Il mare di Astana: il Mediterraneo

Le strategie diventate palesi in questioni mediorientali hanno prodotto proposte per risolvere i conflitti sulla sponda meridionale del Mediterraneo ma anche spartizioni di aree sottoposte al controllo dei poteri locali coalizzati ad Astana. Questo “studium” tentava di illustrare i diversi ruoli delle potenze regionali coinvolte e gli equilibri toccati a livello globale dagli sviluppi dei frequenti appuntamenti nel quadro del Processo di Astana.
Con il coinvolgimento di alcuni tra i più occhiuti esperti del quadrante mediorientale abbiamo tentato di accompagnare la narrazione di questo scorcio di periodo che volge al termine con la conclusione del “non coinvolgimento” trumpiano e le prime mosse della amministrazione Biden; ci siamo convinti che il cambiamento in atto vada a incidere sugli accordi che ad Astana hanno creato le condizioni per la spartizione tra Iran, Turchia e Russia delle spoglie della Mesopotamia, concludendo quella sorta di alleanza e dunque può essere legittima un’analisi conclusiva e complessiva, allargando lo “studium”, che avevamo avviato limitandolo al Mediterraneo, proponendo una fiaba piratesca intitolata ‘Tutti i mari di Astana’ come progetto editoriale.
Alla fine ce l’abbiamo fatta: questo è il primo prodotto risultato di un agglomerato di idee, interventi, articoli, podcast pubblicati attorno agli sviluppi degli Accordi di Astana: ha seguito esattamente i passi previsti dall’idea che ha dato la stura al progetto di OGzero, che proprio con questo confronto iterato deve arrivare a individuare la necessità di una pubblicazione che faccia il punto sull’argomento. Il lungo percorso, durato 16 mesi, con i tanti materiali che trovate qui di seguito, ha trovato in Antonella De Biasi chi ne ha fatto non solo una sintesi ma anche analisi ulteriori, ipotesi interpretative, collegato eventi e inanellato strategie più o meno palesi, usando una rotonda e piacevole forma linguistica puntellata da evocative metafore marinare.

E così possiamo proporvi questo splendido volumetto di 88 pagine, un concentrato di informazioni, approfondimenti e analisi: “Astana e i 7 mari”… buona lettura

100%

Avanzamento

Acquistabile in libreria attraverso la rete di Fastbook

isbn: 9791280780027

Gli eventi globali che coinvolgono il superamento del multilateralismo e il nuovo ordine mondiale che dovrà scaturire dal confronto pesante tra potenze mondiali continua a poter venire interpretato alla luce del testo scritto da Antonella De Biasi ormai quasi un anno fa e ancora completamente consultabile per ritrovare i prodromi di quanto sta avvenendo… e ancora ci si incontra tra compari di Astana, lasciando immaginare accordi particolari in funzione antioccidentale. Così abbiamo interpellato la nostra autrice per fare il punto sulla situazione mediorientale:

Il libro di Antonella De Biasi continua anche a mesi dalla sua uscita a suggerire percorsi interpretativi per i nuovi panorami che si dipanano nella direzione individuata in Astana e i 7 mari. E OGzero continua a porre al centro proprio quegli accordi giunti al settimo appuntamento (oltre ai molti collaterali incontri spartitori); adesso ci sembra che quel sistema di controllo regionale tra Russia, Turchia, Iran si inserisca nello stravolgimento globale innescato dalla sfida all’egemonia americana dell’invasione russa dell’Ucraina, palesemente fuori dal sistema di controllo mondiale e con un occhio al confronto dell’Indopacifico. Proponiamo qui un intervento di Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti che si trovavano in nuce nel libro ma che ora  trovano nuovi inquietanti risvolti collegabili al processo inaugurato ad Astana tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

