda, impedisce che il Consiglio di Sicurezza sia davvero una guida del diritto internazionale. Lo si è ancora verificato dopo il sanguinoso colpo di stato in Myanmar, non condannato a causa del veto russo e cinese».
E qui, in questo saggio, Giulia Della Michelina ci fornisce, dati alla mano, qualche strumento in più per capire i contorni di quest’arma a doppio taglio che rimane lo strumento punitivo di deterrenza più utilizzato dall’Occidente, mentre il podcast di Raffaele Sciortino fornisce un quadro degli sconvolgimenti sul sistema economico a livello globale e del ridimensionamento del ruolo di ciascuna delle grandi potenze, nonché di un loro potenziamento sotto nuova forma e sviluppo.
Negli ultimi mesi il dibattito attorno alle sanzioni e alla loro efficacia è tornato di attualità a causa delle tensioni tra Ucraina e Russia e alla guerra scatenata da quest’ultima. Si sta discutendo molto di “sanzioni senza precedenti”, embargo, restrizioni finanziarie e commerciali, e delle conseguenze economiche e politiche scatenate da queste misure, anche sui paesi che le impongono. A più di due mesi dall’inizio dell’invasione russa è lecito porsi una serie di domande: le sanzioni contro Mosca stanno avendo successo? Le misure adottate sono adeguate all’intento di sperare in un risultato positivo? E in quanto tempo? Più in generale ci si potrebbe domandare se lo strumento delle sanzioni funzioni davvero nelle controversie internazionali. Si tratta di questioni complesse, in cui oltre a considerazioni economiche e diplomatiche intervengono anche riflessioni di ordine morale e su cui analisti ed esperti non hanno un parere univoco. I dati a disposizione possono però aiutare a fare chiarezza e sembrano mostrare che, nella maggioranza dei casi, le sanzioni non funzionano.
Cosa sono le sanzioni
Come spiega Francesco Giumelli, professore associato al Dipartimento di Relazioni internazionali e Organizzazione internazionale (Irio) dell’Università di Groningen, le sanzioni sono provvedimenti di varia natura (complessive o mirate) solitamente adottati da uno o più stati (o organismi internazionali) che le impongono contro un soggetto (stato, azienda, persona) con lo scopo di modificarne un comportamento. Nel rapporto intitolato Quando sono utili le sanzioni internazionali? dell’Osservatorio di Politica internazionale, Giumelli individua tre sostanziali obiettivi dietro l’imposizione di sanzioni: coercizione, contenimento e segnalazione/ammonimento. Le sanzioni mirate (come restrizioni finanziarie, al commercio di armi, allo scambio di prodotti specifici e alla limitazione del movimento di persone), si legge nel rapporto, sono ormai prevalenti perché dovrebbero limitare i loro effetti agli attori responsabili dei comportamenti che si vorrebbero disincentivare, risparmiando quindi le conseguenze sulla popolazione.
Gli effetti sulle popolazioni
Eppure i dati rivelano che le ripercussioni delle sanzioni hanno un impatto importante, talora devastante, anche sui cittadini degli stati che si intende colpire. Secondo uno studio del “Journal of Development Studies” effettuato su 98 paesi per un periodo di 35 anni (dal 1977 al 2012) le sanzioni economiche riducono l’aspettativa di vita di 1,2-1,4 anni delle popolazioni e in particolare le donne risultano essere i soggetti maggiormente colpiti. In alcuni casi, le sanzioni comportano difficoltà nell’approvvigionamento di medicinali o presidi sanitari di base, come documentato da uno studio di Oxfam sugli effetti dell’embargo contro Cuba. In questo paese e negli altri stati più duramente sanzionati (Iran, Venezuela, Siria) secondo quattro esperti dell’Onu le sanzioni stanno impedendo il diritto allo sviluppo e aumentando il tasso di povertà, rendendo inaccessibili servizi essenziali come acqua, elettricità, gas, cibo e medicine. In Venezuela, le sanzioni hanno contribuito al più grave crollo del Pil nella storia dell’America Latina (74,3%).
Uno dei più drammatici esempi del costo umanitario derivante dalle sanzioni è il caso dell’Iraq, sottoposto nel 1990 a un durissimo regime sanzionatorio in seguito all’invasione del Kuwait. Già nel 1993 un report della Fao e del Wfp sottolineava come queste misure avessero causato «persistenti privazioni, fame e malnutrizione per una vasta maggioranza della popolazione irachena» e l’impossibilità di continuare con le sanzioni «senza aggravare la già drammatica situazione dei rifornimenti di cibo in Iraq».
Poche settimane fa diversi gruppi di attivisti hanno inviato una lettera al presidente Biden in cui si sottolinea il paradosso delle sanzioni, usate come strumento alternativo all’offensiva militare e tuttavia capaci di provocare vittime civili innocenti, e si richiede di rivedere radicalmente l’utilizzo di queste misure.
