Racconto di Natale: linee cancellate e riemerse dal suolo d’Africa

In questo anno difficile che si chiude con uno “strano” Natale abbiamo pensato di condividere con voi lettori un racconto che racchiude un mondo perduto: quello che un tempo scaturiva dai reportage di viaggio. Ecco, ci piacerebbe che un po’ di quello spirito passasse attraverso questo scritto di un giornalista-autore che ha accettato di accompagnarci nell’impresa in cui ci siamo gettati pochi mesi fa, per festeggiare il primo Natale insieme. In attesa di poter nuovamente viaggiare davvero, leggetelo, gustatevelo, immaginate di percorrere strade ferrate in un continente in perenne fermento, e di conoscere il mondo!


Un continente, non un paese

«I problemi dellAfrica». «Quegli africani tutti uguali…». «Andiamo in vacanza in Africa». Quante volte ci si riferisce a quel luogo a sud del Mediterraneo – hic sunt leones – come un solo paese, non il terzo continente per grandezza della Terra. Gli studiosi più cauti al massimo guardano a quel pezzo di mondo come se fossero due: in alto Marocco, Algeria, Tunisia, Libia ed Egitto che considerano estensione del Medio Oriente; a sud del Sahara altre quarantotto nazioni o territori dove vivono – o sopravvivono – ben oltre un miliardo di persone. Uniti, più o meno, dal colore della pelle. Divisi da duemila lingue, da una moltitudine di credenze e religioni, dalle rivalità tipiche del genere umano. Popoli con radici antiche e storie ancora in parte sconosciute, sicuramente sottovalutate. Popoli che gli insegnamenti ereditati dal passato ci fanno chiamare tribù (termine poi usato dagli stessi africani) per indurci a non capire che molti dei conflitti armati che tormentano il continente hanno radici nei confini tracciati con noncuranza dalle potenze coloniali europee in una conferenza a Berlino (1894-95) e alla fine della Prima guerra mondiale.

I confini: un tracciato incerto

Tra la fine degli anni Sessanta e nel decade successivo, con la decolonizzazione ancora in corso, sono stato tre volte nel Camerun: 475.442 chilometri quadrati, oltre 100 più dell’Italia. A guardarli sulla carta, i suoi confini sembrano opera di un bambino di due anni a cui i genitori hanno chiesto di disegnare un animale preistorico. Dal Golfo di Guinea si allungano come un serpente in movimento nel cuore del continente, a ridosso del lago Ciad: un tracciato sempre incerto. Come oggi è incerto il futuro del paese, bacino apparentemente interminabile di un flusso migratorio versa la speranza. E come per motivi simili è incerto il futuro di altre realtà del continente dove si combatte e si muore e dove forze estranee, vecchie e nuove, sono sempre più protagoniste di un grande gioco. O, meglio, di più giochi. Nel maggio 1963, gli stati africani indipendenti, in una conferenza ad Addis Abeba, fondarono l’Organizzazione per l’Unità africana. Il panafricanista Kwame Nkrumah (rivoluzionario e primo presidente del Ghana) voleva veder nascere nel suo continente quello che sognava Altiero Spinelli per l’Europa ma si dovette accontentare di uno statuto meno ambizioso e che, comunque, metteva in primo piano la necessità di non mettere in dubbio le frontiere uscite dal colonialismo. La parola d’ordine per tutti: evitiamo la balcanizzazione del continente.

Camerun

Dal “Messaggero” del 3 agosto 1969 il racconto di Eric Salerno della costruzione della Transcamerunense, le prospettive (tradite?) di ricchezza e di progresso in Africa Equatoriale

Diversi Camerun in un solo paese

Quei tre viaggi in Camerun offrivano all’osservatore dosi calcolate di ottimismo dove oggi – e anche allora – è guerra. Cominciamo questo percorso da Douala, un grande porto dove in un ristorante francese, retaggio positivo del colonialismo, assaggiai per la prima volta le cosce di rana e dove uno chef parigino di nascita preparò un incredibile soufflé di cioccolato per coronare un pasto di gran livello. Mangiai dei crostacei raffinatissimi quasi d’obbligo perché è da loro che il paese prese il suo nome. Gli esploratori portoghesi che nel XV secolo approdarono da quelle parti non avevano dubbi: il delta del Wouri, ricco di quegli animali acquatici, divenne Rio dos Camarãos (“Fiume dei gamberi”); il paese, con il passare del tempo, Camerun.

