Nelle ultime settimane in Asia si è parlato molto della “battaglia” sugli investimenti tra India e Cina nel Sudest asiatico. Mentre voci discordanti da entrambi i paesi denunciavano le interferenze lungo il confine sino-indiano, il Myanmar emergeva come nuova pedina sullo scacchiere delle rispettive influenze regionali. Notizia passata quasi in sordina da noi, la portata degli investimenti – e delle promesse, degli accordi stipulati in questo periodo – potrebbe avere un impatto non indifferente sul paese asiatico. In particolare, Cina e India stanno puntando a un settore chiave: l’energia. La crescente copertura degli ultimi contribuiti al settore energetico è arrivata, non per caso, all’alba delle elezioni dell’8 novembre.

La narrativa che evidenzia le ambiziose iniziative per sostenere lo sviluppo del paese è una chiara intenzione del governo in carica guidato da Aung San Suu Kyi, che desidera provare all’elettorato che la svolta post-Covid è prossima. La Myanmar Investment Commission quest’anno ha infatti approvato 5,5 miliardi di dollari di investimenti esteri, un picco del 33% rispetto all’anno precedente. Il contesto locale rimane comunque tra i più rigidi nei confronti dei capitali provenienti da altri paesi, ma questo non ha impedito l’ingresso di nuovi attori economici negli ultimi sei anni,

Il bando per il fotovoltaico: 20 anni cinesi

Perché soprattutto Cina e India? A maggio il ministero dell’energia del Myanmar ha avviato una gara d’appalto per la costruzione di nuovi impianti fotovoltaici per la produzione di 30-50 megawatt. Unico problema: gli appaltatori avevano solo un mese per presentare la propria proposta (nonostante poi ci sia stata un leggero posticipo della deadline). La presenza cinese è stata schiacciante: su 155 proposte, due terzi appartengono a compagnie del Dragone. A breve si avranno notizie sull’esito ufficiale del progetto, che preoccupa gli osservatori per le conseguenze di una crescente presenza cinese nei settori chiave per lo sviluppo del paese. Il vincitore del bando, infatti, avrà in gestione per 20 anni gli impianti in partnership con l’azienda elettrica statale.

Non sono mancate le critiche da parte della comunità imprenditoriale birmana, poiché molte di queste aziende non hanno potuto dichiarare un fatturato annuo di 20 milioni di dollari negli ultimi tre anni. I nuovi impianti sono una delle scommesse più ambiziose del governo del Myanmar, che spera con il fotovoltaico di sopperire alle interruzioni di energia degli impianti idroelettrici durante la stagione secca. Quest’ultimo rimane a sua volta un settore ad altissima attrattività, occupando il 67% del mix energetico dell’intero paese contro il 32% dell’energia prodotta da fonti fossili.

E il petrolio in mano a Nuova Dehli?

La scommessa di Naypyidaw sulla crescita trainata dagli investimenti nel settore energetico ha attratto negli anni anche gli investitori indiani, che insieme alla Cina possono approfittare della vicinanza geografica per collegare il proprio mercato energetico al Myanmar. Anche Nuova Delhi punta ad accrescere la propria presenza nella regione per far fronte alla crescente leadership energetica cinese nell’area. L’ultima proposta riguarda il settore petrolifero con un’offerta di sei miliardi di dollari per la costruzione di una raffineria.

La cooperazione energetica tra i grandi player dei mercati asiatici e i paesi ASEAN apre degli spazi di dibattito sugli interventi esteri nel nascente mercato birmano. La domanda di elettricità è infatti destinata a crescere, dato che solo il 40% della popolazione ha accesso a forme stabili e sicure di energia. Ma sul territorio mancano ancora le premesse per intraprendere un percorso che possa soddisfare allo stesso tempo i criteri di sostenibilità, accessibilità e stabilità.

Le risorse naturali sono una delle variabili più influenti all’interno del conflitto interetnico in Myanmar: la crescente presa di potere della giunta militare prima, e del governo eletto nel 2015 poi, hanno contribuito a esacerbare le criticità sui diritti di sfruttamento tra periferia e centro.

Le risorse ecologiche del paese, come dimostra il settore energetico, sono enormi: non solo la potenza dei corsi d’acqua e l’esposizione solare, ma soprattutto elementi più “tangibili” come le foreste e le miniere hanno un potenziale economico importante. E, proprio per questo motivo, generano contese all’interno del paese. La gestione delle risorse da parte del governo centrale e, di riflesso, dei futuri investitori, è diventata un argomento spinoso all’alba del cessate il fuoco firmato nel 2015. Sin dal principio la transizione politica non poteva escludere quella economica, legata al potenziale intrinseco del territorio e la concessione dei diritti d’uso ai nuovi attori economici.

