Questioni dottrinarie in Medio Oriente
Ma come avevano reagito gli sceicchi alauiti all’abbraccio sciita degli ayatollah al-Sadr e al-Shirazi? Ed era cambiato qualche cosa nella loro dottrina? Rispondere a questo quesito è assai complicato: un conto era quanto veniva proclamato in pubblico, ben altro era stabilire davvero quale dottrina seguissero gli alauiti in segreto. Forse alcuni degli sceicchi più giovani e istruiti avevano cominciato a formulare una sorta di riformismo alauita per avvicinarsi maggiormente alla teologia e alla filosofia dello sciismo duodecimano. In realtà in una fede esoterica come quella alauita le dispute dottrinarie tendevano a restare confinate a una cerchia ristretta di iniziati: le bocche erano cucite e le lingue si scioglievano soltanto per ripetere che gli alauiti appartenevano allo sciismo, una sorta di mantra recitato per respingere l’accusa di essere miscredenti.
Le questioni dottrinarie poi erano quasi inseparabili dalle dispute sull’autorità religiosa: e in questo campo non ci furono cambiamenti. Gli sceicchi alauiti siriani non riconobbero nessuna autorità e nessuno di loro seguì mai i fatwa o le indicazioni religiose che venivano da Qom e Najaf.
Questo era un punto cruciale. Fino a quando si fossero rifiutati di riconoscere l’autorità religiosa dei più importanti mullah sciiti, gli alauiti non avrebbero mai potuto ottenere un riconoscimento dei grandi ayatollah della statura di un Abol Qassem Khoi a Najaf oppure di Qassem Shariatmadari a Qom, considerati dei marja e-taqlid, fonti di imitazione, quindi dotati di un prestigio assoluto nel mondo sciita del tempo e che oggi può vantare soltanto Alì al-Sistani, il grande ayatollah iraniano, allievo di Khoi, che risiede dagli anni Settanta in Iraq.
I Naqshbandi
Tutto questo è dimostrato da una vicenda per niente secondaria. L’ayatollah Shariatmadari, protagonista della rivoluzione del 1979 contro lo shah e che aveva attirato l’interesse dei reporter occidentali, oltre che del filosofo francese Michel Foucault, intrattenne una lunga corrispondenza con Ahmed Kuftaro, gran muftì della Siria e strettamente legato al clan degli al-Asad. Fu Kuftaro, di origini curde, capo anche della confraternita Naqshabandi, ad accompagnare Giovanni Paolo II nella sua famosa visita alla grande moschea ommayade di Damasco nel 2001: era la prima volta che un papa entrava in una moschea.
È curioso che la guida del papa fosse il capo in Siria della Naqshbandyya, una tariqa, una confraternita molto antica, che vantava la sua origine dai discendenti di Maometto e che fu in seguito associata al grande mistico del xiv secolo Muhammad Bahah al-Din al-Naqshbandi, da cui ha preso la denominazione.
I Naqshbandi, detti anche Naksibendi in Turchia, hanno un ruolo chiave nelle sotterranee solidarietà della politica mediorientale. Durante una delle tante finte elezioni presidenziali irachene negli anni Novanta, Izzat Ibrahim al-Douri, vice di Saddam Hussein ed eminente esponente baathista, si fece accompagnare dalla stampa a Tikrit, città natale di Saddam, dove aveva forgiato i legami con il raìs.
In quella occasione fu più facile del solito avvicinarlo e al-Douri ci rivelò di essere assai religioso: ogni venerdì andava a pregare in una delle moschee più importanti della capitale. Da un membro del suo seguito scoprimmo che apparteneva all’Ordine dei Naqshbandi, la confraternita estesa dall’Asia centrale alla Turchia alla Mesopotamia. Queste credenziali religiose dovevano averlo reso affidabile anche gli occhi del Califfato e del suo capo Abu Baqr al-Baghdadi che si vantava di essere membro di questa tariqa.
Che i baathisti avessero dato una mano importante all’ascesa dello Stato Islamico di al-Baghdadi lo dimostrava anche il messaggio caloroso rivolto ai jihadisti con cui nel 2014 era riaffiorato alle cronache Izzat Ibrahim al-Douri dopo un decennio da imprendibile latitante tra Siria e Iraq. Al-Douri, che sarebbe stato ucciso nel 2015 a Suleymania, non era l’unico politico della regione affiliato all’ordine.