Le sanzioni funzionano solo nel 30% dei casi
Uno studio della Drexel University di Filadelfia riporta un drastico calo nell’efficacia delle sanzioni a partire dal 1995 e afferma che il tasso medio di successo si attesta al 30%. Inoltre negli ultimi due decenni si è riscontrata la tendenza al perdurare di sanzioni per anni, senza che il loro obiettivo venga considerato né soddisfatto né disatteso. Le sanzioni continuano semplicemente a restare in vigore, quasi per inerzia. Secondo lo studio questo sarebbe dovuto alla crescente complessità delle sanzioni e alla compresenza di target diversificati e spesso non chiaramente delineati.
Il fattore temporale non è un aspetto secondario perché, come ha dichiarato Benn Steil del think tank Council on Foreign Relations al “New Yorker”, «le sanzioni funzionano raramente e quando funzionano tendono a metterci molto tempo». E non a costo zero, si potrebbe aggiungere. Come per esempio nel caso della Rhodesia (attuale Zimbawe), che ha subito 10 anni di sanzioni e 20.000 morti per arrivare a un cambio di regime.
Le sanzioni secondarie
A tutto ciò si aggiungono le conseguenze “indirette” delle sanzioni, come nel caso che ha riguardato diversi cittadini iraniani residenti in Europa a cui è stato chiuso il conto corrente da un momento all’altro e senza spiegazioni da parte delle banche. Ciò si è verificato in seguito alla reintroduzione delle cosiddette sanzioni secondarie da parte dell’allora presidente degli Usa Donald Trump, ovvero quelle sanzioni che penalizzano indirettamente un soggetto colpendo chi fa affari con lui. In questi casi è molto costoso per le banche compiere verifiche per non incorrere nelle sanzioni, perché alcuni soggetti si avvalgono di prestanome o altri stratagemmi per aggirare il meccanismo. L’ipotesi è che ad alcune banche sia bastato accertare la nazionalità iraniana dei correntisti per chiudere arbitrariamente i loro conti: una piccola perdita incomparabile rispetto alle multe comminate in violazione delle sanzioni.
L’effetto rally-around-the-flag
Questi sono solo alcuni esempi di come le sanzioni agiscono e si ripercuotono concretamente sulla vita delle persone comuni. C’è chi sostiene che l’impatto di queste misure sui cittadini possa rivelarsi positivo e renderle più efficaci.
Una popolazione strangolata economicamente dal giogo delle sanzioni sarebbe più incline a protestare e a richiedere alla classe politica di conformarsi alle richieste esterne. Tuttavia non sempre questa tesi risulta veritiera.
In presenza di regimi autoritari, abituati a reprimere o a gestire il dissenso, è raro che le pressioni della cittadinanza apportino cambiamenti sostanziali alla linea governativa. Il rovescio della medaglia è il cosiddetto effetto rally-around-the-flag, ovvero la possibilità che la popolazione faccia fronte comune con i suoi leader contro i paesi sanzionatori, percepiti come i responsabili delle privazioni e delle difficoltà in cui si trovano. In questi casi la posizione dei governanti del paese sanzionato può addirittura rafforzarsi, compromettendo di conseguenza l’efficacia delle sanzioni. Questo effetto è stato riscontrato anche in Russia dopo le sanzioni imposte nel 2014 in seguito all’annessione della Crimea, percepite dal 71% della popolazione come un tentativo di “indebolire e umiliare” il paese.
Uno strumento essenziale di politica estera
Il passaggio alle sanzioni mirate a discapito di quelle complessive ha incentivato notevolmente l’uso di questo strumento, diventato ormai tutt’altro che eccezionale. Il rapporto dell’Osservatorio di Politica internazionale ricorda infatti che «la Carta delle Nazioni Unite indica le condizioni entro le quali è possibile ricorrere alla forza nelle relazioni fra stati, per esempio per legittima difesa o se autorizzata dal Consiglio di sicurezza come indicato dall’articolo 39 del capitolo VII, ma non pone condizioni per l’utilizzo delle sanzioni». L’articolo 41 prevede la sospensione delle relazioni economiche tra le misure che non implicano l’uso della forza, ma la vaghezza dei regolamenti ha di fatto portato le sanzioni a diventare uno strumento essenziale di politica estera per gli stati occidentali.
È bene sottolineare quest’ultimo aggettivo, poiché le sanzioni sono state finora appannaggio di questi paesi, che se ne sono serviti contro i nemici per le più svariate ragioni: pressioni diplomatiche, rivalità economiche, scontri ideologici, deterrenti per futuri attacchi. Le sanzioni sono molto più facilmente giustificabili di un’operazione militare davanti all’opinione pubblica e assicurano allo stesso tempo l’impressione di una presa di iniziativa rispetto a una situazione conflittuale.