Confrontandoci tra complici di “OGzero” sulla complessa situazione ucraina, che è (sì!) una delle decine di guerre in corso nel mondo, ma è anche la parte per il tutto del confronto globale ereditato dalla transizione attraverso il multilateralismo verso un Nuovo ordine mondiale, destinato a venire spostato verso l’Indo-pacifico, abbiamo tratto dall’ultima puntata di Transatlantica24 spunti offerti da Eric Salerno e Sabrina Moles, che ci hanno rievocato le intuizioni messe in gioco in Astana e i 7 mari di Antonella De Biasi. Così “OGzero” nel momento dell’annuncio di un tavolo di pace imbandito a Istanbul comincia a credere che lo spirito di Astana non è sfumato del tutto e su questo dubbio ha cercato di ricostruire i cocci prodotti dall’esplosione del multilateralismo nei rapporti tra stati, dallo scardinamento di alleanze esili, dalla individuazione del momento in cui il Cremlino ha pensato che fosse più opportuno far saltare gli equilibri. Un istante che Antonella nel suo scritto, steso a ottobre, preconizzava individuando nella ignominiosa ritirata americana dall’Afghanistan il segnale della debolezza per cui era possibile azzardare il morso del serpente.

Salvo poi accorgerci che ciascuno ha tratto vantaggio o imponendo spese militari, o annettendosi nuovi territori rivieraschi, o soffiando su un nazionalismo sovranista, cancellando piani ecologisti e ridistribuendo energia con un maggior profitto per i produttori. Distribuito sciovinismo e testosterone in tutti i paesi del primo mondo.

Perciò a partire dalla chiosa del libro, proviamo con questo editoriale a mettere in fila gli eventi delle ultime settimane sulla scorta di quello che il volume di Antonella De Biasi aveva già individuati come potenziali snodi critici; andremo a trovare nel libro verifiche delle analisi prodotte a posteriori dagli equilibri scaturiti dalla “spezial operazy” di Putin, così da inserirla nell’annoso flusso geopolitico senza gli isterismi cavalcati dal profitto guerrafondaio. Infatti il volume si chiude con una frase emblematica: «Il gioco di Astana, seppur precario, in fondo è anche un gioco delle parti» e le dichiarazioni e le mosse diplomatiche di fine marzo seguono il canovaccio.

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Sulla base del testo di Antonella De Biasi il 21 gennaio 2021 si è assistito a un webinar condotto da Vittoria Valentini con Matteo Bressan docente di Relazioni internazionali presso l’Osservatorio per la stabilità e sicurezza del Mediterraneo allargato della Lumsa, durante il quale sono emersi molteplici spunti evinti da Astana e i 7 mari, evidenziando come sia un testo valido per sviluppare ulteriori analisi degli Accordi tra Mosca, Teheran e Ankara. Questa la registrazione:

“Osservatorio mediterraneo su Astana e i 7 mari”.

Introduciamo alcune considerazioni fatte con Stefano Capello in questa fase di riepilogo dei materiali affastellati nello Studium durato alcuni mesi. Alterniamo in questa sezione le parole di Stefano Capello con le suggestioni tra parentesi dei potenziali sviluppi dell’aspetto portato in evidenza che ci sorgono come insieme di ipotesi e perplessità, che potranno essere fugate dall’analisi più approfondita che intendiamo realizzare.

Considerazioni finali

di Stefano Capello

L’accordo di Astana tra Turchia, Iran e Russia sembra messo in grave difficoltà dai recenti avvenimenti del Caucaso, dai cambiamenti di peso delle potenze locali con l’inizio dell’Amministrazione Biden e dalla nuova strategia Blinken. In realtà si tratta di un patto che non poteva che produrre un equilibrio dinamico di competizione tra i tre attori.

Elementi pregressi con potenziali sviluppi

Per capire il patto di Astana bisogna tenere conto dell’evoluzione del sistema geopolitico del Grande Medio Oriente.

  • In primo luogo il ridimensionamento definitivo della Russia da superpotenza mondiale a superpotenza regionale. La Russia ha ormai una proiezione di potenza che è concentrata sull’estero vicino e non è più considerabile un rivale globale degli Stati Uniti. Le sue rivalità si calibrano sui rapporti con le altre grandi potenze regionali con le quali condivide gli spazi di influenza e di interesse immediato. Resta ovviamente l’esistenza di un grande arsenale nucleare che in questo momento risulta più un peso economico che non un effettivo strumento di proiezione di potenza.