In Turchia la confraternita dei Naksibendi nel dopoguerra trova il suo rinnovatore nell’imam Mehmet Zahid Kotku. Anche lui era un sufi che trasformò il sonnolento ordine della Naqshbandyya turca in una vera scuola socio-politica: sono stati seguaci di Kotku il presidente Turgut Ozal, il primo ministro islamista Necmettin Erbakan e lo stesso presidente Tayyp Erdogan, capo del partito musulmano Akp.
Quando si pensa ai protagonisti della scena mediorientale nessun legame deve essere trascurato e alcuni di questi possono apparire sorprendenti soltanto perché li ignoriamo. Per questo fui meno sorpreso quando due giorni prima della caduta di Baghdad, nella primavera 2003, feci colazione con il segretario di Saddam. Il dottor Ahmad mi venne a prendere nella hall dello Sheraton dove erano accampati alcuni islamisti che avevano sfilato qualche settimana prima per le vie della capitale con le cinture esplosive. «Ma questi prima non li impiccavate ai pali della luce?» osservai. «È vero – rispose Ahmad – ma adesso ci servono anche loro». Erano membri del gruppo islamista Ansar e facevano riferimento proprio a Izzat Ibrahim al-Douri. Qualche tempo dopo si sarebbero fatti esplodere ai check point degli americani e nelle moschee degli sciiti, i nuovi padroni dell’Iraq.
Proprio nel fatale 1979, l’anno della rivoluzione iraniana, il gran muftì siriano Kuftaro visitò Qom e si diffusero voci che fosse andato proprio dall’ayatollah Shariatmadari per ottenere un riconoscimento ufficiale degli alauiti come membri dello sciismo. Ma Shariatmadari non disse una parola al riguardo né fece alcun gesto in questa direzione: il silenzio assordante di Qom lasciò delusi diversi sceicchi alauiti e lo stesso clan degli al-Asad che avevano riposto la loro massima fiducia nella mediazione di Kuftaro, molto noto per la sua abilità nell’intrecciare il dialogo interreligioso.
La rivoluzione iraniana e gli alauiti
La rivoluzione iraniana e lo sciismo militante arrivarono a Damasco prima ancora che l’imam Khomeini facesse ritorno a Teheran il primo febbraio 1979 dopo la fuga dello shah Reza Palhevi. Nel giugno del 1977 era stato sepolto a Damasco, accanto al famoso mausoleo di Zeynab, Alì Shariati, uno dei simboli della rivoluzione.
La storia me la racconta nella sua casa di Teheran Ibrahim Yazdi, testimone di quel tempo. Alla parete della sala c’è la sua foto, quella di un uomo maturo e vigoroso, con un folta capigliatura corvina che arringa una folla oceanica a Korramshar. Un’immagine in bianco e nero, netta, senza sbavature, come poteva apparire in quel momento l’orizzonte dell’Iran: il passato, lo shah, era stato travolto e la rivoluzione prometteva un mondo nuovo. Yazdi il 1° febbraio 1979 era sbarcato a Teheran con il volo da Parigi insieme all’ayatollah Khomeini: pochi giorni dopo sarebbe diventato ministro degli Esteri del primo governo della Repubblica islamica.
Fu lui, Yazdi, a presentare il progetto di costituzione a Khomeini. Sul frontespizio c’era scritto: «Costituzione della repubblica dell’Iran», l’imam prese una penna e aggiunse: «Costituzione della repubblica islamica dell’Iran». Dieci mesi più tardi il governo di Mehdi Bazargan, che aveva lasciato fuori dalla porta i mullah, si dimetteva e Yazdi passava, per sempre, all’opposizione: 30 anni dopo con i capelli bianchi, qualche anno di carcere alle spalle, un cancro superato, aveva ancora voglia di raccontare.
«Con la sua interpretazione marxista dell’islam Alì Shariati fu l’ideologo più influente della sua epoca e l’inventore dello “sciismo rosso”. Per lui la storia degli sciiti, con il martirio di Hussein a Kerbala nel 680, ucciso dai califfi sunniti, non era altro che la dialettica della lotta di classe, destinata a culminare nella rivoluzione». Delle idee di Shariati e degli slogan sulla rivolta degli oppressi si impossessarono la leadership religiosa e l’imam Khomeini, che però legittimarono il loro potere con il millenarismo sciita. Khomeini fu abile a trasformare la caduta dello shah, alla quale parteciparono nazionalisti, liberali, comunisti e gruppi di sinistra, nella rivoluzione dei turbanti.
