Aukus: la Cina pesa pro e contro

L’operazione Aukus è l’essenza della strategia geopolitica di questo biennio, che rivendica postuma la capacità americana di impostare alleanze volte ad assediare il nemico, al punto di fare figure barbine a Kabul, pur di affrontare la Cina assicurandosi la piena potenza di fuoco per presidiare il Pacifico; anche a costo di offendere i permalosi francesi, suscettibili ai miliardi, ma soprattutto allo schiaffo inferto con la dimostrazione che i giochi si fanno altrove, lontano dalla grandeur parigina. In quell’altrove sulle coste occidentali del Pacifico dove si ordiscono trame, s’inventano trattati, si pongono veti, si tracciano rotte, si affronta il nuovo “pericolo rosso”. Tutto ciò che capita in giro in qualche modo è condizionato dalla profusione di energie da dedicare alla disputa del Mar cinese meridionale.

Della questione dei sommergibili, attorno ai quali si cominciano a vedere i contorni di un accordo più ampio (anche i droni saranno forniti all’Australia dalla Boeing – per spiegare a Parigi qual è il vero livello del Gioco), si sono occupati tutti, ma sempre trattando il problema in un’ottica neocolonialista, pochi hanno provato ad assumere il punto di vista delle potenze locali. “China Files” ci aiuta a colmare questa lacuna: questo articolo pubblicato da Alessandra Colarizi ci sembra evidenziare gli aspetti più interessanti della situazione che vede contrapposti Usa e Cina; e l’intervento di Sabrina Moles (anche lei redattrice di “China files”) su Radio Blackout, di cui proponiamo il podcast, risulta complementare. Con una appendice di affari interni sull’implosione della bolla Evergrande, che completa le questioni che attanagliano Pechino, gettando una luce su manovre strategiche interne alla Cina, ma che si possono analizzare in chiave internazionale ed estendere alla speculazione di tutte le borse internazionali.    


Grandi manovre geopolitiche nell’Asia-Pacifico: da una parte ci sono i raggruppamenti militari di Washington, dall’altra le alchimie economiche di Pechino. Nel mezzo i rispettivi partner asiatici e transatlantici che, chiamati a scegliere tra la sicurezza americana e le banconote cinesi, potrebbero finire per giocare la vera partita sullo scacchiere indopacifico.

Biden l’aveva messo in chiaro: al disimpegno americano dall’Asia Centrale sarebbe seguito un maggiore protagonismo nel quadrante asiatico. La nuova alleanza con Australia e Gran Bretagna – l’ “Aukus” – aggiunge un’altra freccia alla faretra di Washington. Come il Quad e i Five Eyes, la nuova sigla mira tra le righe a contrastare la crescente presenza e influenza militare della Cina nel Pacifico. Ma ha fatto infuriare i francesi, scippati di un accordo militare a nove zeri. L’Unione europea insorge, e non per semplice solidarietà comunitaria. Per la seconda volta dal ritiro statunitense dall’Afghanistan, gli States hanno ignorato l’opinione degli alleati europei. Lo strappo rischia di diventare una voragine.

Oltre la Grande Muraglia si pesano sulla bilancia pro e contro. Dopo l’esclusione di Huawei dal 5G australiano e l’indagine sull’origine del Covid-19, le relazioni tra Canberra e Pechino sono precipitate ai minimi storici. La creazione del nuovo triumvirato è un segnale inequivocabile del disagio provocato dalla crescente assertività cinese tra le potenze medie del quadrante asiatico. Ma non tutto il male viene per nuocere. Vediamo perché.

L’Aukus e la “deterrenza integrata”

