Un muro di sabbia che divide gli uomini

In occasione della ricorrenza della nascita – il 27 febbraio 1976 – della Repubblica Democratica Araba dei Saharawi proclamata formalmente dal Fronte del Polisario, riconosciuta da 76 stati, principalmente africani e sudamericani, dall’Unione Africana ma non dall’Onu, pubblichiamo un contributo di Alice Pistolesi sulla situazione dentro e fuori dai campi profughi dell’area. Lo stesso Fronte è riconosciuto solo da alcuni paesi come rappresentante dei separatisti e nessuno stato ha riconosciuto finora formalmente l’annessione del Sahara Occidentale da parte del Marocco. Il muro di sabbia divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale, dove tra la normalizzazione del conflitto, repressione ed emergenza sanitaria con aiuti umanitari in ritardo le condizioni di vita sono inconciliabili con il concetto di vita stesso. La rivendicazione saharawi evidenzia una religiosità non riconducibile ad alcuna ortodossia: questa è una caratteristica che accomuna un po’ tutte le comunità che rivendicano una sorta di autodeterminazione e hanno provato a costruirsela.

In attesa della decolonizzazione che non arriverà mai

La linea tratteggiata su una mappa geografica assume più significati: il territorio è conteso, il riconoscimento dello stato non è avvenuto e, altamente probabile, chi lo abita vive quotidiane violazioni di diritti. Uno su tutti, quello all’autodeterminazione.

È questo il caso del Sahara Occidentale, occupato dall’esercito marocchino nel 1975 e considerato dalle stesse Nazioni Unite come l’ultima colonia africana esistente, inserita nella lista dei 17 territori non autonomi in attesa di decolonizzazione.

Nel territorio è attiva dal 1991, anno del cessate il fuoco tra l’esercito marocchino e il Fronte Polisario (la forza armata saharawi), la missione Onu Minurso con il compito di vigilare sulla tregua e di organizzare il referendum che avrebbe dovuto portare il popolo saharawi a decidere del proprio destino, ma che non si è mai svolto.

La popolazione saharawi è quindi tuttora divisa tra chi in quel 1975 lasciò le proprie case cercando rifugio nel deserto algerino e da lì non si è più mosso, è cresciuto, ha composto famiglia, è invecchiato, è morto. E chi invece non ha mai lasciato il Sahara Occidentale e vive sotto occupazione.

Riprendere a combattere

La vita in entrambe le aree è peggiorata con la ripresa delle armi, scaturita il 13 novembre 2020 in seguito alla violazione del cessate il fuoco da parte dell’esercito marocchino. Violazione arrivata dopo che, per 21 giorni, i saharawi avevano occupato il valico di Guerguerat, all’interno dell’area cuscinetto che insiste sul muro di 2700 chilometri fatto costruire a partire dal 1980 dal Marocco e che divide la popolazione profuga nel deserto da quella che abita nel Sahara Occidentale.

Con la ripresa del conflitto è cresciuta di giorno in giorno la repressione esercitata dalle forze marocchine contro la popolazione civile saharawi e nelle carceri. Chi vive nel Sahara Occidentale fa ogni giorno i conti con le costanti violazioni dei diritti umani, testimoniate da numerose organizzazioni internazionali. La stampa estera non può entrare e ogni forma di giornalismo “di strada” è perseguito, così come la stessa cultura saharawi. Nel Sahara Occidentale non ci sono università e ospedali specializzati e il tasso di disoccupazione è altissimo.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Alcuni casi di repressione

Il giornalista Mohamed Lamin Haddi si trova in carcere in Marocco da 10 anni, con ancora 15 da scontare. Si trova in isolamento, non riceve visite da un anno, può parlare a telefono con la sua famiglia solo pochi minuti a settimana. Ha un’ulcera ma non riceve cure mediche. Dal 13 gennaio 2021 Haddi è in sciopero della fame per protestare contro le condizioni di detenzione. La protesta è iniziata, riferisce “Équipe Média”, agenzia di stampa saharawi che opera in clandestinità, dopo essere stato più volte attaccato nella sua cella da alcuni funzionari.

La Corte di Cassazione marocchina ha confermato il 25 novembre 2020 le pene contro Haddi e altri 22 attivisti saharawi per i fatti avvenuti nel campo di Gdeim Iziz, nella periferia di El Aaiún (la capitale del Sahara Occidentale) nel 2010, quando vennero uccisi 2 manifestanti e 11 agenti marocchini. Nel campo di Gdeim Izik, si erano stabiliti circa 25.000 saharawi per rivendicare diritti sociali. Le condanne confermate dall’ultimo grado di giudizio vanno dai 20 anni di carcere all’ergastolo e sono state imposte, secondo una dichiarazione congiunta di Human Right Watch e Amnesty International «in processi viziati da accuse di tortura» e basati sulle loro confessioni alla polizia, senza altre prove.

