Un gioco è bello quando dura poco. Report dal confine bosniaco-croato

Proponiamo questo reportage sulla situazione dei migranti al confine bosniaco-croato a cura di Simone Zito (Collettivo Rotte Balcaniche Alto Vicentino), pubblicato su Melting Pot, diventato poi uno dei nostri volumi (Rott’amare), composto con i materiali che Simone ha salvato dal suo impegno estivo in Bosnia. Più avanti, con altri contributi, approfondiremo il tema anche dal punto di vista giuridico per evidenziare i lati oscuri della pratica dell’esternalizzazione che portano alla violazione del diritto internazionale e inquadreremo i criteri che le democrazie occidentali individuano all’interno dei vari quadranti interessati e le aspettative che fanno “investire” su un paese piuttosto che un altro affinché questo svolga il ruolo di gendarme blindato che impedisce l’arrivo di migranti nella “Fortezza”.

“Alta tensione per l’emergenza bosniaca”.

 


Ci sono molte cose che non ti aspetti tra le colline boschive che separano la Bosnia-Erzegovina dalla Croazia. Le armi da fuoco, per esempio. La settimana scorsa c’era una pistola puntata contro una donna nigeriana dal suo passeur, chiusa in una casa e stuprata. È riuscita a fuggire lanciandosi da una finestra e ora è ospitata in una casa sicura. Qualche giorno fa un’avvocata ci ha informato anche di un traffico di organi lungo il confine e sappiamo di gang che, come nelle migliori tradizioni medioevali, rapinano i migranti che provano a passare la frontiera. Per non parlare di droni, microfoni nei boschi, telecamere, migranti marchiati con vernice sulla testa o dai bastoni della polizia croata. Per non farsi mancare nulla possiamo citare anche mine e orsi nelle foreste. Dopo le prime settimane di permanenza lungo il confine bosniaco-croato, lavorando attivamente e in modo complice con i migranti che quotidianamente cercano di valicarlo, iniziamo a farci un’idea dell’atrocità dei meccanismi di accoglienza dell’Unione Europea.

Il buco nero d’Europa

Quella bosniaca è una migrazione giovane, iniziata tre anni fa, nel 2018. Da allora la Bosnia ed Erzegovina (Bih) è diventata il nuovo crocevia delle rotte dei migranti in fuga da paesi in guerra o dove forte è l’instabilità politica nel continente asiatico, come Afghanistan, Siria, Iraq e Pakistan. I due centri di raduno più significativi sono Bihać e Velika Kladuša, due piccole cittadine del Cantone Una-Sana nella parte nord-occidentale del paese. Questo per la loro prossimità al confine con la Croazia e per il fatto che le altre regioni che costituiscono la federazione bosniaca rivendicano apertamente di non volere migranti e pertanto non autorizzano la presenza di campi che, quindi, si concentrano nel cantone dell’Una-sana e attorno a Sarajevo.

Da Bihać e Velika Kladuša sono circa 240 i chilometri che dividono i migranti dal confine italiano e austriaco, chilometri che macinano a piedi in una decina di giorni con lo zaino pieno di pane, il timore di essere individuati dalla polizia croata e la fame e la sete degli ultimi giorni, quando ciò che si erano portati dietro è finito e a spingerli in avanti sono solo la speranza e la disperazione impastate assieme. Spesso i pochi fortunati che arrivano a Trieste arrivano in condizioni difficili, a volte critiche.

Secondo un rapporto dell’Oim (l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di maggio 2021, sono 3220 i migranti che, a fine aprile 2021, vivono in accampamenti informali fuori dai centri di “accoglienza”. Vista l’immobilità e l’ingovernabilità dello Stato bosniaco, in un primo momento è stata l’Oim a occuparsi della creazione e della gestione dei campi autorizzati. Il Rapporto denuncia tuttavia la progressiva diminuzione dei posti disponibili, arrivando a 3242 nel 2021, situati in poche strutture isolate, con standard insufficienti (assenza di elettricità, di acqua calda o di servizi essenziali). Questo nonostante i fondi dell’Unione europea arrivati in Bosnia ed Erzegovina per la gestione dei flussi migratori ammontino a più di 88 milioni di euro dal 2018 al 2021. Ovviamente a questi finanziamenti bisogna sommare quelli erogati per la gestione delle frontiere e il rafforzamento delle capacità della polizia nelle attività di controllo dei flussi migratori per oltre 23 milioni di euro.