Tutto è cominciato a febbraio, quando l’amministrazione Biden ha avviato una massiccia revisione delle forze armate americane a livello globale. Il prodotto finale è una “strategia della deterrenza integrata” che valorizza la fitta ragnatela di alleanze americane. In Asia, dove Washington vanta rapporti storici, le maglie della ragnatela sono piuttosto fitte. Fattore che, oltre a proteggere gli asset militari americani da eventuali attacchi, consente operazioni più vicine al territorio cinese. Oltre a dotare Canberra di sottomarini a propulsione nucleare, l’ “Aukus” si prefigge di rafforzare la presenza americana nella regione. Soprattutto dopo le incursioni marittime cinesi nei pressi di Guam. L’Australia si trova in una posizione particolarmente strategica, in quanto fuori dalla portata dell’arsenale cinese fatta eccezione per i missili a più lunga gittata. Secondo Euan Graham, senior fellow presso l’Institute for International Strategic Studies di Singapore, gli Stati Uniti starebbero cercando di collaudare un format già messo in pratica nei primi anni Quaranta, quando Washington e Canberra combatterono insieme il Giappone durante la Seconda guerra mondiale. La tecnologia cambia negli anni, ma la geografia no. Stando agli esperti, gli States ambiscono a parcheggiare i loro sottomarini a propulsione nucleare nella base militare di HMAS Stirling, a Perth, mentre l’isola australiana di Cocos (arcipelago delle Keeling), nell’Oceano Indiano, fa gola per l’affaccio sulle acque contese del Mar cinese meridionale. Una ridistribuzione delle forze di difesa nell’Asia-Pacifico permetterebbe di compensare nell’immediato la superiorità numerica della flotta cinese, la più estesa al mondo e in rapidissima crescita, per quanto ritenuta ancora meno performante di quella americana. Il tempo è dalla parte di Pechino. Secondo gli esperti, infatti, ci vorranno circa dieci anni prima che Canberra ottenga materialmente i nuovi supersommergibili.

Base militare di HMAS Stirling, a Perth

Il nemico del mio nemico è mio amico

Una “coltellata alla schiena”. Così la Francia ha definito la nuova alleanza tripartita, incassando il supporto dei vertici comunitari. Sentendosi nuovamente tradita dal vecchio alleato dopo il frettoloso ritiro dall’Afghanistan, non è escluso che l’Ue decida di optare per un cauto riavvicinamento alla Cina. Nello specifico, a trovare nuovo slancio potrebbe essere l’accordo sugli investimenti bilaterali (CAI), firmato alla fine del 2020 e congelato dal parlamento di Strasburgo a maggio dopo le tariffe incrociate sullo Xinjiang. Una possibilità remota (considerando il sentimento anticinese di molti eurodeputati), ma non da escludere dato il ruolo svolto da Francia e Germania negli annosi negoziati. Con l’imminente uscita di scena di Angela Merkel, ci si attende sarà proprio Macron – in caso di riconfermata alle presidenziali francesi del prossimo anno – a dettare l’agenda cinese dell’Ue nel prossimo futuro. Dopo il voltafaccia americano, è lecito presupporre una spinta anche maggiore verso l’“autonomia strategica” rivendicata dal blocco dei 27. Da tempo il gigante asiatico cerca di sfruttare le divergenze tra Bruxelles e Washington per aprire una breccia nell’alleanza atlantica. Le recenti frizioni rischiano di depotenziare la strategia indopacifica – presentata da Josep Borrell poche ore dopo la nascita di “Aukus” – che prefigura «modi per garantire dispiegamenti navali rafforzati da parte degli stati membri dell’Ue per aiutare a proteggere le linee marittime di comunicazione e la libertà di navigazione». Evidente riferimento a una presenza più massiccia nelle acque rivendicate da Pechino. Non è ancora chiaro cosa questo implicherà. Ma Parigi sta già ripensando le sue alleanze indopacifiche. Dopo lo smacco inferto da Canberra, proprio in queste ore si discute di una possibile cessione dei sottomarini francesi a Nuova Delhi. È troppo presto per dire se l’ira di Parigi (attenuata dopo la telefonata tra Biden e Macron) avrà ripercussioni più ampie per l’asse Washington-Bruxelles. Lo sapremo probabilmente il prossimo 29 settembre quando si terrà il primo incontro del Trade and Tech Council (TTC), piattaforma lanciata per promuovere il coordinamento su temi come il commercio, lo scambio di tecnologia e la protezione della supply chain, con i “valori democratici condivisi” come unico comune denominatore. L’impressione è che la fiducia sia ormai persa. Ma davanti alla minaccia cinese nessuno vuole rischiare che l’ “autonomia strategica” sfoci in un isolamento diplomatico.

