n. 15 – Rotta atlantica: patti scellerati e muri invalicabili

Il Mediterraneo occidentale è il teatro naturale della rotta atlantica, via percorsa dai migranti obbligati a sfidare l’Oceano Atlantico invece del Mediterraneo per approdare alle sponde europee da accordi economico-politici tra l’Europa e i loro paesi. Dal Plan de Canarias agli Accordi di Abramo, sulla pelle dei migranti si consuma il crimine dei potenti che erigono muri invalicabili e respingono, confinano e segregano, calpestando i diritti umani, approfittando della povertà e dell’instabilità politica dei paesi africani con cui stipulano scellerati trattati bilaterali.

Fabiana Triburgo analizza i meccanismi geopolitici alla base di questa rotta riaperta negli ultimi due anni prima di spostare lo sguardo, prossimamente, sull’ultimo percorso che riguarda le sponde europee, il Mediterraneo centrale.


I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla Migrazione e l’Asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Vecchi e nuovi approdi del Mediterraneo occidentale

L’espressione ripetuta più volte nel 2020 e nel 2021 “riapertura della rotta atlantica” nasconde fenomeni molto complessi sul piano geopolitico rispetto ai quali la questione migratoria è soltanto la loro inevitabile propagazione. Invero la riapertura di tale rotta non è semplicemente legata alle dinamiche politiche che hanno interessato negli ultimi anni le altre rotte, come quella dell’Egeo, del Mediterraneo centrale o ancor di più, come vedremo, quella del Mediterraneo occidentale, ma il gioco forza di rilievo internazionale, nel quale sono protagonisti Spagna, Marocco, Unione Europea, Algeria, Stati Uniti e diversi paesi dell’Africa subsahariana tra cui Senegal, Mauritania e Gambia, per citarne alcuni. La rotta venne attraversata per la prima volta nel 1994 da due migranti provenienti dal Sahara occidentale ma viene ricordata ancora oggi, negli ambienti competenti in materia di migrazione, per la grande crisi umanitaria dei “cayucos” –  le piccole imbarcazioni dei pescatori simili a canoe – a bordo delle quali, tra il 2005 e il 2006, circa 36.000 migranti provenienti dall’Africa, nello specifico dal Senegal e dalla Mauritania, cercarono di raggiungere le isole Canarie.

Le ragioni di ieri rispetto a tale flusso migratorio sono quelle di oggi, almeno in parte.

In quella circostanza le politiche nazionali, fortemente repressive rispetto al fenomeno migratorio – portate avanti all’inizio del 2000 tramite il Sive – ossia il Servizio Integrale di Vigilanza Esterna dell’esecutivo spagnolo dotato di radar e di strumenti tecnologici avanzati per l’identificazione dei migranti – vennero dispiegate soprattutto sulla rotta del Mediterraneo occidentale che ha ancora oggi come tappe di transizione/destinazione le enclavi spagnole di Ceuta e Melilla distanti rispettivamente 182 e 270 chilometri da Malaga, al confine con il Marocco. Esse sono le uniche frontiere terrestri dell’UE in Africa. Tra il 1995 e il 2005 di fatti si iniziò la progettazione delle prime due barriere terrestri, alte circa tre metri ciascuna a protezione delle due enclavi, finalizzate all’impedimento di ogni spinta migratoria indirizzata verso le medesime.

I primi muri

Tali barriere vennero successivamente innalzate fino a 7 metri grazie ai finanziamenti dell’Europa, sostituendo le lame alla sommità, con un’ulteriore barriera di cemento. Vale la pena sottolineare che i due muri furono i primi a essere eretti dopo la caduta del muro di Berlino, dimostrando come la storia spesso conceda spazi di regressione più avanzati di quelli di evoluzione che tra l’altro sembrano non avere argine, dato che nel 2020 si è giunti al terzo innalzamento dei muri fino a 10 metri ossia alla creazione della recinzione più alta al mondo che circonda Ceuta per 8 km e Melilla per 12 km ipocritamente annunciata come un mezzo per eliminare l’odioso filo spinato.

Peccato che al suo posto è stato previsto un cilindro di acciaio che rende impossibile la presa da parte dei migranti, il tutto costato soltanto 17 milioni di euro!