Islamologia, il volume più famoso di Shariati, in poco tempo divenne una sorta di “libretto rosso” tra le giovani generazioni iraniane. Tale fu il successo di Shariati che nel 1973 il regime dello shah lo arrestò imponendogli una durissima carcerazione. Liberato su forti pressioni internazionali andò in esilio in Europa dove aveva studiato negli anni Sessanta a Parigi, appassionandosi a Frantz Fanon e diventando amico di Sartre.
A Londra il 18 giugno 1977 ricevette una telefonata dalla moglie in cui lo avvertiva che lei e una delle figlie erano state fermate all’aeroporto. Accompagnato da alcuni amici si recò velocemente a Southampton dove attese con grande ansia il complicato superamento dei controlli doganali da parte della moglie e della figlia. Tornato a casa, Shariati si addormentò per l’ultima volta; il mattino seguente fu ritrovato morto nel letto, c’è chi dice a causa di un arresto cardiaco e chi perché caduto vittima di un agguato notturno della polizia segreta dello shah.
«Fu 24 ore dopo la sua morte – racconta Yazdi – che ci trovammo a Londra con Sadq Gotzbadeh e Abholassam Banisadr per decidere dove seppellirlo: la sua volontà era di essere tumulato vicino al mausoleo di Zeynab a Damasco e mi incaricai dell’operazione». Gotzbadeh diventato ministro dopo la rivoluzione fu giustiziato da un plotone di esecuzione nel 1982 per aver partecipato a un complotto contro Khomeini; Banisadr, primo presidente della repubblica islamica, fu deposto nel 1981 e costretto all’esilio in Francia. L’altro fondatore insieme a Yazdi del Movimento per la libertà iraniana negli anni Sessanta, cui aveva aderito anche Shariati, era Mostafa Chamaran, ex fisico della Nasa: nominato ministro della Difesa fu ucciso nel 1981 sul fronte nella guerra Iran-Iraq. La rivoluzione e la guerra divoravano così i protagonisti della storia insieme a un milione di giovani iraniani che cadevano nelle paludi dello Shatt al-Arab.
La tomba di Shariati è una stanza accanto al mausoleo di Seyeda Zeynab, la figlia di Alì e di Fatima, quindi nipote di Maometto. È meta di lunghi pellegrinaggi da parte degli sciiti iraniani che con i pasdaran montano la guardia al complesso monumentale situato nel governatorato di Damasco. Shariati è sepolto in una stanza dove ci sono le sue foto, mazzi di fiori e una piccola biblioteca che espone alcuni dei suoi libri, compresi Islamologia e Fatima è Fatima, un libro dedicato da Shariati alla figlia del Profeta e al ruolo delle donne rivoluzionarie. Anche gli alauiti vanno a trovare Zeynab, in quanto figlia di Alì, e il mausoleo è una meta delle visite non solo degli sciiti ma anche delle correnti sufi devote al culto della nipote di Maometto.
La scelta di seppellire Shariati a Damasco non fu casuale. Dopo il 1973 e la legittimazione elargita dall’imam Musa al-Sadr, le autorità siriane avevano cominciato a dare rifugio ai fuoriusciti iraniani, soprattutto religiosi, che formavano l’opposizione allo shah Reza Palhevi ed erano perseguitati dalla Savak, la polizia segreta.
E non fu casuale che a officiare le esequie di Alì Shariati fosse proprio Musa al-Sadr, che aveva incoraggiato i rapporti tra il regime di al-Asad e gli ayatollah antishah. Da parte loro i siriani non potevano certo immaginare che il variopinto corteo dei dissidenti iraniani, dai mullah con il turbante ai giovani esponenti delle correnti marxiste, potesse un giorno rovesciare il regime di Teheran fortemente sostenuto dagli Stati Uniti che ne avevano fatto una sorta di guardiano del Golfo. Lo stesso presidente democratico Jimmy Carter, un anno prima dello scoppio della Rivoluzione, era andato a Teheran dallo shah per brindare con le mogli al Capodanno 1978: le due coppie furono fotografate che alzavano calici di champagne e sorridevano agli obiettivi.