Pechino gioca la carta commerciale

Solo poche ore dopo l’annuncio dell’“Aukus”, la Cina ha ufficializzato la richiesta di accesso alla Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (CPTPP), l’accordo di libero scambio fortemente voluto da Obama col nome di TPP e diventato il ritratto dell’“America First” dopo il ritiro di Trump. La carica simbolica della mossa cinese è quindi fortissima. Non solo Pechino potrebbe appropriarsi di un tassello fondamentale dell’ex Pivot to Asia obamiano. La contromossa cinese mette in evidenza come, davanti allo sfoggio di muscoli di Washington, la seconda potenza mondiale preferisca ricorrere ancora al “soft power”. Nonostante la minitrade war con Canberra, nell’ultimo anno la Cina ha chiuso, tra gli altri, un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda e ha strappato la scena all’Asean guidando le trattative per la Regional Comprehensive Economic Partnership, concluse a novembre. Presa da altro, invece, l’amministrazione Biden non sembra troppo interessata a sedersi ai tavoli negoziali. Per Pechino, invece, sta diventando sempre più un esercizio diplomatico. Molti dei paesi inclusi nel partenariato (come il Canada) hanno conti in sospeso con la Cina. Giocare la carta commerciale può servire a riannodare il dialogo. Per il momento il semaforo è rosso. Canberra – che come ciascuno degli 11 membri attuali ha potere di veto – ha già messo in chiaro che non permetterà un ingresso cinese a meno che Pechino non rimuova le ritorsioni commerciali imposte negli ultimi due anni. A prescindere dall’esito, gli analisti considerano il tentativo una mossa strategica che permetterà al gigante asiatico di rallentare le negoziazioni tra gli altri paesi compresi nella CPTPP, complicando l’ingresso della Gran Bretagna e, soprattutto, di Taiwan, che ha avanzato la propria candidatura solo pochi giorni dopo la Cina.

“Se lo fanno gli altri perché non noi?”

Tra le critiche mosse da Pechino contro l’ “Aukus” c’è quella di catalizzare la corsa all’atomo. Mentre infatti non è previsto siano armati con ordigni nucleari, tuttavia, i famigerati sommergibili saranno alimentati con uranio fornito dagli Stati Uniti e arricchito allo stesso livello usato per le bombe nucleari. “Se lo fanno gli altri perché non dovremmo noi?” potrebbero chiedersi a Pechino. Recentemente, il programma bellico cinese è tornato sotto i riflettori dopo la diffusione di immagini satellitari che identificano centinaia di silos adatti al lancio di missili balistici nucleari dispiegati nello Xinjiang e della Mongolia interna. Durante un incontro dell’International Atomic Energy Agency, Wang Qun, inviato della Cina presso le Nazioni Unite, ha invitato la comunità internazionale ad opporsi all’alleanza trilaterale, definendola un “puro atto di proliferazione nucleare”. Il trattato di non proliferazione nucleare (tpn) del 1968 che proibisce agli stati firmatari “non-nucleari” (come l’Australia) di procurarsi tali armamenti e agli stati “nucleari” (come gli Stati uniti) di trasferire a chicchessia armi nucleari o altri congegni nucleari esplosivi. Sino a oggi Pechino ha continuato ad additare il numero crescente di testate nucleari altrui per giustificare l’espansione del proprio arsenale. E proprio di recente l’ex ambasciatore cinese all’Onu per il disarmo ha suggerito di rivedere la “no-first-use policy”, che impone alla Cina – unica tra i firmatari del tpn – a non utilizzare per prima le armi nucleari contro qualsiasi altro stato.  La contrarietà di Pechino all’“Aukus” trova forza nei timori condivisi dagli altri attori regionali. La Nuova Zelanda ha fatto sapere che la flotta australiana non sarà esonerata dalla messa al bando di vascelli a propulsione nucleare dalle acque territoriali. A sollevare qualche preoccupazione per un possibile riarmo sono stati persino paesi come l’Indonesia e la Malaysia, con cui la Cina intrattiene rapporti non idilliaci. I toni rodomonteschi degli States da tempo mettono a disagio i player regionali, chiamati – loro malgrado – a scegliere tra le due superpotenze. Anziché svolgere una funzione contenitiva, l’ultima mossa di Washington potrebbe persino aiutare il gigante asiatico a ricostruire rapporti di buon vicinato.    


L’ottima analisi sullo specifico di Alessandra Colarizi si può integrare con le considerazioni di Sabrina Moles, che allarga all’intera area lo sguardo proprio partendo da Aukus, affrontando l’implosione di Evergrande, per arrivare a una nuova epoca di interventi per riformare nuovamente il sistema, affrontando le sfide che vengono dall’aggressività americana e dalla consunzione delle prassi interne di creazione di ricchezza: 

“25 La bolla di Evergrande e l’accerchiamento di Aukus: sfide al sistema”.