Proprio in tale ultimo dato è da rinvenirsi, come si accennava, una delle cause della cosiddetta riapertura della rotta atlantica: la decisione dei migranti di attraversare un’area marittima molto più pericolosa ossia quella dell’Oceano Atlantico – sottoposta a numerose quanto imponenti correnti – in luogo del Mar Mediterraneo, non è certo spontanea. Questa infatti è stata imposta dalla chiusura pericolosa talvolta mortifera, ostinata e triplicemente rinnovata, con l’innalzamento dei muri da gli anni Novanta del Novecento al 2020, in prossimità del percorso più sicuro al confine con il Marocco nel quale le enclavi di Ceuta e Melilla sarebbero più che luoghi di destinazione dei migranti – pur essendo territorio spagnolo a tutti gli effetti – meri punti di transito per accedere alla penisola iberica, mediante l’attraversamento dello stretto di Gibilterra.

Va registrato poi il fenomeno delle “porteadoras de Melilla” (le donne-mulo), che camminano per giorni e aspettano in fila con grosse merci caricate sulle spalle senza potersi sedere ne accedere ai servizi igienici e vengono fatte passare a Ceuta e Melilla in ragione delle merci che interessano alla Spagna

Patti scellerati

Da menzionare inoltre è anche la repressione attuata nella rotta denominata “El Corredor”, corridoio del Mar Mediterraneo tra l’Algeria occidentale e la penisola iberica, percorso prevalentemente da algerini nel quale si registra una attività di criminalizzazione del fenomeno migratorio e di intercettazione da parte delle autorità algerine. Non è solo questo tuttavia ad aver lasciato ai migranti come ultima sponda tra le rotte marittime quella più ad ovest per il raggiungimento dei confini europei ma anche la chiusura sancita nel 2016 della rotta dell’Egeo e soprattutto quella del Mediterraneo centrale bloccata dall’accordo Italia-Libia del 2017.

Anche la rotta del Mediterraneo occidentale tuttavia, in una logica di pericolosa emulazione, registra un’importante recente chiusura, come se già non fosse stata sufficientemente blindata – determinata da un ulteriore accordo, uno dei tanti presumibilmente siglato a dicembre del 2020 tra Marocco e Spagna, in base al quale la monarchia magrebina di Mohamed VI si sarebbe impegnata a riammettere dalla Spagna circa 80 persone a settimana tramite l’Air Maroc Royal. A tale accordo vanno aggiunti quelli siglati con la Mauritania disposta ad accogliere i migranti rimpatriati dalla Spagna non solo mauritani ma cittadini di qualsiasi altro paese dell’Africa subsahariana e occidentale. Infine, si registrano accordi bilaterali tra Spagna e Senegal. Come è facilmente intuibile anche in questo caso le riammissioni vengono implicitamente legittimate sulla base della nozione di paese terzo sicuro assegnata ai paesi africani come lo stesso Marocco.

Tale importante e “prestigioso” titolo di riconoscimento assegnato alla Libia per il Mediterraneo centrale e alla Turchia per l’Egeo è solo uno stratagemma politico per non entrare in contrasto con la propria coscienza almeno davanti all’opinione pubblica.

Un po’ di numeri

Si arriva così all’impressionante numero di 23.000 persone che tentano di raggiungere le isole Canarie nel 2020 rispetto ai 2557 arrivi registrati nel 2019. Per il 2021 i dati sono in ulteriore peggioramento: nei primi 6 mesi sono circa 7000 le persone che hanno già tentato di raggiungere le Canarie e 50 i morti ufficiali, con un gran numero di dispersi senza nome ottenibile soltanto grazie alle testimonianze dei familiari dei naufraghi. Occorre inoltre tener presente che, secondo i dati relativi al 2020 e al 2021, la rotta presenta specifiche caratteristiche: è percorsa da uomini, adulti o minori stranieri non accompagnati principalmente provenienti da Marocco, Mauritania, Senegal, Gambia.

Dai molteplici punti di partenza si riesce dunque a intuire come il viaggio lungo l’oceano Atlantico possa durare 24 ore come 10 giorni.