Come mostrano i dati, gli investimenti esteri in Myanmar non hanno tardato ad arrivare ed è soprattutto la Cina a trarne vantaggio, fattore che sta oggi attirando l’India a fronte delle crescenti tensioni con Pechino nell’area.

Questa corsa all’Eldorado naturale del Myanmar è allo stesso tempo un vantaggio e un rischio per la stabilità del paese, perché rappresenta l’epicentro delle attività di quello che Kevin Woods ha chiamato “capitalismo del cessate il fuoco (ceasefire capitalism)”. Con questo termine l’esperto indica soprattutto le attività legate all’estrazione del profitto dalle risorse naturali disponibili, soprattutto in quelle zone di confine dove i rapporti con l’autorità centrale sono ancora molto instabili, tra cui il Kachin ai confini con la provincia cinese dello Yunnan e il Rakhine confinante col Bangladesh.

Controllo centrale e attori coinvolti

È la complessa rete di attori che si muove tra le linee ancora non ben definite tra politica, comunità imprenditoriale ed esercito: in questo contesto il conflitto tra centro e periferia avrebbe quindi facilitato la creazione di strutture alternative del profitto. Questo processo rischia di fissare nel tessuto sociale ed economico del Myanmar una dinamica di eccessiva dipendenza dell’economia dal capitale naturale del paese, creando allo stesso tempo delle criticità fra minoranze locali escluse e attori stranieri in collaborazione con il governo centrale.

Non meno preoccupante è la crisi climatica: le risorse idriche da cui dipende il paese sono legate a corsi d’acqua principali (Irrawaddy, Sittaung, Chindwin, Mekong and Thanlwi) e i rispettivi 59 emissari oggi in forte deficit rispetto al passato. In un paese dove l’energia idroelettrica e il settore primario sono le basi dell’economia nazionale, il crollo della disponibilità di queste risorse entro i prossimi trent’anni diventerà un fattore determinante nelle politiche di gestione del territorio e della governance regionale. Allo stesso tempo, l’innalzamento delle acque fino a 40cm oltre i livelli attuali porterà delle infiltrazioni di acqua marina nell’entroterra, minacciando la stabilità dei terreni per i progetti infrastrutturali energetici.

In questo contesto la scommessa dei grandi attori energetici dell’Asia rappresenta un’opportunità per ridefinire il paesaggio attraverso il trasferimento di know-how agli attori locali, ma potrebbe anche rivelarsi una partita a breve termine come è già avvenuto in tanti altri contesti (ad esempio nel delta del Niger) dove, terminate le opportunità a basso costo, i conflitti per l’estrazione delle risorse sono riemersi con maggiore potenza a discapito del fattore ambientale.

Lo sfondo delle elezioni e la “transizione democratica”

Le elezioni dell’otto novembre sono la seconda occasione di scelta democratica in Myanmar, dopo la prima tornata che si era tenuta nel 2015 e aveva confermato il partito di Aung San Suu Kyi, il National League of Democracy (NLD). Oggi Naypyidaw è ancora governata da un ibrido tra il Tatmadaw (le forze armate birmane), che influisce sui ministeri chiave e mantiene un quarto dei seggi parlamentari, e la maggioranza etnica Bamar rappresentata dal partito dominante.

Erano almeno 90 i partiti in competizione e l’esclusione delle minoranze meno gradite al governo centrale rischia di riaccendere le tensioni nelle periferie del paese. Nel Rakhine la rimozione del 76% dei seggi elettorali (equivalente a 1,6 milioni di elettori) ha già provocato delle ritorsioni da parte dell’Arakan Army, un gruppo di militanti che chiede maggiore indipendenza e rappresentatività. Il clima delle elezioni non sembra però sconcertare gli investitori stranieri, che sembrano aver fiducia nel processo di transizione democratica in Myanmar nonostante i rischi ai confini con Cina e Bangladesh.

In Myanmar è difficile separare le complesse dinamiche dietro al processo di (ri)costruzione nazionale, e il fattore ambientale è destinato a rimanere centrale nel dibattito sullo stato dell’economia politica del paese. Se le previsioni degli scienziati sull’evoluzione della situazione climatica in Asia saranno confermate nei prossimi decenni, il paese dovrà affrontare un discorso sulla gestione delle risorse molto più ampio e complesso. E non potrà farlo da solo: il coinvolgimento sempre più importante dei vicini, non solo economico, ma soprattutto territoriale, porta a interdipendenze che la crisi ambientale rende – già oggi – instabili.