Agli alauiti di Damasco importava soprattutto tenere buoni rapporti con gli ayatollah sciiti. Non avevano potuto ottenere l’appoggio del celebre Shariatmadari ma forse speravano in quello dell’imam Khomeini che allora si trovava ancora a Najaf. Dopo tutto Khomeini era un rivoluzionario che subordinava la tradizione religiosa all’obiettivo primario di abbattere lo shah e anche lui, come del resto Musa al-Sadr, aveva bisogno di amici influenti. Non è chiaro fino a che punto gli alauiti siriani al potere si spinsero a chiedere il sostegno religioso di Khomeini per la loro legittimazione ma è certo che corteggiavano i religiosi sciiti in esilio: quando Khomeini fu costretto a lasciare Najaf e gli fu rifiutato l’ingresso in Kuwait prese in considerazione di stabilirsi a Damasco prima di scegliere la Francia.
1979: paradossale alleanza strategica siro-iraniana
I rapporti tra siriani e iraniani diventarono strategici dopo la rivoluzione del 1979. La Siria tollerava la presenza dei pasdaran iraniani nella valle della Bekaa dove stava nascendo il movimento degli Hezbollah in un Libano sotto lo stretto controllo di Hafez al-Asad. In cambio l’Iran stese il silenzio sulla repressione da parte del regime siriano dei Fratelli musulmani che erano scesi in rivolta a Hama. E quando Saddam Hussein attaccò l’Iran il 22 settembre del 1980 i siriani si schierarono con Teheran.
Era un paradosso: da una parte l’Iran combatteva contro l’Iraq baathista di Saddam, presentando il regime sunnita di Baghdad come l’emblema dell’empietà, dall’altra gli ayatollah iraniani erano in stretti rapporti con un altro regime baathista, quello di Damasco, in mano agli alauiti ritenuti dai sunniti degli incorreggibili miscredenti.
La posta in gioco tra i laici di Damasco e i religiosi di Teheran era altissima: senza la cooperazione della Siria l’Iran non poteva estendere la sua influenza fino alle coste del Mediterraneo e i siriani senza la collaborazione della Repubblica islamica non potevano tenere sotto controllo il Sud sciita del Libano, una pistola puntata contro Israele che aveva occupato le alture siriane del Golan nel 1967 proprio quando Hafez al-Asad era comandante dell’aviazione.
I due regimi, quello di Damasco e quello di Teheran, avevano credenze religiose diverse ma condividevano lo stesso destino geopolitico: è stato così fino ai nostri giorni con l’asse sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi.
L’Iran ha quindi fornito al regime di al-Asad una legittimazione religiosa derivante dai suoi interessi strategici ma lo ha fatto sempre in maniera indiretta e sottile. Quando i religiosi iraniani della Repubblica islamica, anche quelli che in passato sono stati direttamente legati all’imam Khomeini, visitano Damasco parlano sempre il linguaggio della politica. Non si soffermano mai a discutere di dottrina o a fare riferimenti di carattere religioso, non accennano minimamente ai rituali degli alauiti. Parlano di solidarietà politica tra Damasco e Teheran e si appellano genericamente all’ecumenismo tra musulmani, alla necessità di essere uniti contro la minaccia dell’imperialismo, del colonialismo e del sionismo. Sottolineano sempre i grandi sacrifici compiuti dai siriani su questi fronti ma si guardano bene dal toccare argomenti religiosi per non aprire capitoli scottanti tra loro e gli alauiti che si autoproclamano seguaci dello sciismo. Tanto più dopo che nel 2015 la Russia, potenza cristiano-ortodossa, è scesa direttamente in campo con le sue forze armate per sostenere Bashar al-Asad.
Non c’è dubbio però che la rivoluzione iraniana abbia fatto sentire i suoi effetti anche sull’esigenza di riforme all’interno della comunità alauita. Nel 1989 Hafez al-Asad incontrò più volte gli sceicchi alauiti a Qardaha chiedendo una modernizzazione della dottrina e di rafforzare i legami culturali con i maggiori centri dello sciismo duodecimano. Alcune centinaia di studenti alauiti vennero spediti a Qom ma non è chiaro fino a che punto poi ci sia stata una reale riforma interna e se gli sceicchi siriani abbiano davvero sacrificato la loro verità eterna alle esigenze effimere del potere. Il velo del silenzio e il mantello del segreto proteggono ancora il mistero alauita.
Frags tratti da Il musulmano errante. Storia degli alauiti e dei misteri del Medio Oriente, di Alberto Negri, con una prefazione di Lucio Caracciolo, Torino, Rosenberg & Sellier, 2017