Insegne nel Camerun francofono… (foto di Eric Salerno)

Erano alcuni giorni che ero costretto a rispolverare il mio francese, lingua comune per le molte etnie di quella parte del paese, ed ebbi quasi un sussulto quando, usciti da Douala e arrivati dopo non molto quasi alla base del Monte Camerun mi accorsi che le insegne delle botteghe erano improvvisamente tutte in inglese. Avevamo attraversato una frontiera che era stata cancellata e che oggi, mezzo secolo dopo quel viaggio, segna la linea di confronto tra due mondi in contrapposizione. In un posto di ristoro a Buea, il capoluogo della regione del Sudovest, 870 metri di altitudine sulle pendici meridionali del monte più alto (4040 m) di tutta l’Africa centrale (è un vulcano attivo), mi offrirono un muffin, retaggio non proprio sofisticato della breve presenza degli inglesi.

insegna inglese

Foto di Eric Salerno

La Repubblica federale che (non)unisce del tutto

Trovai, in quella e nelle altre visite, poco o nulla degli anni in cui questo lembo d’Africa si chiamava Kamerun, i suoi padroni parlavano il tedesco, ed era ancora più grande grazie a uno scambio territorio-favori (il trattato Marocco-Congo del 1911) tra Berlino e Francia. Una mossa sulla plancia della Monopoli africana simile ad altre tra le potenze colonialiste. Londra e Parigi, dopo la sconfitta della Germania, si divisero il bottino africano della Grande Guerra. Passarono di mano anche il Tanganika, oggi Tanzania dopo una non sempre tranquilla unione con Zanzibar; il Togo dove lotta un movimento separatista nel West Togoland, quella parte dell’ex colonia tedesca che dopo la decolonizzazione divenne una provincia del Ghana. Il Kamerun fu diviso in due: Camerun inglese, accanto alla vasta colonia britannica della Nigeria, Camerun francese, appoggiato agli ex possedimenti di Parigi a nord e a est. Poi dopo varie fasi incerte nacque la Repubblica federale che avrebbe dovuto rispettare l’autonomia della popolazione anglofona rispetto alla preponderanza di quella francofona. Non fu così e la spaccatura avvenne proprio sulla questione linguistica, eredità coloniale e fattore unificante di gruppi etnici e popoli non soltanto in questo paese. Tre anni fa, la proclamazione della Repubblica federale di Ambazonia da parte degli anglofoni e la nascita di movimenti separatisti armati ha portato a un conflitto ancora in atto. E che ricorda quello che infuriava nella stessa regione cinquanta anni fa che, come scrissi allora, riguarda la competizione tra i bamiléké (nelle regioni anglofone) e gli altri, e aveva radici profonde ma anche motivazioni, diciamo, aggiornate.

Un reportage di Eric Salerno dal Camerun, apparso su “Il Messaggero”, l’8 agosto 1969: rivalità tribali vs. unità nazionale

“I bamiléké sono progrediti in questi ultimi anni a grandi sbalzi, superando quasi sempre lo sviluppo economico e sociale degli altri gruppi etnici. I sistemi feudali delle loro tribù sono stati aboliti e la società bamiléké ha sostituito le strutture dei villaggi con cooperative, associazioni comunitarie per il commercio. Oggi possiedono piantagioni, ricche e altamente produttive, stabilimenti per il trattamento del caffè, garage e magazzini, e gestiscono la quasi totalità dei servizi di trasporto terrestre del paese”

L’allora presidente Ahidjo, un foulbé (etnia minoritaria, musulmano, del Nord) sosteneva la necessità di raggiungere la non facile unità nazionale prima di impegnarsi nello sviluppo economico del paese. Oggi il paese è tra i più solidi grazie alle risorse naturali, compresi petrolio e gas, legnami pregiati e prodotti agricoli ma la ricchezza è concentrata nelle regioni meridionali. La scena politica è da anni dominata da un partito (Movimento democratico del Popolo camerunese) e dal suo presidente Paul Biya, 85 anni, al potere dal 1982 e al suo settimo mandato dopo le contestate elezioni del 2018.

