L’Iran da Astana all’Eurasia

Massima pressione americana e scenario multilaterale regionale

È passato inosservato l’ultimo vertice dei presidenti di Russia, Turchia e Iran, riuniti il 1° luglio scorso (in videoconferenza) per discutere gli ultimi sviluppi della situazione in Siria. Il virtuale incontro però aveva la sua importanza. Per cominciare, ha riaffermato che il cosiddetto “processo di Astana” non è defunto, come molti andavano annunciando.

Con questo nome si indica la serie di colloqui cominciata del dicembre 2016 nella città di Astana (Kazakhstan) per iniziativa di Vladimir Putin, Recep Tayyip Erdoğan e Hassan Rohani con l’inviato del segretario generale dell’Onu per la Siria: una iniziativa diplomatica per la pace in Siria, parallela agli (inconcludenti) colloqui sponsorizzati dall’Onu a Ginevra. Il format di Astana ha portato nel settembre 2017 a un accordo per istituire quattro “zone di de-escalation” nel territorio siriano, di cui le tre potenze si sono fatte “garanti”.

Non entreremo qui nei dettagli di come questi accordi si sono tradotti sul terreno: che la Siria sia ancora lontana da una effettiva stabilizzazione è sotto gli occhi di tutti. Il punto che qui interessa è che sotto lo stravagante format intitolato a una citta kazakha abbiamo tre potenze regionali che discutono compromessi e accordi in uno scenario, la Siria e il Vicino Oriente, dove però le rispettive agende politiche sono diverse e spesso in aperto conflitto. A cominciare dal fatto che la Turchia appoggia le formazioni ribelli sunnite che cercano di rovesciare il governo di Bashar al Assad, mentre la Russia e l’Iran si sono adoperati anche militarmente per tenerlo in piedi.

Più in particolare, il vertice di luglio è stato il primo da quando Turchia da un lato, Russia e Iran dall’altro si sono scontrati nella provincia di Idlib, la più ampia delle zone di “de-escalation” (la tensione era salita in febbraio con 33 militari turchi uccisi da un raid attribuito a jet russi, a cui la Turchia ha risposto attaccando forze del regime siriano e milizie sciite filoiraniane). Una relativa calma è tornata dopo che Erdoğan in marzo è volato a Mosca e ha concordato con Putin un cessate il fuoco, con un meccanismo di “corridoi di sicurezza” per garantire le vie di comunicazione, e di pattugliamenti comuni che però dovrebbe preludere alla ripresa di controllo delle forze di Damasco sulla provincia di Idlib (ovvero, sembrerebbe che Ankara abbia dovuto accettare le condizioni russe). In realtà molti segnali dal terreno fanno temere una ripresa di ostilità.

 

Integrazione attraverso scambi, favori e relazioni complicate

Eppure il comunicato congiunto del vertice tripartito lascia intendere che la Russia lascerà alla Turchia più tempo per concludere ciò che si è impegnata a fare nel quadro degli accordi di Astana, e cioè mettere sotto controllo i ribelli jihadisti siriani che operano nella provincia di Idlib. Le variabili sono numerose e complicate: dalla dinamica tra le formazioni ribelli più dipendenti dal sostegno turco (come Hayat Tahrir Shams) e quelle più radicali – al controllo delle province nordorientali a maggioranza kurda, che la Turchia considera una propria zona di pertinenza (tanto che occupa un’ampia “zona cuscinetto” con l’accordo di fatto degli Usa e anche della Russia). Concedere alla Turchia di occupare altro territorio siriano-kurdo potrebbe diventare moneta di scambio per recuperare zone strategiche controllate dai ribelli sunniti più a sud. Altre variabili poi ci porterebbero in Libia, un altro teatro di guerra internazionalizzata dove Mosca e Ankara sono su fronti contrapposti: le due crisi sono molto intrecciate.

Tutto questo dice quanto sia ancora lontano un assetto stabile che sia preludio alla pace in Siria. Intanto però il format di Astana afferma la sua esistenza sulla scena mediorientale come un fronte politico-diplomatico contrapposto a quello a conduzione statunitense.

La dichiarazione dei tre presidenti per esempio se la prende con «l’appropriazione e trasferimento illegale di risorse petrolifere che appartengono alla Repubblica Araba di Siria», allusione alle forze degli Stati Uniti che presidiano due campi petroliferi nella provincia nord-orientale siriana, la cui amministrazione autonoma curda (controllata dalle Forze democratiche siriane, filo Usa) ha di recente concesso a compagnie Usa il diritto di commercializzare il petrolio estratto. I tre presidenti ribadiscono inoltre l’impegno a difendere «sovranità, indipendenza e integrità territoriale» della Siria, quindi a «respingere iniziative illegali di autogoverno» – riferimento alla tentazione di affermare un’autonomia territoriale curda nel Nordest difesa dagli Usa. Condannano le sanzioni statunitensi contro la Siria.