Oltre tuttavia alla blindatura delle rotte del Mediterraneo occidentale e del Mediterraneo centrale, in ragione della quale i migranti pur di non soffocare nelle sabbie del deserto del Sahara in Niger o per non finire nei lager libici, sono stati costretti a deviare verso le coste del Senegal o della Mauritania, nelle quali è comunque quasi sempre presente Frontex accanto alla Guardia Civil, vi è un’ulteriore concausa della riapertura della rotta atlantica ossia quella della pandemia. Con la diffusione del virus da Covid-19 è stata adottata da quasi ogni paese la chiusura delle frontiere terrestri, marittime e aeroportuali per cui i migranti si sono diretti dove minori erano i controlli ossia verso le coste dei paesi dell’Africa occidentale dai quali con delle imbarcazioni di fortuna hanno cercato di raggiungere le isole Canarie. A ciò deve essere aggiunto l’effetto collaterale della crisi economica determinata dalla pandemia – in ragione delle misure di lockdown e di distanziamento sociale – che ha messo ulteriormente in ginocchio paesi africani già a basso reddito e caratterizzati da una forte instabilità politica che hanno subito anche il forte crollo delle rimesse provenienti dall’estero. Infine, non si può ignorare l’accordo sulla pesca tra Senegal e Unione europea in vigore dal 1979 e costantemente rinnovato che ha tolto ancor di più lo scorso anno un mezzo di sussistenza essenziale, quale quello del mercato ittico, al paese già in una drammatica situazione di indigenza economica. Alla depredazione delle risorse derivanti dalla pesca nelle acque e dei fondali senegalesi si ricorda anche la partecipazione della Cina.

Punto d’arrivo: il molo di Arguineguìn

A partire da agosto fino a novembre del 2020, la situazione degli sbarchi nelle isole Canarie diventa esponenziale: nello specifico nel molo di Arguineguìn, nell’Isola di Gran Canaria, nell’estate del 2020 sono giunti in un campo allestito dalla Croce Rossa, destinato ad accogliere 400 persone, 2600 migranti senza l’applicazione di alcuna forma di distanziamento sociale o di controllo dell’eventuale trasmissibilità del virus mediante tamponi.

Successivamente i migranti sono stati trasferiti in strutture alberghiere preesistenti e ivi trattenuti per oltre 72 ore contrariamente a qualsiasi normativa nazionale, europea e internazionale, in merito alla libera circolazione delle persone.

La risposta dell’esecutivo spagnolo in conseguenza di tale scenario è stata, oltre come detto alla sigla di un accordo a fine dicembre dello scorso anno con il Marocco, il dispiegamento del Plan Canarias il terzo piano di accoglienza applicato nel contesto della migrazione attraverso l’Atlantico da parte della Spagna. Ecco che in tale sistema organizzato, ritroviamo il medesimo approccio riscontrato nella rotta dell’Egeo con un confinamento illegittimo dei migranti nelle isole e con la conseguente impossibilità di giungere alla piattaforma continentale, in quel caso quella ellenica in questo quella iberica.

Hotspot = centri detentivi

Come se ciò non bastasse si sono messe in atto vere e proprie politiche discriminatorie nella zona di transito aeroportuale dell’isola di Gran Canaria con impedimento a raggiungere la Spagna continentale per coloro che non fossero turisti o comunque dotati di un passaporto comunitario. Ciò sarebbe avvenuto in conseguenza di un’istruzione da parte del ministero degli Interni spagnolo che ha stabilito che nessuna persona migrante, anche dotata di passaporto, presente nell’isola potesse proseguire il proprio viaggio liberamente verso altre città spagnole. Con il Plan Canarias del 2020 dunque si conferma la politica sistemica dell’Unione e dei paesi che ne fanno parte della creazione di grandi hotspot nelle isole europee che, per modalità assomigliano a veri e propri centri detentivi, schermati dietro la dizione di “Centri temporanei di accoglienza” e strategicamente accompagnati all’intenzione, semplicemente dichiarata e mai attuata, di trasformarli in “Centri di integrazione”. Tali centri – in spagnolo detti Cate – previsti dal Plan Canarias, sono come al solito sottoposti a un costante controllo poliziesco, situati in luoghi di difficile accesso, con limitazione della libertà di movimento e dei diritti di assistenza legale e sanitaria, in ambienti gravemente insalubri come ha testimoniato Human Rights Watch in un recente rapporto. I centri a Gran Canaria quasi tutti ricavati da ex strutture carcerarie o da basi militari e riconvertiti in centri di accoglienza sono: il “Canaria 50”, il “Collegio Leon”, il Cate di “Barranco Seco” e quello di “Bankia” ricavato da un ex poligono. Per quanto riguarda Tenerife invece i Cate sono quello di “Las Raíces” e “Las Canteras” mentre a Fuerteventura si registra la presenza di un solo Cate quello di “El Matorral”.