[Per l’ambito relativo ad Astana questo vale se lo consideriamo rivolto verso i paesi occidentali e il bacino del Mediterraneo; ci sorge il dubbio che sul Pacifico e nei confronti delle altre grandi potenze asiatiche (Cina e India) si possano immaginare alleanze in grado di consegnare alla Russia un ruolo come potenza di riferimento? Perché non sarebbe prevedibile una sorta di Accordo di Astana con la Cina, visto che è rimasta fuori dalle alleanze militari anticinesi (ma anche dal Rcep)?]

  • La Turchia è una potenza Nato in via di autonomizzazione nelle dinamiche regionali. in questo senso persegue una sua politica di potenza che deve sicuramente tener conto delle necessità e delle pressioni della superpotenza americana con la quale però i rapporti sono definibili come di partenariato conflittuale a livello del grande Medio Oriente. Ankara comunque persegue una sua autonoma proiezione di potenza sui territori “ottomani”. Da un lato prosegue il conflitto con la Grecia sia per l’Egeo che per Cipro mirando al controllo del Mediterraneo orientale e in questo senso deve essere letta anche la riapertura della conflittualità con Israele ed Egitto (per quanto con entrambi siano in corso negoziati per la spartizione delle risorse del Mediterraneo orientale); dall’altra persegue un ritorno alle posizioni del vecchio impero tanto nel vicino Medio Oriente (proiezione militare in Siria e Iraq, quanto diplomatica verso il Libano e il Qatar); alcuni segnalano una forte presenza nei Balcani anche, con una presa in particolare ovviamente sui territori maggiormente abitati da musulmani come Albania, Kosovo, Macedonia, bosgnacchi e in modo molto diverso gli accordi amichevoli con lo stato bulgaro. La presenza poi in Libia non deve essere vista solo come una vestigia dell’impero ottomano prima del 1911, ma piuttosto come un aspetto del conflitto con l’Egitto e allo stesso tempo una sfida aperta alla Francia e alla sua volontà di egemonia sul Mediterraneo occidentale, iniziato con l’attacco a Gheddafi e che per Bagnoli è il motivo che ha spinto Putin a intervenire in Siria, per paura che gli occidentali potessero occupare il Mediterraneo orientale; il conflitto nel Caucaso va visto nel suo aspetto di aumento dell’egemonia in un’area cruciale per il transito energetico e, per la longue durée, come il riproporsi di un’area di frizione tra i tre imperi dell’area, quello ottomano, quello russo e quello persiano.

[Si direbbe che la Turchia stia rimodulando le alleanze e cerchi di rientrare nell’alveo della Nato, guardando all’Egitto come possibile partner economico e svolgendo il ruolo di player diplomatico per conto di Blinken; un riposizionamento che non può che consolidare le posizioni di Ankara nell’Asia centrale e nei Balcani, facendo collidere maggiormente gli interessi in aree dove il contrasto con Putin è maggiore?]

  • Infine l’Iran fin dalla rivoluzione islamica si è posto il problema di porsi come potenza regionale autonoma in conflitto con la superpotenza americana ma non solo; il conflitto con i sauditi e le altre monarchie del golfo è un conflitto da questo punto di vista non essenziale per l’Iran dal momento che lo spazio di profondità strategica dell’Iran non è la penisola arabica o il Golfo persico ma è il vicino Oriente nella parte relativa agli attuali Iraq e Siria, cioè gli stati che si frappongono tra l’Iran stesso e il Mediterraneo. Da questo punto di vista il conflitto strategico è proprio quello con la Turchia che ha interesse sulle stesse aree. In fondo si tratta di ritornare al progetto millenario dell’impero persiano che è quello di egemonizzare il vicino Oriente allo scopo di porsi come paese intermediario dell’asse del commercio europ-asiatico, cioè l’80 per cento del commercio mondiale.

[Quindi i cardini su cui Tehran e Ankara possono ancora trovare delle intese o un patto di non belligeranza a cosa si ridurrebbero? Il contenimento dei curdi, che abitano parte del territorio di entrambi; dei comuni nemici sauditi – a questo punto  anche per conto degli americani da parte turca; il contrasto degli interessi israeliani?]

