n. 1 – Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu e il conflitto russo-ucraino

Questo saggio di Fabiana Triburgo inaugura una serie di contributi che analizzano con approccio giuridico gli organismi sovrastatali come il Consiglio di Sicurezza che è l’organo più importante delle Nazioni Unite e che ha potere decisionale in ambito militare e sugli armamenti a livello internazionale, e come le Corti internazionali e quelle regionali; la serie continuerà con la descrizione del processo di alcuni stati di l’adesione all’Unione europea (anch’essa un organismo a carattere internazionale e sovranazionale). Sarà interessante vedere nel tempo – se finirà l’attuale follia bellica – che cosa rimarrà dell’Europa e capire quali sono le possibili porte girevoli da cui accedere all’Unione.

Questo primo intervento parte dal conflitto russo-ucraino per spiegare lo scopo della Carta delle Nazioni Unite, la fisionomia del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e le contraddizioni insite nelle normative che ne regolano l’attività, considerando il potere di veto per esempio della Russia quale membro permanente.


“Dove sono le Nazioni Unite?”. La domanda in riferimento alla guerra russo-ucraina che sta assumendo ogni giorno le dinamiche e i tratti salienti di un confitto internazionale, anche se principalmente per procura – sia mediante la fornitura di armi che di truppe di nazionalità diverse da quelle coinvolte direttamente nel conflitto – sembra il quesito maggiormente ricorrente, da oltre un anno, nell’opinione pubblica. La questione è invero l’emblema di quel divario – quasi mai colmato – tra quanto viene percepito dalla popolazione degli stati e quanto si determina attraverso il tecnicismo proprio dei “grandi palazzi del potere”, siano pur essi quelli di un’organizzazione internazionale quale l’Onu che detiene il primato tra quelle maggiormente rappresentative dell’intera comunità internazionale e quindi dei singoli stati che di essa fanno parte. La Carta delle Nazioni Unite, infatti, è un trattato internazionale, ma, dando vita a un complesso di organi preposti al suo interno – tra cui il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale, il Segretariato Generale e la Corte di Giustizia internazionale – è considerata in dottrina anche una Costituzione [B. Conforti e C. Focarelli, Le Nazioni Unite, 12a edizione].

La Storia e la Carta delle Nazioni Unite

L’immobilismo apparente in una svolta risolutiva del conflitto ucraino (ma anche di altri al momento in corso) da parte dell’Onu è dovuto a questioni tutt’altro che ovvie o di facile comprensione tanto che sul tema attualmente sono aperti ampi e contrastanti dibattiti riguardanti la revisione della Carta delle Nazioni Unite, in modo particolare rispetto al funzionamento e alla composizione del suo organo più importante ossia il Consiglio di Sicurezza.

Secondo l’art. 24 della Carta esso è l’organo dell’Onu principalmente demandato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale – uno degli scopi fondamentali della Carta elencati all’art. 1 –  potere conferitogli dagli stessi stati membri, con la possibilità di agire in loro nome.

È infatti necessario fin da subito sottolineare che lo scenario geopolitico che ha visto l’emanazione della Carta delle Nazioni Unite nel 1945 – nel corso della Conferenza di San Francisco – era completamente diverso rispetto all’attuale assetto internazionale per cui da 50 stati membri iniziali dell’organizzazione si è oggi arrivati a un numero di ben 193 paesi. Ciò è principalmente dovuto alla fine di numerosi colonialismi, alla dissoluzione dell’Unione sovietica e al conflitto dell’ex Jugoslavia, tutti fenomeni che hanno contribuito – pur se in modo molto diverso tra loro – alla formazione di nuove entità statali, dotate di una propria sovranità e indipendenza. Se rispetto alla rappresentanza degli stati, formatisi in seguito al venir meno dei colonialismi, si è data risposta nella Carta con l’emendamento che ha visto negli anni Sessanta l’estensione in seno al Consiglio di Sicurezza del numero dei suoi membri non permanenti, non si è invece ancora risolta la vicenda relativa a un ulteriore aumento della rappresentanza nel Consiglio di Sicurezza degli stati del continente africano e asiatico – che rivendicano il primato dell’indice demografico internazionale – e soprattutto quella concernente l’enorme divario, in termini di poteri esercitati in concreto, tra i membri permanenti del Consiglio – ossia le 5 potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale quali Urss, Cina, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna e i membri non permanenti, attualmente 10, rispetto ai 6 iniziali – nominati a rotazione tra tutti i membri delle Nazioni Unite ogni biennio – dopo la succitata modifica dell’art. 23 della Carta nel 1965.