La dichiarazione congiunta poi condanna «gli attacchi militari di Israele in Siria», e questa è una concessione al presidente Rohani: si riferisce alla serie di raid condotti nelle ultime settimane da forze israeliane contro obiettivi iraniani e delle milizie filoiraniane intorno a Damasco (l’ultimo episodio è del 20 luglio). Ma proprio questo è anche un esempio di come il format tripartito copra agende molto diverse. Infatti è dubbio che la Russia abbia davvero intenzione di reagire agli attacchi di Israele contro obiettivi iraniani in Siria. C’è perfino chi parla di un vero e proprio accordo dietro le quinte tra Mosca e Tel Aviv (che peraltro hanno intensi contatti diplomatici) per ridimensionare le milizie filoiraniane, e in generale la presenza dell’Iran in Siria.

Lo scenario è complicato, e anche le relazioni tra Tehran e Mosca lo sono. Nel 2015 l’Iran ha concesso ai jet russi in partenza dalle basi nella regione del Caucaso di sorvolare il proprio spazio aereo per andare a bombardare le postazioni dello Stato islamico in Siria, e a Tehran la cosa era presentata come il primo passo di una nuova alleanza strategica con Mosca. L’occasione era la comune “guerra alla Stato islamico”, o Daesh secondo l’acronimo in arabo (pare che ai russi interessasse in particolare colpire le milizie cecene all’interno delle formazioni jihadiste). L’Iran aveva già mandato forze speciali sul terreno a sostenere l’esercito governativo e organizzare milizie; l’entrata in gioco della Russia ha contribuito in modo decisivo a cambiare le sorti militari del conflitto siriano e salvato il regime di Assad.

Dal punto di vista dell’Iran, l’interesse strategico in Siria è evidente. Si tratta di un raro “paese amico” tra i vicini arabi (e da lunga data: negli anni Ottanta Damasco con Hafez al Assad, è stata l’unica capitale araba a non appoggiare l’invasione dell’Iran da parte dell’Iraq di Saddam Hussein), e di un’area di influenza strategica importante, via di comunicazione verso il Mediterraneo, accesso verso l’alleato movimento di Hezbollah in Libano: dunque quella che Tehran considera la sua “profondità strategica” nei confronti di Israele. Vedere a Damasco un governo sunnita di stampo saudita sarebbe per Tehran un disastro da evitare a tutti i costi. Per questo ha sostenuto l’esercito governativo siriano e varie milizie filogovernative, spesso addestrate e organizzate dalle Guardie della rivoluzione iraniana (anche se nessuno ne darà mai conferma ufficiale): cosa che continuerà finché le varie reincarnazioni di Daesh e di al-Qaeda avranno i loro sponsor. L’obiettivo iraniano è assicurarsi in futuro che a Damasco sieda un governo non ostile. Anche la Russia, che ha in Siria la sua unica base militare nel Mediterraneo, ha tutto l’interesse a garantirsi in Siria un governo amico.

Le convergenze di interessi però non sono eterne, e comunque non esclusive. Le milizie organizzate dalle Guardie della Rivoluzione iraniane in Siria (e in Iraq) sono state fondamentali per respingere l’offensiva dello Stato islamico (e il principale artefice di questo successo sul terreno è stato il comandante delle forze speciali al Qods, Qassem Soleimani, poi ucciso da un raid statunitense nei primi giorni di gennaio 2020 a Baghdad). Ma quelle milizie sono diventate ingombranti per molti, sia in Iraq che in Siria: che esista o meno un accordo dietro le quinte tra Israele e Russia, entrambe le parti hanno interesse a ridimensionare l’influenza iraniana sul terreno.

Questo non significa che l’alleanza strategica sia finita. E in ogni caso non impedirà a Russia, Turchia e Iran di tenere “al più presto” il prossimo vertice del “processo tripartito”, questa volta in presenza a Tehran su invito del governo iraniano (ma non c’è ancora una data).

