Cronaca di una relazione annunciata: il Turkmenistan guarda con interesse ai Taliban

Continuiamo a tentare di comprendere come potrà evolvere la situazione nell’area centrasiatica, nonostante il lento oblio in cui sta sprofondando l’incubo afgano: da un lato ospitiamo corrispondenze di un giovane rifugiato ancora intrappolato a Kabul, che descrive la condizione vieppiù precaria dell’esistenza kabulina (soprattutto per le donne e gli hazara); dall’altro interpellando esperti, studiosi, analisti a cominciare da chi studia e frequenta da molto tempo la politica, cultura, storia e governance dei paesi limitrofi. Dopo il Pakistan di Beniamino Natale e Eric Salerno, il paese confinante con l’Afghanistan di cui si conosce in misura molto limitata la politica e il posizionamento nei confronti dei Taliban è il Turkmenistan. E scopriamo nelle parole di Luca Anceschi una predisposizione del regime di Ashgabat a farsi irretire da interessi cleptoautoritari comuni ai due regimi diversamente islamici.   


Alla geografia non si comanda. Mentre le truppe statunitensi si preparavano a lasciare definitivamente l’Afghanistan, le cancellerie dell’Asia Centrale seguivano l’inesorabile ascesa delle truppe affiliate al movimento dei Taliban con trepidante attesa. Una larghissima porzione di territorio afgano è incuneata nella regione centroasiatica: una linea di poco superiore agli 800 chilometri, spesso combaciante con lunghi tratti fluviali (Tedzhen, Kushk, Murghab, Amu Darya), traccia il confine con il Turkmenistan, il più isolato e autoritario tra gli stati subentrati all’Unione Sovietica. Nonostante le conclamate tendenze isolazioniste del regime turkmeno, ciò che accade a Kabul non può quindi non esser notato da chi governa ad Ashgabat.

Asia Centrale: gli “stan” in ordine sparso

La rapida assuefazione di Ashgabat

Mentre in Occidente si infervora il dibattito sull’opportunità di riconoscere il regime instauratosi alla guida dell’Emirato Islamico d’Afghanistan, il Turkmenistan – al pari degli altri stati centroasiatici – si è dovuto rapidamente adattare al nuovo, impresentabile vicino. D’altronde, il regime di Ashgabat non ha mai rinunciato a mantenere rapporti di buon vicinato con i Taliban: negli anni Novanta, i luogotenenti dell’allora presidente Saparmurat Niyazov sembravano non aver nessun problema nel farsi ritrarre in compagnia di esponenti Taliban della prima ora, tessendo una fittissima rete di relazioni economiche per lo più informali, spesso legate al narcotraffico, che si accompagnavano a patti (più o meno stabili) di non aggressione. La musica non è cambiata neanche nella turbolenta estate appena conclusasi: ancor prima della presa di Kabul e la frettolosa fuga di Ashraf Ghani, emissari del governo turkmeno già si incontravano con i governatori messi dai Taliban a capo delle regioni di Balkh ed Herat. Negli ultimi mesi, l’ambasciata turkmena a Kabul e il consolato a Mazar-i Sharif non hanno praticamente mai smesso di espletare le proprie funzioni, arrivando addirittura a godere della protezione di guerriglieri Taliban appostatisi all’ingresso delle due sedi diplomatiche.

Attrazione fatale

Pur avendo concesso il proprio spazio aereo al transito degli aeromobili impegnati nell’evacuazione di truppe occidentali e profughi afgani, il Turkmenistan ha evitato in ogni modo possibile di accogliere sul proprio territorio i rifugiati provenienti dall’Afghanistan, rinunciando finanche al rimpatrio della comunità etnica turkmena presente in Afghanistan. Alla preoccupazione con cui il presidente Gurbanguly Berdimuhamedov guardava alla questione afgana nella primavera scorsa, quando il governo turkmeno aveva iniziato una massiccia mobilitazione di truppe nelle zone confinanti con l’Afghanistan, si è dunque sostituito un tacito ma evidente opportunismo. Nonostante il Turkmenistan non abbia ancora riconosciuto ufficialmente l’Emirato Islamico di stanza a Kabul, la dissonanza tra l’atteggiamento di apertura di Ashgabat e le politiche occidentali che tassativamente evitano contatti ufficiali con i Taliban rimane evidentissima. Al contempo, i buoni rapporti tra il Turkmenistan e il regime di Kabul devono esser visti come un’importante eccezione alla regola centroasiatica, una regione in cui gli altri stati limitrofi si sono rivolti ai nuovi padroni dell’Afghanistan con una malcelata ambivalenza (Uzbekistan) o sfoggiando un’aperta ostilità (Tagikistan).