Nonostante quanto scritto finora, la recente politica del governo bosniaco è quella di una progressiva chiusura dei campi preesistenti su proprietà private, anche a causa degli alti costi pagati a personaggi non sempre trasparenti, l’esclusione delle Ong internazionali dalla gestione delle strutture di “accoglienza” e il passaggio sotto la giurisdizione del ministero per la Sicurezza.

Verosimilmente, questo comporterà l’abbandono di standard internazionali nell’organizzazione dei campi che finiranno per essere sotto il diretto controllo di un Paese al momento incapace, per volontà e capacità, di gestire un fenomeno migratorio pur di modesta portata [1].

Altre conseguenze rilevanti saranno il progressivo aumento della logica securitaria all’interno dei campi, un cambiamento di paradigma della finalità di queste strutture, sempre più simili a luoghi di detenzione, e una diversa politica nei confronti delle organizzazioni informali e delle Ong non registrate. Finora questi gruppi sono stati generalmente tollerati dalle autorità locali e non, data l’impossibilità da parte loro di affrontare, per il momento, la gestione dei migranti in territorio bosniaco. Quando però il campo di Lipa sarà pronto è prevedibile un inasprimento della repressione nei confronti di queste organizzazioni.

Lipa: un passato di tende, un futuro di container

Il campo di Lipa rientra all’interno delle dinamiche appena descritte: il nuovo insediamento dovrebbe essere inaugurato il 6 settembre. “Nuovo” perché il 23 dicembre del 2020 è andato a fuoco lasciando centinaia di persone in ciabatte in mezzo alla neve. Il nuovo campo sarà costituito da container e dovrebbe ospitare 1500 persone (1000 uomini singoli, 300 membri di nuclei familiari e 200 minori non accompagnati). La strategia è quella di chiudere i campi vicino alle zone di confine e relegare le persone in questa enorme struttura, situata su un altopiano isolato. Al momento il campo di Lipa è costituito da 30 tendoni con una capienza di 30 persone l’uno. Per il momento sono 600-700 le persone “ospitate” e possono entrare e uscire a piacimento; in passato, tuttavia, si è arrivati a contenerne fino a 1500. Anche se tutto dovesse andare secondo i piani del Governo, non sarà possibile coprire il numero di migranti presenti in Bosnia ed Erzegovina (tra i 7000 e i 9000) che avrebbero bisogno di un ricovero, almeno nel periodo invernale. La previsione è comunque già quella di un futuro ampliamento. Il fine, ben poco celato, è il rallentamento dei flussi di migranti verso l’Unione europea.

Questa nuova politica dei campi sta già probabilmente modificando le rotte migratorie che potrebbero spostarsi in zone differenti, probabilmente più vicine alla Serbia.

C’era una volta la Jugoslavia

Se si volesse fare un paragone tra la Serbia e la Bosnia-Erzegovina, si potrebbe dire che la prima ha una tradizione più lunga di gestione dei flussi migratori: iniziata come rotta nel 2016, ora sono presenti 18 centri per il transito e i richiedenti asilo. Il numero dei People On the Move – Pom (persone in movimento) presenti sui rispettivi territori nazionali è simile (8000-10.000 in Serbia, 7000-9000 in Bosnia). I campi con meno servizi e meno organizzati sono quelli per uomini singoli e vicino al confine (per il gran numero di persone che tenta il game e i problemi di gestione a esso legati). Capita che d’inverno i Pom tornino in Serbia date le condizioni di invivibilità all’esterno dei campi e per la migliore qualità dell’accoglienza.
Per quanto riguarda, invece, il rapporto tra Croazia e Bosnia, quest’ultima non accusa formalmente la Croazia per le riammissioni [2], quanto per i respingimenti illegali fatti all’interno del suolo nazionale. La questione dirimente non è quindi la violenza sistematica e illegale di una polizia che sequestra telefoni, bastona e toglie le scarpe ai migranti anche in pieno inverno per ributtarli in mezzo al nulla, quanto la violazione della sovranità nazionale. Purtroppo sono pochissimi i Pom che decidono di denunciare i respingimenti violenti subiti: molti non ne vedono l’utilità o hanno paura che questo possa rallentare o impedire il riconoscimento del loro stato di rifugiato. Spesso, molto più prosaicamente, non hanno alcuna intenzione di stare fermi un anno per attendere i tempi burocratici della pratica o preferiscono dimenticare senza essere costretti a rivivere il trauma. A volte capita siano i migranti stessi a giustificare quanto hanno subito: «Mi hanno picchiato, ma io sono un migrante irregolare». Al di là dei motivi, lo stato croato continua ad affermare che non ci sono prove di respingimenti violenti e che i segni delle percosse, le ferite, i traumi sono auto inflitti dagli stessi migranti o causati da conflitti tra loro [3].