Situazione sviluppatasi durante il patto a tre

  • Progressivo disinvestimento americano dall’area del “Grande Medio Oriente”. Per gli Stati Uniti il Medio Oriente conta meno di una volta. in fondo l’ultimo tentativo di controllo diretto dell’area è stato il progetto “Grande Medio Oriente” di Bush con la catastrofica invasione dell’Iraq del 2003. Da questo punto di vista l’amministrazione Obama ha segnato un effettivo cambio di strategia americana sull’area. Il progetto di indipendenza energetica perseguito soprattutto attraverso la pratica del fracking hanno reso gli Stati Uniti sempre meno dipendenti dal petrolio arabo; questo ha cambiato parecchio la situazione degli interessi degli Stati Uniti nell’area. D’altra parte tanto l’amministrazione Obama, quanto l’amministrazione Biden sono perfettamente coscienti che lo scontro vero e proprio si giocherà con la Cina e questo rende i teatri fondamentali della guerra l’Europa (da schierare contro la Cina) e l’Indopacifico (dove gli Stati Uniti hanno fatto passi da gigante per costruire un’alleanza navale anticinese). In questo quadro il Medio Oriente per gli americani diventa un teatro da stabilizzare secondo i principi classici delle potenze di mare: evitare sempre che ci sia un paese in una determinata area che assuma un ruolo egemonico. Da questo punto di vista per gli Stati Uniti la stabilizzazione del Medio Oriente passa attraverso un equilibrio di potenza tra i maggiori attori regionali: Israele, Turchia, Arabia Saudita, Iran ed Egitto.
    Resta ovviamente la relazione privilegiata con Israele che però viene sempre più forzatamente integrato all’interno di una alleanza regionale che vede come protagonisti anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti (il cosiddetto “Patto di Abramo”).

[L’Iran e la Turchia in questo quadro sono due potenze regionali che vanno ridimensionate o semplicemente si cerca di attribuire loro un ruolo mediorientale utile per il minore coinvolgimento diretto degli Usa? È escluso un conflitto diretto che da un lato mischierebbe gli Stati Uniti in una guerra che rischia di essere simile a quella di Bush, dall’altra rischierebbe di squilibrare troppo il rapporto di potere a favore degli altri attori regionali, piuttosto è possibile che nei piani americani si stiano prendendo le misure per ridurre il potenziale di scontro con il mondo sciita filoiraniano da un lato e si intenda far svolgere il ruolo di gendarme pacificatore alla Turchia per quel che riguarda l’area compresa in quelli che erano i confini ottomani?]

  • La Russia in tutto ciò si comporta come una potenza regionale che tesse accordi con le altre potenze regionali tutte comunque allo stesso tempo alleate e concorrenti. Una strategia estesa un po’ in ogni quadro dello scacchiere (anche in Africa, per esempio in Mali o in Sudan), dove Putin invia milizie, o fa accordi con tutti i protagonisti anche in contrasto tra loro (palese tattica messa in atto in Nagorno) L’accordo con l’Iran è storico ed è soprattutto in funzione antiamericana, l’Iran però è anche storicamente nemico di Turchia e Arabia Saudita con le quali i russi hanno continuato a svolgere accordi nel corso di questi anni. Sicuramente è stato fondamentale nell’alleanza tra Russia e Iran il rapporto sul territorio siriano a difesa del governo di Assad ma non è l’unico punto; in larga parte il contrasto all’espansionismo turco nel Caucaso ha unito le due potenze. Più in generale però la Russia sembra interessata più che a costruire un’alleanza di ferro con l’Iran a costruire una seria di rapporti a geometria variabile nell’area con tutti gli attori presenti. Rapporti che sono a seconda dei momenti di tensione anche militare o di collaborazione.