Il diritto di veto

La principale questione quindi da affrontare per comprendere meglio le ragioni del mancato intervento diretto del Consiglio di Sicurezza rispetto al conflitto russo-ucraino, dato il suo ruolo di “custode” della pace e della sicurezza internazionale e considerato che esso dall’inizio del conflitto si è riunito oltre venti volte, è quella del diritto di veto. Esso infatti consiste nel potere, conferito ai cinque membri permanenti del Consiglio, secondo il quale l’espressione del parere contrario di uno soltanto di tali stati è in grado di fermare una proposta di risoluzione presentata in seno a tale organo, addirittura nell’ipotesi in cui non solo siano favorevoli tutti i membri non permanenti ma anche qualora siano comunque favorevoli all’adozione della decisione tutti gli altri quattro membri permanenti. L’unica ipotesi nella quale ciò non avviene è quando il Consiglio si riunisce per deliberare in merito a questioni di carattere procedurale e non sostanziale come per esempio l’inserimento all’ordine del giorno di una determinata questione o nell’ipotesi in cui il Consiglio ritenga necessario convocare l’Assemblea generale – organo plenario in cui sono rappresentati tutti gli stati membri –  in “sessione speciale” (art. 20) – che, come vedremo, è accaduto diverse volte in conseguenza dell’invasione russa dell’Ucraina nel 2022.

È bene ricordare che tale richiesta non veniva avanzata dal Consiglio da circa 40 anni.

Infatti, il periodo emblematico durante il quale l’attività del Consiglio fu quasi del tutto immobilizzata fu quello della Guerra Fredda, per cui spesso – essendo Russia e Stati Uniti entrambi membri permanenti – si verificava il cosiddetto sistema dei “veti incrociati” mediante il quale i paesi del blocco occidentale (Usa, Francia e Gran Bretagna) si contrapponevano all’allora Unione Sovietica o più in generale ai paesi socialisti e viceversa. Vale la pena quindi ricordare che attualmente – considerato l’aumento dei membri non permanenti dopo un ventennio dall’emanazione della Carta – la maggioranza richiesta affinché venga adottata una delibera su aspetti di carattere sostanziale in seno al Consiglio è quella di almeno nove membri, compresi tutti e cinque i membri permanenti. Nel caso invece di una delibera riguardante questioni di carattere procedurale è sufficiente la maggioranza di nove membri, senza la necessità dell’unanimità dei membri permanenti del Consiglio, poiché il diritto di veto in quest’ultima ipotesi non opera. Quindi in primo luogo il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – la cui presidenza di turno è stata assunta dal primo aprile 2023 proprio dalla Federazione Russa – non riesce a intervenire con effetti diretti nel conflitto russo-ucraino proprio per il diritto di veto. Al riguardo si rammenta che l’unica proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza, rispetto al conflitto in questione, ad essere stata adottata – dall’inizio del conflitto – è quella del 6 maggio del 2022.

La minaccia alla pace

La risoluzione è stata approvata all’unanimità da tutti i membri del Consiglio di Sicurezza e quindi con il voto favorevole anche della Russia. Con la succitata risoluzione proposta da Norvegia e Messico si sostengono gli sforzi del Segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres a trovare una soluzione pacifica nelle circostanze in questione;

tuttavia rispetto a tale risoluzione la Russia non ha posto il veto in quanto è l’unica risoluzione presentata dinanzi al Consiglio nella quale non vi è alcun riferimento nel testo né alla parola “guerra” né alla parola “invasione”.