“Acab anche nei Balcani il problema sono loro”.

«Migranti big problem»

Per il momento gruppi di cittadini organizzati e razzisti non sono ancora preoccupanti. Esistono e uno dei più significativi è guidato da Sej Ramić, un professore d’arte il cui slogan è “stop all’invasione dei migranti” e la cui propaganda è caratterizzata da contenuti xenofobi e razzisti. Pur avendo un certo seguito sui social e tra la gente, quando si è candidato alle elezioni nella città di Bihać nel 2020 non ha riscosso grandi consensi anche a causa del forte legame degli elettori con i tre partiti etnonazionalisti.

Là dove la politica manca, bisogna farla

Non vi sono lotte collettive o autorganizzate da parte dei Pom, questo per svariati motivi: la fatica fisica, la miseria del viaggio e la mancanza di leader politici o di comunità. Vi è un egoismo più che comprensibile che nasce dalla volontà di sopravvivere nonostante tutto e tutti e, nelle zone di confine, disperde mesi o anni di relazioni costruite durante il viaggio. Le poche battaglie fatte avvengono a titolo personale.

Il governo bosniaco sembra intenzionato a promuovere la costruzione di pochi grandi campi lontani dalle zone di confine, in modo da ridurre il numero di migranti che tentano di entrare in Croazia. Questo per svolgere al meglio il ruolo che l’Unione Europea ha deciso di attribuire a questa terra, cioè quella di uno stato cuscinetto in grado di ridurre gli ingressi in cambio di milioni di euro di denaro pubblico. Il tutto condito con livelli di inefficienza, corruzione e confusione legislativa e burocratica importanti.

Le Ong presenti sul territorio svolgono un lavoro difficile e prezioso, calmierando quella che potrebbe essere una mattanza silenziosa e silenziata, senza però riuscire a evitare di trasformare un fenomeno migratorio che ha cause politiche e responsabilità chiare in rivoli infiniti di disperazioni monodose, di morti e ferite tutte individuali. Tuttavia, la necessità di farsi riconoscere a livello ufficiale dal Governo bosniaco riteniamo comporti scelte che, pur tatticamente utili al fine di alleviare le sofferenze dei migranti, strategicamente possano comportare una difesa dello stato di cose presente, piuttosto che un suo ribaltamento. Inoltre, vi è un rischio che queste organizzazioni dovrebbero valutare nella progettazione delle loro attività: l’essere funzionali a un processo di invisibilizzazione del fenomeno a quasi vantaggio solo delle autorità locali, permettendo una qualche sorta di sopravvivenza nelle jungle fuori dalla città e, conseguentemente, l’allontanamento dei migranti dai centri urbani e dalla vista degli onesti cittadini.

Pertanto riteniamo sia necessario e urgente, da parte di organizzazioni, collettivi e singoli individui che si sentono solidali con i migranti e nemici delle frontiere, riempire quello spazio politico che i vari attori di questo spettacolo non possono o non vogliono agire. Nascondersi dietro la finzione che siamo solo turisti in vacanza e non collettivi politici, riteniamo non sia utile a porre la questione su un piano che non è più rimandabile. Scegliamo di venire lungo le rotte per denunciare le politiche mortifere di esclusione dei poveri da parte dell’UE. Questa nostra rimane una riflessione sicuramente iniziale e incompleta, dato che vorremmo fosse arricchita da una molteplicità di contributi di chi lavora sul campo e di chi, invece, si spende su altri ambiti.