[Più in generale l’interesse della Russia è fondamentalmente quello di mantenere il controllo sull’estero vicino, in questo caso il Caucaso e non perdere il piede a terra nel Mediterraneo. fondamentali diventano le alleanze in questo quadro che permettono la stabilizzazione delle basi siriane ma anche l’appoggio alla fazione cirenaica nella guerra in Libia; in Siria il nemico erano quindi la Turchia e le monarchie del Golfo che in forme diverse appoggiavano le fazioni anti-Assad nel paese. In Libia invece le stesse monarchie che attraverso l’Egitto, appoggiano i cirenaici sono gli alleati del momento mentre la Turchia rimane il nemico. Potrà essere questo rivolgimento il motivo che farà saltare il periodo di Accordi di Astana?]

Quadro finale dopo il Nagorno-Karabakh

In questo quadro però le alleanze, come dimostrato dalla situazione in Siria e Libia non sono finalizzate a ricercare una soluzione definitiva quanto a cercare un equilibrio che permetta ai russi di mantenere le loro posizioni.

  • In generale da questo punto di vista l’accordo di Astana sembra più un tentativo di trovare un punto di accordo che delimiti delle sfere di interesse piuttosto che una vera e propria partnership globale nell’ambito regionale.
  • Nello specifico della guerra per il Nagorno-Karabakh in realtà l’accordo di Astana è stato sostanzialmente mantenuto. L’Armenia è stata decisamente ridimensionata senza che l’Azerbaijan potesse arrivare a una vittoria totale sul campo; la Turchia ha aumentato il suo peso specifico sul campo tramite l’alleanza con Baku; le truppe di interposizione sono russe e sia l’Armenia che l’Azerbaijan devono fare i conti con Mosca rispetto alle loro politiche interne; il presidente armeno è stato pesantemente colpito nel suo tentativo di avvicinarsi all’Occidente; l’Iran ha potuto evitare di schierarsi con uno dei due contendenti dal momento che si trova nella scomoda posizione di alleato dell’Armenia mentre il 21 per cento della sua popolazione è di origine azera.

Ultima tappa della normalizzazione del “dopo-Trump” per il Vecchio Mondo

Dopo i segnali lanciati dai sauditi come tentativo di composizione delle dispute scatenate il 5 giugno 2017 contro l’emirato del Qatar, reo di non adeguarsi alle sanzioni antiraniane e sottoposto a sua volta a un embargo durissimo, che solo l’aiuto turco ha evitato la capitolazione e la chiusura persino della emittente “Al-Jazeera”, nel dicembre 2020 si assiste a manovre volte a reintegrare a tutti gli effetti il Qatar. L’aiuto turco era giunto in cambio dell’appoggio ricevuto da Erdogan nel momento del golpe fallito, ma soprattutto sanciva l’alleanza che da quel momento in particolare ha consentito a Turchia e Qatar di espandere controllo su territori, intensificare le relazioni militari tra loro e colonizzare mercati; ma soprattutto la Turchia ha potuto avvalersi delle enormi disponibilità di denaro dell’emiro, in cambio della svendita e del controllo di infrastrutture, impianti, industrie, interi pezzi di territorio turco. Forse con il cambio alla presidenza americana MbS ha intensificato gli sforzi per ricollocare il Qatar nell’ambito delle monarchie arabe della Penisola, in funzione antiraniana; in questo contesto rimane soltanto l’Egitto di al-Sisi restio ad accettare di riaccogliere il Qatar nel consesso arabo-sunnita. In particolare è il Kuwait a intensificare gli sforzi per una mediazione tra il “Quartetto” e la “Corrente di Doha”, coadiuvato dal dinamico genero di Trump, che ha già sponsorizzato gli Abraham Accords tra Israele e due dei componenti del “Quartetto” (Emirati e Barhein): Kushner si è infatti recato a Riad e a Doha il 2 dicembre per verificare le potenzialità di un accordo e mantenere un po’ di prestigio e potere al regno wahhabita durante il New Deal di Biden?