L’esercizio del diritto di veto comporta poi anche una serie di conseguenze come per esempio il fatto che la Federazione Russa non possa essere destinataria delle misure coercitive ex art. 41 e  42 della Carta (Capitolo VII) decise appunto dal Consiglio contro determinati stati nell’ipotesi in cui esso stesso rileva sussistere una «minaccia alla pace», una «violazione della pace» o ancora un «atto di aggressione» (art. 39), ossia quelle condotte che potrebbero dirsi integrate con l’invasione armata dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Vale la pena ricordare che quando il Consiglio ha voluto applicare le sanzioni di cui al Capitolo VII ha sempre richiamato la «minaccia alla pace» che può consistere in un conflitto attuato o minacciato in situazioni di violenza bellica o diverse da questa.

Definire l’“aggressione”

Rispetto all’individuazione di queste ultime il Consiglio di sicurezza può trarre indicazioni dalle risoluzioni dell’Assemblea generale e quindi più precisamente dal consenso informale degli stati che viene valutato dal Consiglio caso per caso. Nel corso della storia il Consiglio di Sicurezza ha ritenuto rientranti nel concetto di “minaccia alla pace”: la repressione irachena dei curdi nel 1991, il genocidio e l’uccisione di civili in Ruanda nel 1994, gli attentati terroristici avvenuti a Istanbul nel 2003, quelli di Madrid nel 2004 e quelli di Londra e in Iraq nel 2005, così come le violazioni gravi e sistemiche dei diritti umani e del diritto internazionale nel Kosovo nel 1999. La minaccia alla pace non deve confondersi con la «minaccia o dell’uso della forza» vietate dall’art. 2 par. 4 in modo del tutto generico e indeterminato. Per violazione della pace ex art. 39, invece, si intende un conflitto interno o internazionale già in atto, anche nel caso in cui non sia stato raggiunto il livello più grave di aggressione. Infine, per la definizione di aggressione deve essere richiamata la risoluzione dell’Assemblea generale n. 3314 del 1974 che in tale termine ha annoverato un ampio numero di casi come l’invasione, l’occupazione militare, il bombardamento da parte di forze terrestri o navali, il blocco dei porti e delle coste o l’invio di forze irregolari o di mercenari da parte di uno stato verso l’altro.

È interessante però rilevare che il Consiglio di Sicurezza dal 1945 a oggi non ha mai dichiarato il compimento di un atto di aggressione ex art. 39, ma ha sempre preferito parlare di “violazione della pace” anche nelle ipotesi nelle quali si è verificato un vero e proprio atto di aggressione come nel caso dell’invasione del Kuwait nel 1991. Con il termine “pace” si intende poi in via interpretativa sia l’assenza di conflitti di caratteri interstatali o interni sia l’insieme di circostanze politiche, sociali ed economiche che impediscono l’insorgere di conflitti futuri. Quanto sovraesposto è di particolare rilevanza se si considera che il conflitto russo-ucraino sembrerebbe integrare –  con riferimento all’elenco contenuto nella succitata risoluzione n. 3314 del 1974 – un atto di aggressione.

Misure coercitive (prive di uso della forza)

Con riferimento alle misure coercitive di cui sopra, all’art. 41 sono previste quelle non implicanti l’uso della forza – adottate dal Consiglio di Sicurezza mediante decisioni – che tendono per lo più a isolare a livello internazionale un paese che ha posto in essere una condotta rilevante ai sensi dell’art. 39. Tra le misure di cui all’art. 41 si annoverano, infatti, l’interdizione parziale e totale delle relazioni economiche, l’interdizione delle comunicazioni come per esempio quelle ferroviarie, postali e marittime e la rottura delle relazioni diplomatiche. Si ricorda che tali misure, come quelle implicanti l’uso della forza nei confronti degli stati – di cui al successivo art. 42 – devono essere rispettate non solo dal paese che ne è diretto destinatario ma anche dagli altri stati membri delle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 25.