 

Astana per uscire dall’isolamento: cooperazione e infrastrutture

Come valutare il “processo di Astana”, visto da Tehran? Per rispondere bisogna allargare lo sguardo. L’Iran ha un evidente interesse a far parte di una sede di diplomazia multilaterale. In primo luogo per restare nel gioco regionale: riaffermare che una soluzione per la Siria non può prescindere da tutte le parti in causa nella regione, e l’Iran è una di queste (si ricordi che i primi, vani tentativi di dialogo sulla Siria promossi in sede Onu avevano escluso l’Iran a causa del veto Usa: solo dopo l’accordo sul nucleare del 2015, su insistenza russa, i rappresentanti di Tehran sono stati ammessi ai “colloqui sulla Siria” – benché finora inconcludenti).

L’interesse però va oltre la Siria, per quanto importante. Il punto è che la Repubblica Islamica dell’Iran fa i conti con uno storico accerchiamento nella regione: politico, diplomatico, a volte militare (come quando le truppe Usa si trovavano in Iraq, in Afghanistan, oltre a pattugliare il Golfo Persico). L’accordo sul nucleare del 2015 (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato da sei potenze mondiali e dall’Iran) aveva rotto l’isolamento. Ma da quando nel maggio 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha deciso di buttare alle ortiche l’accordo, intorno all’Iran si è costruito un nuovo blocco: un muro di sanzioni senza precedenti. Benché unilaterali, il sistema di sanzioni Usa riesce a isolare l’Iran grazie al ricatto delle sanzioni secondarie (che colpiscono aziende e paesi terzi che abbiano contatti commerciali con Tehran). È la strategia della “massima pressione”. Non che sia riuscita a far crollare l’Iran, e difficilmente ci riuscirà: ma certo sta pesando molto. Dal crollo delle esportazioni di greggio alla difficoltà di acquistare pezzi di ricambio industriali, derrate alimentari o materiale medico, gli iraniani stanno pagando un prezzo molto alto.

L’Iran ha un disperato bisogno di rompere questo isolamento. Per questo, con il “programma tripartito” di Astana e ben oltre, l’Iran ha un interesse fondamentale ad approfondire la cooperazione strategica con la Russia, come del resto con la Cina. E con i paesi vicini. Con la Turchia in particolare l’Iran ha legami di vecchia data, sia politici che commerciali, culturali, umani (la Turchia è tra i pochissimi paesi dove i cittadini con passaporto iraniano non abbiano bisogno di un visto d’ingresso). Benché spesso in concorrenza sulla scena regionale, Tehran e Ankara mantengono una “cooperazione strategica” nell’interesse reciproco.

Tanto più importante è la sponda russa. Il 22 luglio scorso il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif ha concluso una missione a Mosca, dove ha portato un “messaggio speciale” del presidente Hassan Rohani a Vladimir Putin (il contenuto del messaggio non è stato diffuso), e dove ha discusso con il suo omologo, il ministro degli esteri Sergey Lavrov, una serie di questioni bilaterali e di coordinamento regionale. Non sapremo cosa si sono detti circa lo scacchiere siriano. Sappiamo però che Iran e Russia hanno concordato di definire un nuovo accordo ventennale di cooperazione strategica, che vada oltre quello attualmente in vigore (che scade in marzo).

Analogo accordo è quello che l’Iran ha in ballo con la Cina: un accordo venticinquennale di cooperazione economica e di sicurezza, che secondo alcune fonti sarebbe addirittura già stato firmato anche se finora è circolata solo una bozza ufficiosa e numerose illazioni (cosa che ha suscitato grandi critiche in Iran, e attacchi dell’opposizione conservatrice che accusa il governo di Rohani di “svendere” il paese). L’accordo è in discussione da quando il presidente Xi Jinping in visita a Tehran nel 2016 ne ha parlato con l’ayatollah Ali Khamenei, e tratterà di energia, telecomunicazioni, infrastrutture come porti e ferrovie – e del petrolio che la Cina comprerà dall’Iran.

Gli accordi di cooperazione con Russia e Cina sono di sicuro il tentativo, per l’Iran, di allentare la “massima pressione” statunitense cercando la partnership di due potenze altre (entrambe membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Ma in entrambi i casi la cooperazione è cominciata ben prima dell’avvento di Trump a Washington. La realtà è che la “massima pressione” avrà solo accelerato una dinamica che sarebbe emersa comunque, la tendenza a una maggiore integrazione in quello spazio di scambi e relazioni politiche ed economiche spesso chiamato “Eurasia” e di cui l’Iran è un tassello centrale, in senso geografico e politico: in cui si incrociano corridoi di trasporti e progetti industriali, la Belt Road Initiative cinese, i gasdotti russi, ferrovie, porti (come quello Chabahar sulla costa iraniana, possibile sbocco nell’oceano Indiano per molte repubbliche centroasiatiche). Uno spazio multilaterale in cui Tehran sta a pieno titolo.