Il punto dopo gli attentati antiraniani e gli accordi sul Nagorno-Karabach

Gli sviluppi della concertazione tra i protagonisti di Astana – ovvero le potenze localmente più attive nel controllo del Mediterraneo orientale e delle sue sponde meridionali; del Medio Oriente, in particolare la Mesopotamia; del Caucaso e dei paesi dell’Asia centrale – dopo il cessate il fuoco in Nagorno Karabach e gli omicidi mirati antiraniani passati quasi sotto silenzio da parte di Russia e Turchia ci hanno convinto che il quadro risulta sufficientemente chiaro da poter cominciare a tirare le somme.

Un trappolone ordito a Neom ai danni degli iraniani, già sotto sanzioni in tempo di Covid

Quello che getta una luce sinistra sugli accordi di Astana dopo un 2020 che si apre con il drone che centra l’auto di Qasem Soleimani, capo delle Guardie della Rivoluzione e si chiude con un altro drone che inquadra la vettura di Muslim Shahdan, capo dei pasdaran fa pensare che stiano venendo meno uno dei presupposti per cui la repubblica islamica aveva aderito agli incontri di Astana: poter contare su appoggi e sull’alleanza in particolare con la Turchia, con cui condivide anche le medesime “soluzioni” del  comune problema curdo. Di fronte all’attacco provocatorio del Mossad si trova a dover risolvere pulsioni vendicative che sarebbero controproducenti e Realpolitik che suggerirebbe cautela. Questa l’analisi di quali potenziali percorsi stretti rimangono per rieditare gli accordi obamiani affidata a Michele Giorgio in un intervento su Radio Blackout del 3 dicembre a commento della eliminazione di Mohsen Fakrizadeh, capo del progetto della agenzia nucleare iraniana.

Ascolta “Eliminazioni nucleari per avvelenare i pozzi nel Golfo” su Spreaker.

Di conseguenza ci si può chiedere quali strategie siano state innescate a Neom tra Netanyahu, Mbs e Pompeo e se ci si deve attendere reazioni iraniane prima che subentri l’amministrazione Biden (e questo potrebbe rendere inutile l’alleanza di Astana?), oppure si registreranno escalation apertamente belliche che Trump potrebbe lasciare in eredità insieme a Netanyahu, a ridosso di nuove elezioni a Tel Aviv e con i guai giudiziari ad attenderlo? Le ripercussioni coinvolgerebbero l’intero Golfo persico, con le prevedibili ritorsioni sugli Emirati per un eventuale attacco israelo-statunitense sul suolo persiano. Anche su questo abbiamo chiesto il parere di Michele Giorgio.

Ascolta “Mossad in azione antiraniana o in estensione degli Abraham Accords?” su Spreaker.

Un trappolone ordito ai danni degli armeni, i russi distribuiscono le spoglie

Nel caso del recente conflitto tra armeni e azeri la raffinata tattica russa ha fatto in modo di immaginare una soluzione che accontentasse tutte le nazioni in gioco senza nemmeno guastare i rapporti con l’unico attore in commedia che ha subito una umiliante sconfitta (confidando erroneamente in un maggiore appoggio da parte russa): gli armeni, puniti per la loro rivoluzione di velluto che stava portandoli pericolosamente a flirtare con quelle democrazie occidentali (Gruppo di Minsk), uscite dal conflitto senza aver ottenuto nemmeno una tregua che durasse più di un paio di ore, durante il conflitto in cui la differenza è stata data dall’uso di tecnologie sofisticate da parte dell’esercito azero (i droni di fabbricazione turca e tecnologia israeliana in particolare). I russi hanno legato a sé ancora di più gli armeni: infatti controlleranno per 5 anni il territorio attraverso il Fsb, compreso il corridoio per unire il Nakhchivan all’Azerbaijan, contestato dall’Iran. Questo il punto di vista di Murat Cinar:

Ascolta “Accordo moscovita pigliatutto” su Spreaker.

Leggermente discorde il parere di Yurii Colombo, che considera un ripiego la soluzione adottata da Putin per il Nagorno, messo alle strette dall’evoluzione della guerra e volendo mantenere un profilo equidistante tra i due contendenti, evitando di intervenire come in Bielorussia, ma finendo con l’inimicarsi la parte che non ha potuto contare sugli armamenti conferiti invece agli azeri da turchi e israeliani, in particolare; secondo Yurii Colombo sarà  facile che anche l’Armenia cerchi nella Nato un protettore più affidabile.