Al proposito una testimonianza di Mirca Leccese, attivista di Un ponte per Moria, in questo novembre 2021 complice proprio a Tenerife delle persone “custodite” nei campi delle Canarie:

“Lo snodo di Tenerife sulla rotta atlantica”.

Soccorso in mare militarizzato

A peggiorare ulteriormente la situazione in tale rotta è il mutamento del sistema di salvataggio in mare nel 2018, anno in cui con l’istituzione del comando unico in Spagna sì è passati a una militarizzazione del soccorso in mare. Infatti, prima del 2018 l’attività di soccorso marino veniva ordinata da un pubblico impiegato o da un vice delegato del governo ossia da un civile, mentre con l’istituzione del comando unico al vertice delle attività di salvataggio vi è un organismo che dipende dalla Guardia Civil che è un corpo militarizzato dipendente a sua volta dal ministero degli Interni che coordina tutte le operazioni di soccorso in mare. Tale comando unico pur includendo al di sotto, come con il comando civile – secondo un ordine gerarchico il capitano di marina, una torre di controllo e l’imbarcazione di salvataggio – non prevede più la localizzazione fisica del barcone sul quale transitano i migranti e quindi, l’attività di salvataggio non parte secondo gli stessi tempi di allora.

Attualmente infatti, occorrono circa quattro ore per raggiungere i migranti in mare quando prima invece si riusciva a raggiungere i naufraghi in 30/40 minuti: è agevole intuire come il tempo abbia un ruolo determinante in tale attività rappresentando la maggiore rapidità dei soccorsi una maggiore probabilità che delle vite vengano salvate.

Occorre dunque ora analizzare alcuni aspetti geopolitici alla base della dura repressione della rotta del Mediterraneo occidentale che, come detto, impone ai migranti di optare per la mortifera rotta atlantica. il Marocco infatti viene comunemente definito il gendarme di Europa per l’impedimento imposto ai migranti dell’Africa occidentale e subsahariana ad accedere al territorio delle enclavi di Ceuta e Melilla ma non possiamo ignorare l’evento eccezionale avvenuto a Ceuta nel maggio scorso, quando circa 8000 migranti sono stati fatti passare nel territorio spagnolo dell’enclave senza alcuna forma di controllo da parte delle forze di polizia marocchina.

Il dossier del Sahara occidentale

Per capire le ragioni di tale insolito approccio della monarchia è necessario far riferimento al dossier del Sahara occidentale: su tale territorio dopo il cessate il fuoco del 1991 il Marocco ha sempre rivendicato la propria autorità nazionale, mentre il Fronte Polisario che invece rivendica con la Rasd l’indipendenza della Repubblica araba democratica dei Sahrawi, appoggiata dall’Algeria e sostenuta dalle risoluzioni delle Nazioni Unite si oppone a tale posizione di forza da parte del Marocco.

Le terre del Sahara occidentale interessano al Marocco perché il territorio è ricco di fosfati allo stesso tempo per l’Algeria l’alleanza con il Fronte Polisario garantisce quell’eventuale sbocco sull’oceano Atlantico che geograficamente, diversamente dal Marocco, non detiene.