“La condizione umana nei campi di Sarajevo: Ušivak”.
Pensiamo che sul lungo periodo non riconoscere pubblicamente il contenuto politico del nostro operato possa essere controproducente: non siamo turisti che regalano pantaloncini, anche perché non basterebbero tutte le braghe del mondo per mettere anche solo una pezza su quanto sta succedendo qui, tutti i giorni.

Un elemento della discussione, proposto spesso da chi lavora sul campo, è che portare una qualche forma di conflitto può mettere a rischio le attività o addirittura le persone in movimento. Di questo dobbiamo tenere conto, ovviamente, essendo una realtà complessa e articolata.

Tuttavia alzare il livello del conflitto ora dovrebbe essere visto come un aprire spazi di agibilità in futuro, quando le politiche securitarie saranno efficienti e rodate.

Le manifestazioni di Trieste prima e Maljevac dopo sono state un piccolo passo in questa direzione, ma importante. Abbiamo capito che è possibile portare pressanti richieste anche dove fino a quel momento sembrava impossibile. Tutto ciò si collega anche con le lotte contro le denunce arrivate e che ci aspetteranno nel breve futuro. Gli attivisti e le attiviste denunciate non possono restare sole nel percorso giudiziario, dobbiamo contrastare questo attacco alla solidarietà creando un fronte comune. E continueremo a stare dove non dovremmo stare.

 

Fonti

- Dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea, RiVolti ai Balcani, luglio 2021, https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/

- Consiglio europeo Comunicato stampa 18 marzo 2016, Dichiarazione UE-Turchia, 18 marzo 2016
https://www.consilium.europa.eu/it/press/press-releases/2016/03/18/eu-turkey-statement/

- L’Oim chiede la fine dei respingimenti e delle violenze contro i migranti lungo le frontiere esterne dell’UE https://italy.iom.int/it/notizie/loim-chiede-la-fine-dei-respingimenti-e-delle-violenze-contro-i-migranti-lungo-le-frontiere

- Iom: Temporary Reception Center Profiles, https://bih.iom.int/temporary-reception-center-profiles

- Save the Children, Viaggio (attra)verso l’Europa, report 20 giugno 2021, https://www.meltingpot.org/Report-di-Save-the-Children-Nascosti-in-piena-vista-Minori.html

- La vittoria dei talebani è inevitabile?, https://www.ilpost.it/2021/08/07/afghanistan-talebani-vittoria-inevitabile/

- Giuseppe Smorto, Fabio Tonacci, Le riammissioni dei migranti in Slovenia sono illegali, il Tribunale di Roma condanna il Viminale, https://www.repubblica.it/cronaca/2021/01/21/news/viminale_condannato_riammissioni_illegali_respingimenti_slovenia_migranti-283542228/

Note

[1] Per approfondire quanto questa crisi sia creata ad hoc più che giustificata dai numeri, si veda il prezioso dossier Bosnia ed Erzegovina, la mancata accoglienza. Dall’emergenza artificiale ai campi di confinamento finanziati dall’Unione europea, RiVolti ai Balcani, luglio 2021 – https://altreconomia.it/prodotto/bosnia-ed-erzegovina-la-mancata-accoglienza/

[2] Sarebbe interessante fare un’analisi del linguaggio utilizzato, in una logica sostanzialmente orwelliana. Per “riammissioni” si intendono gli allontanamenti informali (e illegali) attuati dalla polizia del Paese d’ingresso che, in modo generalmente violento, riporta i migranti al precedente Paese di transito senza dare loro la possibilità di presentare domanda di protezione internazionale. Famoso è il caso della sentenza del tribunale ordinario di Roma che condannò il ministero dell’Interno accusandolo, con queste prassi, di star violando contemporaneamente la legge italiana, la Costituzione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e persino lo stesso accordo bilaterale Italia-Slovenia.

[3] Vi sono casi sporadici di poliziotti croati che, tra il 2019 e il 2020, hanno denunciato in modo anonimo al loro sindacato le azioni criminali di cui sono stati testimoni. Quando vengono prese in carico queste denunce e non si concludono con un’impossibilità a procedere, finiscono per colpire singoli poliziotti presentati all’opinione pubblica come “mele marce” di un sistema sano che
tutela i migranti secondo il diritto internazionale e nel rispetto dei diritti umani.