Il mare di Astana: il Mediterraneo

Putin e Aliyev firmano l’accordo per la cessazione dei combattimenti tra armeni e azeri

L’Iran ha scongiurato eccessivi coinvolgimenti sul confine segnato dal fiume Aras con la persistenza dell’enclave armena che limita la pressione sui confini settentrionali dell’Iran; questo può bastare per salvaguardare gli interessi di Tehran? In fondo il piano che aveva presentato Khamenei aveva come primo punto il ritorno ai confini riconosciuti dall’Onu e questo è il fondamento dell’accordo sancito; inoltre l’intervento russo ha impedito una vittoria completa dell’Azerbaijan e ha posto fine alle dimostrazioni della minoranza azera in Iran che chiedevano agli ayatollah di intervenire a fianco di Baku. Infine la fine delle ostilità porterà via i mercenari sunniti scaricati da Erdoğan al confine anche iraniano.

La Turchia ha invece ottenuto l’accesso diretto a Baku via terra e sono state esaudite molte richieste decennali del nazionalismo interno che produrranno consenso, confermando Erdoğan nella strategia volta a potenziare un’economia di guerra, dispendiosa ma che in prospettiva potrebbe fornire risorse dai territori controllati e costruzione di infrastrutture adesso fuori dai confini. Un’ipotesi di cambio nell’impostazione dell’economia bellica turca nelle parole di Murat Cinar che potrebbe preludere a una ulteriore e più difficilmente sanabile frattura tra Mosca e Ankara.

Ascolta “Erdoğanomics di guerra in Nagorno-Karabach” su Spreaker.

I missili S-400: un rilancio – la prosecuzione – dell’Impero ottomano?

Alcune recenti iniziative della Turchia potrebbero dimostrare che Ankara ormai si muove come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (Usa e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita…). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando “potenza a livello regionale”, visto che qui si parla sia di Medio Oriente che di Mediterraneo e Caucaso.
Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento, nonostante il gesto di Ankara assuma quasi l’aspetto di uno sgarro nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia, per il momento ancora alleata degli Usa e membro della Nato.
E dove verrebbero collocate definitivamente tali batterie di missili? Una – molto probabilmente – dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Oppure alle frontiere con la Siria e con l’Armenia e in questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto). Non mancano peraltro risvolti della vicenda che suonano come ostentazione di indipendenza da Mosca.

I giochi di Astana sono agli sgoccioli?

Il ritorno di fiamma della guerra in Nagorno-Karabach dimostra con evidenza che i cinque anni di politica di appeasement tra Russia e Turchia stanno volgendo al termine e la partnership rischia di crollare a causa dell’inconciliabilità delle ambizioni geopolitiche (già sintomatiche erano le posizioni prese in relazione alla situazione libica a inizio 2020).

Bisogna capire se il punto di caduta dello scontro nel Nagorno-Karabakh, escludendo la catastrofe di un confronto diretto tra Russia e Turchia, sarà una vittoria completa azera o se, come continuano ad affermare gli esperti di strategia russi, Ilham Aliyev si accontenterà di sedersi al tavolo della trattativa dopo essersi ripreso i corridoi che collegano il Nagorno-Karabakh all’Armenia. In entrambi i casi, Mosca ne uscirà indebolita e dovrà ripensare seriamente ai suoi rapporti con Ankara. A settembre Erdoğan ha annunciato di aver trovato giacimenti di gas nel Mar Nero che dovrebbero garantire entro il 2023 l’autonomia energetica al suo paese. A quel punto allora, i buoni rapporti con Putin, potrebbero per lui essere solo un intralcio.

Massima pressione americana e corridoio multilaterale eurasiatico

Russia e Turchia sembrano voler affinare ulteriori strategie bilaterali, che si aggiungono a quelle orchestrate con gli ayatollah.