Monopolio occidentale
Gli Usa sono il paese che impone il maggior numero di sanzioni: attualmente sono 37 i programmi attivi, alcuni dei quali in corso da decenni, e i paesi coinvolti sono una ventina. Una tendenza che negli ultimi anni, e in particolare dopo l’11 settembre 2001, risulta in crescita: da circa 6000 soggetti nel 2014 a quasi 10.000 del 2021. L’amministrazione Trump ha imposto il doppio delle sanzioni rispetto al predecessore Barack Obama e l’attuale presidente Joe Biden ha confermato finora questa inclinazione. Anche l’Unione Europea ha attivato decine di programmi di misure restrittive in 34 paesi, e le ha definite uno «strumento essenziale della politica estera e di sicurezza comune». Vi sono infine le sanzioni imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu che, dal 1966, ha stabilito 30 regimi di sanzioni. Attualmente sono in vigore 14 programmi, focalizzati sulla risoluzione dei conflitti territoriali, la non-proliferazione del nucleare e l’antiterrorismo.
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Il monopolio occidentale dello strumento sanzionatorio è legato a una delle condizioni della sua efficacia, ovvero il controllo sul sistema economico e finanziario globale. In altre parole il ruolo di primo piano nell’economia globale dei paesi occidentali, e in particolare degli Usa, renderebbe più efficace l’utilizzo delle sanzioni. Tuttavia, negli ultimi decenni il dominio economico e finanziario occidentale si sta sgretolando a favore di altri attori e ciò contribuisce a erodere anche l’efficacia delle sanzioni.
Paesi come Cina e Russia si stanno attrezzando da diversi anni a reggere il colpo delle sanzioni adottando diverse misure, come l’accumulo di riserve economiche (per esempio di oro) o con altri sistemi volti ad aumentare l’autosufficienza economica.
La Cina sta fortemente puntando sul decoupling (disaccoppiamento, su cui si intreccia un approfondimento di Raffaele Sciortino), rilocalizzando la produzione delle imprese americane fuori dal paese in settori strategici, e sul rafforzamento dell’autosufficienza nel ciclo produttivo.
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In aggiunta, l’interdipendenza delle economie porta alla luce un’obiezione non secondaria, ovvero le ripercussioni delle sanzioni sugli stessi paesi che le impongono. Questione che è stata ampiamente dibattuta nel caso della dipendenza dal petrolio e dal gas russi.
Le sanzioni contro la Russia nel 2014
In seguito all’invasione dell’Ucraina la Russia è diventato il paese più sanzionato al mondo, passando da 2754 tipi di sanzioni a oltre 10.000. A partire dal 2014, in seguito all’annessione russa della regione ucraina della Crimea, sono state imposte le prime sanzioni contro Mosca: congelamento di beni di individui e aziende, diniego di visti, divieto di importazione ed esportazione di armi in Russia, embargo commerciale sulla Crimea. Gli effetti delle sanzioni hanno fatto traballare l’economia russa per almeno due anni, facendo scendere il valore del rublo e aumentare i prezzi di molti beni per aziende e consumatori. Nonostante qualcuno le abbia ritenute troppo timide, le sanzioni del 2014 hanno giocato un ruolo di deterrenza nell’immediato, considerando che, secondo un report dell’Atlantic Council, l’invasione dell’Ucraina sarebbe già stata pianificata per quell’anno.Se le sanzioni hanno potuto arginare le azioni della Russia per un certo periodo, e avvalorare così le posizioni dei sostenitori di questo strumento, oggi possiamo dare una lettura diversa.
Dal 2014 la Russia si è adoperata per rendere la propria economia più resiliente di fronte alle pressioni esterne, accumulando circa 630 miliardi di dollari in riserve internazionali, il 50% in più rispetto al 2017.
Le ultime sanzioni hanno certamente scosso l’economia di Mosca, oltre ad aver gettato nel panico i russi, che hanno svuotato gli scaffali dei supermercati e si sono messi in coda davanti ai bancomat. Ma le manovre della Banca centrale russa hanno evitato il collasso e il rublo è ritornato al valore precedente alla guerra. Alcuni economisti, come Elina Ribakova dell’Institute of International Finance, sostengono che questi siano indicatori superficiali, utili alla propaganda del presidente russo Vladimir Putin. Le difficoltà nel reperire materie prime, la chiusura o la delocalizzazione di molte aziende e l’aumento dell’inflazione stanno già provocando effetti diretti sulla popolazione e, secondo le stime, sono già 200.000 le persone che rischiano di perdere il lavoro. L’impatto sul lungo termine sarà probabilmente devastante in termini di crescita, disoccupazione e abbassamento del livello di vita dei cittadini russi.
Ma come insegnano le esperienze precedenti di sanzioni, che le sofferenze della popolazione portino a dissuadere un leader dai propri criminali progetti è ancora tutto da dimostrare.