L’eredità coloniale delle religioni

Credo che sia importante, qui, sottolineare un altro elemento di coesione e in molti casi di tragica lotta fratricida in questo paese come in tutto il continente: le religioni come eredità coloniale. L’islam, arrivato soprattutto nel Sahel, lungo la costa Mediterranea e quella dell’Oceano Indiano ancora prima della conquista europea del continente, è un fattore unificante ma anche di scontro spesso all’interno della sua complessa galassia. Nel suo nome vengono portate avanti crociate che sfruttano contrasti più tradizionali come quelli tra coltivatori e pastori quando, come ora, il clima ha reso più difficile la sopravvivenza delle popolazioni. Gruppi islamisti, finanziati e sostenuti da attori esterni al continente, sono attivi nelle regioni settentrionali del Camerun e in quasi tutta la fascia del Sahel dove i musulmani sono preponderanti. La realtà del Camerun – dal Golfo di Guinea al lago Ciad – deve la sua complessità anche a chi disegnò le sue frontiere. Circa il 70 per cento della sua popolazione è cristiana: la maggioranza cattolica nella parte francofona, i protestanti in quella che fu dominata dalla Gran Bretagna. La gravità della situazione è stata sottolineata a febbraio di quest’anno nella lettera di un gruppo di vescovi che sollecitavano il governo di Yaoundé a rinunciare al centralismo che impone l’identità francofona sugli anglofoni.

La violenza e le atrocità commesse da tutte le parti in conflitto hanno costretto 656.000 camerunesi di lingua inglese a lasciare le loro case, 800.000 bambini a non andare più a scuola (inclusi i 400.000 alunni delle scuole cattoliche), 50.000 persone a fuggire in Nigeria, distrutto centinaia di villaggi e ucciso almeno 2000 persone

Le risorse naturali, vera causa delle guerre civili

Purtroppo l’esempio del Camerun è soltanto uno dei meno noti dei conflitti africani. Del Sudan e del Sud Sudan, paesi indipendenti dopo guerre civili spesso manovrate dall’esterno, ma sempre con “problemi tribali” al loro interno, si parla spesso. Come si è parlato nell’ultimo mese della guerra che rischia di smembrare l’Etiopia, uno dei più antichi paesi del mondo. L’Unione africana, alcuni anni fa, aveva designato il 2020 l’anno della pace nel continente. L’obiettivo, mettere fine a tutti i conflitti. Da quelli di cui si parla sovente – Libia, Sudan, Mali – a quelli poco trattati dai media nella Repubblica democratica del Congo, nella Repubblica Centrafricana, in Somalia, Kenia e, da poco tempo, nel Nord del Mozambico ricco di idrocarburi. Le risorse naturali sono, come sempre, l’interesse principale degli attori esterni. E la causa di molte guerre civili africane. Una per tutte: la guerra del Biafra (una regione della Repubblica federale della Nigeria super-ricca di petrolio) scoppiata pochi anni dopo l’indipendenza (1967-1970). Si preferì parlare, allora, di “rivalità etniche”, che sicuramente esistevano ed esistono ancora oggi in quel vasto paese.

Il fascino del potere

E qui, seppure con cautela per non sottovalutare il passato, è d’obbligo sottolineare che oltre mezzo secolo dopo la decolonizzazione anche l’attuale dirigenza africana deve assumersi le proprie responsabilità. Tra queste, l’incapacità o la mancanza di volontà di modificare le strutture economiche e politiche di sfruttamento dei cittadini e l’attaccamento al potere di molti leader,  uomini politici inizialmente innovatori ormai dittatori attaccati al potere e a tutto ciò che rappresenta. L’impegno di mettere fine a tutte le guerre entro quest’anno era sicuramente irrealistico. Anche perché le rivalità e divergenze tra i leader dei 27 stati dell’Unione europea sono nulla rispetto a quelle che dividono i governi dei 55 paesi africani, alcuni dei quali colpevoli anche di favorire i conflitti civili e i movimenti separatisti nei loro vicini di casa.

La foto utilizzata in copertina è stata esposta alla mostra “A sud del Sahara. Fotoreporters italiani nell’Africa nera 1969/1979”, tenutasi a Palazzo Isimbardi a Milano nel maggio 1980, con opere di Paola Agosti, Romano Cagnoni, Carlo Cisventi, Augusta Conchiglia, Mario Dondero, Fausto Giaccone, Uliano Lucas… Eric Salerno. L’immagine illustra un gruppo di viaggiatori in attesa del treno alla stazione di Nanga-Boko, fine luglio 1969.