Per il terzo protagonista l’interesse essenziale degli accordi tripartiti è l’uscita dall’isolamento e la realizzazione di rapporti e scambi che aggirino le sanzioni. L’Iran è apparentemente più defilato ma è il tassello centrale del mosaico di corridoi commerciali e infrastrutturali, sbocchi sull’oceano Indiano e passaggi di pipeline; non si limita a rinnovare gli accordi ventennali in scadenza con la Russia, o a rinsaldare la partnership con la Turchia in un quadro complesso dato da divisioni di ogni tipo, ma sulla base mesopotamica degli accordi di Astana, nati sul pretesto di dare una soluzione al conflitto siriano, fonda il mantenimento del ruolo regionale e salvaguarda la multilateralità alla base della geopolitica eurasiatica… magari guardando anche ad accordi con la Cina già in atto.

Da zar a raiss: la strategia putiniana in Medio Oriente e nel Mediterraneo

La “guerra ibrida” non è quella creata dai russi ma – nel pensiero putiniano – è quella che l’Occidente ha creato con l’uccisione di Gheddafi,  tramite la propaganda sui media – in un continuo ribaltamento di ruoli tra chi ne è il fautore – sia per l’occupazione della Crimea sia per l’interventismo sull’altra sponda del Mediterraneo.

Da questo deriva la strategia putiniana messa in atto con le potenze regionali per seguire i suoi interessi economici: appoggiare al-Assad in Siria mentre Erdoǧan dà il suo sostegno ad al-Sarraj in Libia, spartendosi territorio su cui far correre infrastrutture (pipeline), trafficare in armi e risorse energetiche.

Da zar a rais. La tentazione di esagerare, quando si affronta il tema della politica mediorientale di Vladimir Putin, è forte. Il perché è ovvio. L’operazione militare in Siria è stata (quasi) un successo, la gestione degli equilibri di forza sul campo con Iran e Turchia un capolavoro di tattica, l’offensiva diplomatica nell’area il tratto del maestro. Se si aggiunge la volontà di disimpegno americana dall’Oriente Medio, ecco spiegato perché oggi si parla di Vladimir d’Arabia: nella mente di Putin è Tripoli, e non Damasco, il vero obiettivo per vincere la ‘regata’ nel Mediterraneo. In quella parte di mondo però il successo non è mai stabile, bensì mobile come le dune dei suoi deserti: nel 1941 l’offensiva coloniale italiana contro la colonia egiziana della Gran Bretagna cominciò l’inizio della fine del nazifascismo, ma avrebbe dovuto saldarsi con le truppe lanciate alla conquista dell’Unione Sovietica per controllare gran parte delle risorse energetiche dell’area, quell’Urss che già nel 1946 richiese l’amministrazione controllata della Tripolitania e dell’Eritrea. Evidentemente già strategiche per la Russia di allora.

L’idillio turco-russo messo alla prova da Libia e Siria

Sin dall’inizio della guerra in Siria, la posizione di Ankara è stata sempre a favore della caduta del regime Ba’th. Nel frattempo le relazioni tra Turchia e Russia, nonostante alcuni periodi difficili, si sono allacciate sempre più. Questo crea stupore dato che in Siria, dal 2014, Putin è apertamente schierato in forze accanto al presidente Assad per salvarlo e sembra che l’appoggio di Mosca abbia cambiato le sorti della guerra a favore di Damasco.

Le cose sono diventate ancora più complicate con l’intervento della Turchia nella guerra libica. Nel 2019, Ankara ha deciso di sostenere economicamente, militarmente e politicamente Fayez al-Sarraj, presidente riconosciuto dall’Onu, contro il generale Haftar, uomo appoggiato da Mosca che vorrebbe ottenere il controllo assoluto del paese. Dunque anche in Libia queste due forze si trovano a portare avanti due strategie diverse con un forte rischio di scontrarsi.

Fuori dai territori libici e siriani la collaborazione turco-russa vive un idillio senza precedenti. La domanda che sorge è semplice: “Com’è possibile un quadro del genere?”. Le risposte sono molteplici e non del tutto definitive. Scelte economiche, strategie di alleanza per mantenere il potere e nascondere la corruzione.

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