Matrimonio di convenienza autoritaria con il vicino Emirato

Consolidamento della cleptocrazia assoluta

È la ricerca di una spesso effimera stabilità autoritaria che, a mio modo di vedere, continua a indirizzare le strategie di lungo raggio tramite cui il Turkmenistan intende correlarsi con i Taliban. Per un regime ossessionato dal potere assoluto come quello guidato da Berdimuhamedov, i rapporti di vicinato sono semplici veicoli di consolidamento autoritario. In quest’ottica l’Afghanistan diventa un interlocutore primario per la costruzione di rapporti economici più o meno leciti che hanno tuttavia un fine meramente cleptocratico: arricchire il regime turkmeno consentendo al presidente e ai suoi alleati più importanti la gestione di ingenti capitali per scopi prettamente personali. L’Afghanistan rimane indispensabile per lo sviluppo del commercio con il subcontinente indiano, un’area a cui il Turkmenistan guarda con un solo, grande obiettivo in mente: la commercializzazione delle proprie riserve di gas naturale.

Tapi: un gasdotto virtuale

Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India (TAPI) pipeline project proposed map [9].

L’Afghanistan come hub energetico emergente nella regione (2 ottobre 2021).

Il gasdotto Tapi [Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India] è, nella fattispecie, il progetto che dovrebbe concretizzare le ambizioni turkmene di esportare ingenti quantità di gas naturale nei mercati del subcontinente. Sono quasi 30 anni che si parla, spesso a sproposito, di Tapi: sponsorizzato inizialmente dagli Stati Uniti e, in un secondo momento, da importanti istituzioni finanziarie tra cui l’Asian Development Bank, questo gasdotto è finora rimasto un castello in aria e, a mio modo di vedere, resterà tale nonostante il ritorno dei Taliban al potere. L’interesse per il progetto in questione è sicuramente elevatissimo ma la comunità internazionale continua a guardare alle dinamiche progettuali da una prospettiva essenzialmente distorta. Negli ultimi decenni, i lavori di costruzione sono rimasti bloccati allo stadio iniziale, non per la profonda instabilità afgana, come molti hanno frettolosamente concluso e ripetutamente suggerito, bensì a causa dell’ostinazione turkmena a finanziare internamente il progetto senza ricorrere a fondi erogati da compagnie petrolifere estere. La motivazione per tale ostinazione è legata alla logica di controllo totale su cui il regime di Ashgabat ha finora modellato le proprie politiche energetiche: mentre importanti sinergie con compagnie del Golfo hanno contribuito a sviluppare il settore turkmeno del Caspio, l’accesso di investimenti stranieri alle riserve onshore è a tutt’oggi limitato a una sola joint-venture conclusa con Cnpc verso la fine degli anni Duemila. È impensabile che un progetto i cui profitti sono avvolti da un alone di mistero possa arrivare ad attrarre gli importanti capitali internazionali di cui necessita: anche se i prezzi del gas naturale sono destinati a rimanere alti nel medio periodo, e nonostante l’interesse dei Taliban a garantire la sicurezza del settore afgano del gasdotto, Tapi rimane un progetto di difficilissima realizzazione.

Infrastrutture: mobilità e reti energetiche

Su quali orizzonti potrà dunque espandersi la cooperazione commerciale tra il Turkmenistan e l’Emirato Islamico d’Afghanistan? Considerando che l’economia turkmena è formata da un vastissimo settore energetico e poc’altro, le opzioni a disposizione del regime di Ashgabat sembrano essere piuttosto limitate. Garantendo una certa stabilità interna, l’avvento dei Taliban potrebbe offrire un contesto favorevole alla realizzazione di progetti a partecipazione turkmena la cui vocazione rimane incentrata sulla connettività (autostrade e ferrovie), facilitando anche l’integrazione della rete elettrificata tramite cui il Turkmenistan intende esportare annualmente una media di 500-kilovolt verso l’Afghanistan. Al contempo i rapporti di buon vicinato offrono un ottimo contesto per il contrabbando e il narcotraffico, rendendo il confine turkmeno/afgano terreno fertile per la conduzione di attività essenzialmente illecite.

Utilitarismo diversamente islamico

È dunque un matrimonio di convenienza autoritaria quello che si andrà realizzando tra il regime di Ashgabat e quello di Kabul. I religiosissimi Taliban sono pronti a chiudere un occhio davanti alle politiche antireligiose portate avanti da Berdimuhamedov, che vede l’Islam come una fonte di legittimità interna e continua in tal senso a reprimere fonti indipendenti di attivismo islamico. Il regime turkmeno, dal canto suo, è pronto a mettere da parte ogni riserbo sul ruolo potenzialmente dirompente che l’avvento dei Taliban potrà recitare sulla scena regionale al fine di garantirsi sbocchi commerciali verso nuovi mercati. Quest’alleanza tra improbabili partner conferma una volta per tutte che l’integrazione tra Asia Centrale e Asia Meridionale si costituirà non su infrastrutture e connettività, come auspicato dalle potenze occidentali, ma rimarrà fermamente incentrata sugli interessi prettamente autoritari espressi dai regimi locali.

Monumento nel Parco dell’Indipendenza ad Ashgabat.