L’uso della forza

Le misure implicanti l’uso della forza ex art. 42, invece, vengono decise mediante delibere operative del Consiglio di Sicurezza che mantiene anche la direzione di tali provvedimenti quando vengono attuati in concreto. Tuttavia, va fin da ora precisato che il sistema di sicurezza collettivo internazionale che si sarebbe dovuto basare sull’affidamento da parte degli stati dell’impiego della forza armata al Consiglio di Sicurezza, ossia a un organismo imparziale – per tutte le questioni riguardanti la pace e la sicurezza internazionale – ha subìto un vero e persistente fallimento. Basti pensare che le disposizioni di cui agli artt. 43 e seguenti – che tra i vari obblighi prevedono quello per gli stati membri di stipulare accordi con il Consiglio di Sicurezza per concordare il numero di uomini, il grado e la dislocazione di contingenti che ciascun paese deve mettere a disposizione dell’organo – sono rimasti “lettera morta” poiché non è stato mai creato un corpo militare univoco composto dai vari contingenti nazionali dei Paesi membri che facesse capo al Consiglio di Sicurezza. È per tale ragione infatti che sono nate e si sono consolidate le missioni di peace-keeping e le autorizzazioni all’uso della forza da parte del Consiglio agli stati membri: entrambe le ipotesi non sono previste da alcun articolo della Carta ma create da consuetudini integrative della medesima. Qualora non vi fosse il diritto di veto, dunque, le misure coercitive previste dall’art. 42, ossia misure implicanti l’uso della forza, adottate dal Consiglio mediante risoluzioni, potrebbero essere applicate in linea di principio – come anche quelle ex art. 41 – nei confronti della Federazione Russa. Infatti, con riferimento alla minaccia alla pace – intesa come violenza bellica – l’unica ipotesi nella quale le misure coercitive di cui sopra non possono essere applicate è quando uno stato agisce per legittima difesa individuale o collettiva ex art. 51.

Tuttavia, perché tale limite all’applicazione delle misure coercitive operi è necessario che l’attacco armato da parte di un altro stato sia già sferrato o in procinto di colpire un obiettivo. Per tale ragione è escluso l’impiego della forza per fini meramente preventivi.

Non è infatti un caso che nel discorso divulgato nella notte tra il 23 e il 24 febbraio del 2022 il presidente del Cremlino Putin dichiari primariamente: «non c’è stata lasciata altra scelta che difendere la Russia e il nostro popolo se non quella che stiamo oggi per compiere. In queste circostanze dobbiamo immediatamente e con coraggio entrare in azione» e dichiara che in tale contesto si stia agendo «in conformità con l’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite». In realtà il presidente russo quando richiama la necessità di difendere la Russia e il suo popolo fa riferimento indirettamente all’espansione della Nato verso est ossia sempre più in prossimità al territorio della Federazione Russa, circostanza questa che delinea il proprio intervento armato come squisitamente preventivo.

Legittima difesa?