Quando dunque la monarchia di Mohamed VI è venuta a conoscenza che la Spagna ad aprile del 2021, su pressione dell’Algeria, suo principale fornitore di gas, ha accolto il leader del Fronte Polisario Ghali “per ragioni umanitarie”, in quanto malato di cancro e contagiato dal Covid-19 in una forma grave, il Marocco per ritorsione ha deciso di aprire il “rubinetto dei migranti”.  Va specificato in ogni caso che la pretesa di un riconoscimento da parte della Spagna e dell’Europa tutta della propria sovranità da parte del Marocco sui territori del Sahara occidentale, giunge all’indomani del riconoscimento concesso in tal senso da parte dell’amministrazione Trump, in esito alla firma degli Accordi di Abramo nel 2020, con i quali Rabat ha sancito il proprio sostegno allo Stato di Israele. La questione migratoria è stata rapidamente risolta come al solito con un accordo tra Marocco e Spagna nel 2021 con il quale si è stabilito il rimpatrio di circa 40 migranti stranieri ogni due ore al giorno, per cui nei giorni successivi allo sbarco degli 8.000 migranti, 5.000 già erano stati rimpatri in Marocco.

Madrid. Manifestazioni in favore del popolo saharawi (foto Valentin Sama-Rojo / Shutterstock)

Marocco: il ricatto sulla pelle dei migranti

Tuttavia, anche nel 2018 il Marocco – che in realtà vorrebbe la sovranità sulle due enclavi o comunque una cogestione delle stesse con la Spagna – ha fatto pressione strumentalizzando i migranti facendo salire il numero degli sbarchi nella penisola iberica a circa 56.000 mediante proprio il passaggio nelle due enclavi. In quel caso infatti la Monarchia marocchina consapevole dell’accordo UE-Turchia e del pagamento a favore di quest’ultima di 3 miliardi di euro per la gestione dei flussi migratori del levante e dei circa 130 milioni elargiti alla Libia nell’anno successivo da parte dell’UE (per la gestione di quelli del Mediterraneo centrale) ha preteso, alla stregua di un ricatto, un ingente finanziamento dall’Europa che non ha tardato ad arrivare:

il Marocco si è aggiudicato così la cifra di 140 milioni di euro nel 2018 per il confinamento e la segregazione dei migranti perfino di quelli con cittadinanza marocchina.

È facile dunque intuire come il Marocco in Africa rispetto alla questione migratoria si stia atteggiando come la Turchia in Medio Oriente, facendo leva però sull’appoggio degli Stati Uniti e sugli ottimi rapporti di partenariato con quasi tutti i paesi dell’Africa subsahriana, nonché del ruolo fondamentale che detiene, data la propria posizione geopolitica come potenziale freno degli intenti terroristici provenienti dalla parte sud del continente africano. Tutto ciò fa emergere come l’area del Maghreb sia tutt’altro che unita, se si fa riferimento al rapporto di forte opposizione che intercorre tra Marocco e Algeria, dovuto non solo al dossier del Sahara occidentale ma anche al ruolo delle due potenze rispetto al Mediterraneo. Si ricorda in tal senso che, con la recente rivendicazione unilaterale della propria Zee nel Mediterraneo, l’Algeria è arrivata a sfiorare anche le coste marocchine. Vale la pena inoltre ricordare che lo scorso 3 novembre vi è stato un presunto assalto delle autorità marocchine a mezzi di trasporto algerini che transitavano in Mauritania dopo che, qualche mese prima, l’Algeria aveva dichiarato ufficialmente e unilateralmente chiusi i rapporti diplomatici con il Marocco.

Il rapporto Algeria-Libia

Ciò è particolarmente rilevante rispetto al conflitto libico – momentaneamente sospeso – e dagli effetti che esso propaga sulla questione migratoria, con i lager e le morti nel Mediterraneo centrale. Vale la pena ricordare come l’Algeria infatti si sia sempre posta, rispetto al conflitto libico, come paese non allineato astenendosi innanzitutto dall’appoggio all’intervento Nato che ha portato alla caduta del regime di Gheddafi. D’altra parte l’Algeria che confina con la Libia rappresenta la prima potenza militare africana, armata dalla Russia che invece in Libia ha un ruolo rilevante nella regione della Cirenaica in cui da anni – come già analizzato in precedenza – foraggia la presa di potere sull’intero territorio libico da parte di Haftar. Analizzeremo come tutto ciò abbia un effetto sull’(in)stabilità del governo ad interim libico e sulla questione migratoria addentrandoci nell’ultima delle rotte marittime che coinvolgono il territorio dell’Unione.