L’attivista saharawi Sultana Khaya è stata gravemente ferita il 15 febbraio sotto la sua casa a Bojdour, dove stava scontando da 87 giorni gli arresti domiciliari. Secondo quanto riferiscono fonti vicine alla famiglia, è stata aggredita da agenti di polizia che hanno lanciato pietre contro di lei e sua sorella, ferendole la bocca e rompendole alcuni denti. Nel 2007, durante una manifestazione, un’aggressione della polizia marocchina le era costata un occhio. Dopo l’ultimo atto di violenza decine di persone sono scese in strada in difesa della loro connazionale e per chiedere il rispetto dei diritti umani.

Proteste in sostegno dell’attivista Sultana Khaya, dopo l’aggressione a Bojdour

Costanti anche i rapimenti. A El Aaiún il giovane attivista Ghali Bouhala è stato rapito il 12 febbraio dalle forze di polizia: non se n’è avuta notizia fino a quando non è comparso davanti al Tribunale di primo grado di El Aaiún, accusato di traffico di droga.

Modalità simili anche nei confronti dell’attivista Mohamed Nafaa Boutasoufra. Rapiti il 15 febbraio anche due minori saharawi nella città di Laayoune dalla polizia in borghese.

Da sempre, ma ancor più con la ripresa della guerra, popolano le strade del Sahara Occidentale decine di poliziotti in borghese che controllano i gruppi che si formano nelle strade. Dal 13 novembre sono state molte le manifestazioni di sostegno al Polisario nelle varie città: la polizia si infiltra tra la gente, filmandola, per poi intervenire nei giorni successivi. Le manifestazioni, nei territori, si organizzano prima con il passaparola, poi tramite messaggi.

Vivere da attivisti

Le vite degli attivisti sono simili tra loro. Per essere considerato tale basta davvero poco: cantare canzoni della cultura saharawi, esporre bandiere, vestire il darrâa, l’abito tradizionale.

La paura è una costante. Tutti coloro che si impegnano per la causa sanno che presto o tardi il rapimento, la reclusione, l’aggressione potrebbe capitare a loro e a qualcuno della propria famiglia. Difficile dire quanti siano adesso i prigionieri saharawi nelle carceri marocchine. Prima della guerra le associazioni vicine ai saharawi ne contavano 39. Il 20 novembre 2021 “Équipe Média” individuava 25 nuovi arresti a El Aaiún e diversi casi di maltrattamenti. Nella primavera 2020 era stata lanciata una campagna per la liberazione dei detenuti saharawi avvalorata dal rischio contagio da Covid-19 e sostenuta anche da numerosi parlamentari europei, da diverse ong e da Michelle Bachelet, Alto Commissario Onu per i diritti umani. L’appello è però rimasto inascoltato.

Il Fronte Polisario ha sottolineato che l’attuale ritorno delle azioni militari nel Sahara Occidentale sta provocando «un drammatico aumento della repressione e delle violazioni dei diritti fondamentali dei civili saharawi nel Sahara Occidentale». A dirlo anche organizzazioni internazionali come Human Rights Watch e Amnesty International, che hanno ripetutamente denunciato l’escalation di repressione nei territori saharawi occupati.

Covid-19 e aiuti internazionali in ritardo

Nei campi profughi nel deserto algerino la vita è stata complicata dal combinato disposto tra Covid-19 e guerra. La pandemia ha fatto sì che gli aiuti internazionali, fondamentali per la popolazione che abita in un deserto in cui le condizioni climatiche non permettono in nessun caso l’autosostentamento, sono stati a lungo bloccati. Solo a titolo di esempio, l”associazione spagnola Hurria ha denunciato che i 15.000 chili di aiuti raccolti nel comune spagnolo di Andoain all’inizio del 2020 sono arrivati nei campi nel gennaio 2021.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)

Il terremoto Trump e i suoi lasciti

A complicare la vita dei civili saharawi c’è poi l’accordo che l’ex presidente Usa Donald Trump ha concluso con il Marocco sul riconoscimento della presunta sovranità sul Sahara Occidentale, in cambio di una normalizzazione delle relazioni con Israele.

A questo si somma poi l’apertura di un consolato americano a Dakhla, il grande porto del Sahara Occidentale. Al momento Biden non si è espresso sulla questione ma osservatori rilevano che il percorso del neopresidente non si discosterà troppo da quello del predecessore, come richiesto da buona parte della comunità internazionale e, il 24 gennaio, dal presidente dell’Unione Africana (e del Sud Africa) Cyril Ramaphosa.

Normalizzare la guerra, il vero rischio

A latere di tutto questo c’è la guerra con scontri più o meno quotidiani che da due mesi si susseguono lungo il muro, area altamente militarizzata e costellata da milioni di mine antiuomo. Se nei primi giorni della ripresa del conflitto l’attenzione si era levata su una zona del mondo spesso dimenticata, adesso c’è il rischio che alla normalità del vivere da esuli nei campi profughi in uno dei territori più inospitali del mondo, dell’insicurezza e della repressione dell’abitare sotto un’occupazione, si vada ad aggiungere una nuova normalità: quella di un’ennesima guerra inutile, dannosa e che si poteva decisamente evitare.

Campo profughi nel deserto algerino (foto di Camilla Caparrini)