È noto tuttavia che non sia questa l’unica circostanza nella storia nella quale uno stato membro abbia richiamato esplicitamente la legittima difesa per giustificare un uso della forza militare in chiave preventiva. Si ricordi tra tutti il caso della sentenza emanata dalla Corte di Giustizia delle Nazioni Unite del 1986 contro gli Stati Uniti per le operazioni militari in Nicaragua, affermando che queste eccedessero notevolmente la legittima difesa. Più recentemente non sono chiaramente ascrivibili all’esercizio del diritto di difesa degli stati di cui all’art. 51: la guerra contro l’Afghanistan nel 2001, il bombardamento della Libia nel 1986, la guerra contro l’Iraq nel 2003 e il bombardamento della Nato (organismo regionale i cui rapporti con il Consiglio di Sicurezza – come vedremo – sono disciplinati nel Capo VIII) contro la Repubblica dell’ex Jugoslavia durante la crisi del Kosovo nel 1999. Tuttavia, il Capo del Cremlino nella parte iniziale del suo discorso – evidentemente orchestrato ad hoc – fa un riferimento indiretto anche a quella parte dell’art. 51 che consente non solo la difesa da parte dello stato attaccato (autotutela individuale) ma anche quello operato da stati diversi da quello attaccato (autotutela collettiva) purché con il consenso di quest’ultimo. Tale richiamo a questa ulteriore parte dell’art. 51 viene esplicitata nella frase in cui il presidente della Federazione Russa sostiene che «Le Repubbliche popolari del Donbass hanno chiesto l’aiuto della Russia». Le Repubbliche popolari del Donbass, però, non hanno i caratteri propri degli stati nazionali, dotati di una propria sovranità e indipendenza, facendo essi parte a pieno titolo del territorio dell’Ucraina. Al riguardo è importante richiamare la risoluzione presentata a settembre del 2022 dagli Stati Uniti e dall’Albania in seno al Consiglio di Sicurezza di condanna dei referendum voluti dal Cremlino per l’annessione delle aree ad est dell’Ucraina in particolare delle repubbliche Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia, Kherson. La risoluzione ovviamente non è stata adottata proprio in ragione del veto della Russia e rispetto a essa si sono registrati 10 voti a favore ma 4 astenuti ossia Cina, India, Brasile e Gabon che hanno dichiarato di non voler inasprire ulteriormente la tensione internazionale.

Le risoluzioni pacifiche

Per completezza si ricorda che il Consiglio di Sicurezza sempre ex Capo VII e quindi in caso di minaccia o violazione della pace o aggressione (ex art. 39) può anche adottare «congiuntamente o alternativamente» alle misure coercitive, raccomandazioni non vincolanti con le quali indica agli stati interessati procedure e termini di regolamento quali: i negoziati, la mediazione, l’arbitrato e la conciliazione per la risoluzione delle controversie tra gli stati membri. Vale la pena ricordare che tali raccomandazioni ex art. 39 del Capo VII sono simili a quelle che il Consiglio emana ex Capo VI concernente la funzione conciliativa dell’organo, volta a una risoluzione pacifica di questioni o controversie che siano in grado di «mettere in pericolo il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale» (artt. 33, 36, 37) e che quindi non integrano chiaramente le minacce o le violazioni della pace o gli atti di aggressione di cui all’art. 39. Nelle ipotesi del Capo VI infatti, il Consiglio ha il potere di adottare – dato in questo caso l’obiettivo della risoluzione pacifica – raccomandazioni sempre prive di forza vincolante rivolte agli stati interessati. Tuttavia, se il Consiglio di Sicurezza nell’adottare le misure previste dal Capo VII – ivi comprese le stesse  raccomandazioni – agisce come “protagonista” a livello decisionale contro determinati stati e anche tutti gli altri – diversi da quelli destinatari delle misure – sono obbligati a collaborare perché queste siano efficaci, nel Capo VI sono soltanto gli stati membri destinatari delle raccomandazioni i veri, protagonisti, in quanto hanno l’esclusiva possibilità di tramutare la forza propulsiva di tali atti del Consiglio in azioni che possano considerarsi in concreto risolutive rispetto alla controversia o alla situazione in questione.

Tale distinzione tra le due funzioni del Consiglio – coercitiva e conciliativa – è rilevante in particolar modo con riferimento all’obbligo di astensione dal voto di uno stato previsto dall’art. 27 par. 3. Esso opera infatti soltanto nei confronti di uno stato membro del Consiglio di Sicurezza parte di una controversia relativa a decisioni di cui al Capo VI e non anche nel caso delle decisioni concernenti le misure coercitive del Consiglio di Sicurezza. Inoltre, l’apposizione del veto – comportando l’impossibilità di comminare per la Russia misure coercitive – determina come conseguenza anche quella di non poter essere destinataria di una sospensione dallo status di paese membro delle Nazioni Unite in quanto all’art. 5 della Carta è stabilito che «lo stato membro verso il quale il Consiglio abbia intrapreso un’azione punitiva o coercitiva può essere sospeso dall’esercizio di tutti i diritti e privilegi in seno all’Organizzazione con un’apposita delibera dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di Sicurezza».

Nel caso della Russia quindi non sarebbe possibile la sospensione, oltre per l’inapplicabilità delle misure coercitive, anche per il fatto che la stessa dovrebbe appunto essere proposta dal Consiglio di Sicurezza e la Russia quindi potrebbe apporre di nuovo il veto.

L’eccezione

A ogni modo l’unico caso in cui una Nazione sia stata sospesa come membro delle Nazioni Unite è quello del Sudafrica in ragione dell’Apartheid dal 1974 al 1994 ma fu una sospensione “anomala”, in quanto intervenne direttamente ed esclusivamente da una decisione dell’Assemblea generale senza la proposta del Consiglio di Sicurezza prevista dall’art. 5.  Rispetto all’espulsione di uno stato membro, prevista dal successivo articolo 6, nell’ipotesi in cui uno stato violi persistentemente la Carta, rileva la stessa preclusione in quanto la procedura prevista anche in questo caso prevede come presupposto della delibera dell’Assemblea Generale la richiesta del Consiglio di Sicurezza. Vi è da dire inoltre che tale norma dall’emanazione della Carta non ha mai trovato applicazione nei confronti di uno stato membro delle Nazioni Unite. Date le succitate preclusioni si è riaperto quindi il dibattito – in realtà mai sopito e iniziato nel 1990 – sulla possibilità della revisione della Carta delle Nazioni Unite prevista dall’art. 109.

Essa differisce dal semplice emendamento della Carta, di cui all’art. 108 – mediante il quale nel 1965 è stato aumentato il numero dei membri non permanenti – perché configura modifiche che incidono sensibilmente sulle caratteristiche dell’Organizzazione. Tuttavia, la procedura prevista dagli articoli 108 e 109 della Carta, anche se differente, in entrambi i casi non può essere portata a termine se non con il consenso di tutti e cinque i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

Quindi per risolvere le questioni analizzate si dovrebbe ipotizzare una revisione della Carta che restringesse l’ambito operativo del diritto di veto dei membri permanenti – come quella proposta in passato dalla Francia – secondo la quale il diritto di veto dovrebbe essere limitato in presenza di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini relativi alla violazione dei diritti umani.

Con onestà è lecito affermare che risulta molto difficile che i membri permanenti – senza l’unanime consenso dei quali non vi può essere né revisione né emendamento della Carta – rinuncino ai privilegi derivanti dal diritto di veto a loro riservato. Tale eventualità si considera quasi impossibile poi data l’attuale posizione della Russia nel pieno di un conflitto internazionale e quella delle Nazioni del “blocco occidentale del Consiglio di Sicurezza” che sostengono l’Ucraina. Tutto ciò premesso rimane quindi soltanto la possibilità di monitorare costantemente i lavori dell’Assemblea generale, sia per il fatto che essa stessa è stata convocata, in conseguenza della paralisi derivante dal diritto di veto, in sessione speciale dal Consiglio più volte (considerata anche la risoluzione dell’Assemblea generale n. 377 del 1950 che verrà analizzata in seguito) sia perché resta pur sempre l’Organo nel quale sono rappresentati tutti i paesi facenti parte dell’Onu, anche se in ambito del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale può emanare solo raccomandazioni verso gli stati, verso il Consiglio di Sicurezza o verso entrambi, prive di forza vincolante.

Ne consegue infatti che dalle raccomandazioni dell’Assemblea generale si riesce a desumere in quale direzione vada la posizione dei singoli stati membri rispetto a un conflitto che, essendo ancora così lungo e foriero di continue esacerbazioni, può vedere il cambiamento radicale della loro posizione rispetto a quest’ultimo considerato che – come vedremo in seguito, analizzando le decisioni dell’Assemblea generale sul tema – al momento non si intravede ancora l’unanime condanna della comunità internazionale dell’invasione del territorio ucraino da parte della Russia.