Che cos’è la trappola Daesh?
Intervista di Lorenzo Avellino a Pierre-Jean Luizard
La trappola Daesh si riferisce alla volontà deliberata dello Stato islamico di provocare la reazione del maggior numero di attori possibili, stati arabi in testa, come la Turchia, l’Iran ma andando anche oltre – ossia all’Europa – in una dichiarazione di guerra universale a tutti quanti. Ciò aiuta lo Stato islamico a presentarsi agli occhi delle popolazioni che controlla come uno dei legittimi eredi delle primavere arabe e delle società civili che si sono sollevate contro i regimi repressivi e che hanno avuto come solo risposta, in Iraq, in Siria o altrove, la repressione e l’autoritarismo.
Si può dire che la trappola Daech ha funzionato nella misura in cui gli stati arabi (in particolare lo stato iracheno e siriano) e i paesi occidentali hanno reagito alle campagne di terrorismo sui propri territori lanciandosi in una guerra attraverso una coalizione internazionale di cui si cerca ancora di capire, un anno dopo la sua formazione, gli obiettivi politici (a parte quello di eliminare ciò che viene presentato come un semplice movimento terroristico). Tutto ciò corrisponde esattamente a quanto ricercato dallo Stato islamico ossia far dichiarare ai paesi occidentali una guerra contro di sé prima di avere definito gli obiettivi di guerra e suscitare un’alleanza tra gli stati occidentali e gli stati in loco. Lo Stato islamico è in effetti assolutamente cosciente della situazione di avanzata decomposizione delle istituzioni statali mediorientali e del fatto che tale decomposizione ha un carattere irreversibile che rende la campagna militare magari produttiva sul piano militare ma totalmente controproducente dal punto di vista politico. Tutti gli stati occidentali appaiono così come alleati di istituzioni moribonde.
Ciò che lei fa nel libro è storicizzare il fenomeno Stato islamico. Parlava prima di frazionamento e decomposizione degli stati mediorientali. Qual è la traiettoria di questi stati e come lo Stato islamico è riuscito a inserirvisi, con un notevole intuito politico?
Lo Stato islamico rivendica uno Stato multinazionale che cancella le frontiere, in particolare le frontiere ereditate del periodo dei mandati e si appoggia sul fallimento di un certo numero di stati, in primis lo stato iracheno poi quello siriano. Lo Stato islamico non perde occasione di mostrare che si relaziona con la storia moderna della regione e con le circostanze che hanno portato alla formazione degli stati arabi che, non bisogna scordarlo, sono tutti – eccezion fatta per l’Egitto – delle creazioni coloniali che sono state imposte con la forza militare dalle grandi potenze dell’epoca, la Gran Bretagna e la Francia. Questa operazione è stata fatta a partire dalla concezione che era allora dominante in Europa, ossia quella che la nazione è il fondamento di ogni tipo di sovranità. Le cose erano però ben diverse in Medio oriente, nella misura in cui solamente nel Levante (Libano, Palestina e Siria) cominciava a farsi strada l’idea di cosa potesse essere una nazione araba ma in Iraq e in gran parte del Medio oriente l’idea stessa di nazione era totalmente estranea. Ci si sentiva arabi, profondamente arabi, ma questo sentimento si riferiva più a ciò che chiamerei “arabità” – uruba – e non all'”arabismo” ossia a un nazionalismo etnico esclusivo. La miglior prova è il fatto che i dirigenti politici e religiosi delle tribù arabe in Iraq erano, in maggioranza, iraniani di nascita e di nazionalità e ciò non poneva alcun problema. C’erano certo delle identità molto forti in Medio oriente, secondo una gerarchia che andava dall’identità locale a quella tribale, confessionale e culturale e che differenziavano in particolare gli arabi dai curdi ma queste identità non si sono assolutamente espresse attraverso i nuovi stati nazionali. I nuovi stati nazionali fondati dalla Francia e la Gran Bretagna sono stati osteggiati dalle maggioranze. In Iraq gli sciiti maggioritari si sono rivoltati contro i mandati e l’occupazione britannica. Ciò è successo anche in Siria, dove l’esercito di Faysal – animatore della Rivolta araba contro l’Impero ottomano sobillata dagli Alleati – ha affrontato le truppe del generale francese Gouraud in nome di un regno arabo unito, di una Grande Siria che doveva includere il Libano, la Palestina e anche una parte del nord dell’Iraq. C’è stato quindi un gioco di prestigio da parte delle potenze mandatarie che hanno provato a far credere di aver importato una cittadinanza irachena, siriana e libanese quando invece si sono appoggiate su delle minoranze: arabe sunnite in Iraq, mentre la Francia ha diviso la Siria in una serie di stati confessionali. Tutto ciò è stato fatto in modo che le maggioranze fossero escluse del potere a beneficio delle minoranze. La miglior illustrazione di questo processo è la fondazione del Grande Libano, quando la Siria è stata privata di province a maggioranza sciita e sunnita al sud e al nord del Libano, in particolare della grande città di Tripoli, per poter creare uno stato che si voleva presentare come il solo stato a maggioranza cristiana del Medio oriente. Bisogna ricordarsi che, allora, i protagonisti di questa politica confessionale in Francia erano élite repubblicane e laiche in lotta contro la chiesa cattolica. Ma ciò che valeva in Francia non valeva in Libano. In particolare le politiche francesi si sono appoggiate molto sulle congregazioni cattoliche, che erano state espulse in Francia nel 1901 e che si sono ritrovate in esilio a Beirut e nella montagna libanese messe quindi al servizio del progetto confessionale. Progetto che sappiamo essere stato un fallimento visto che ha avuto come risultato il confessionalismo che è oggi rifiutato dalla maggior parte della popolazione che lo vede come responsabile delle guerre civili.
Nella conclusione del libro lei dice che le difficoltà ad affrontare lo Stato islamico derivano da un’incapacità dell’Occidente di assumersi il suo passato coloniale e punta il dito contro questa sorta di “spaccatura” tra i valori proclamati a parole in quell’epoca e il fatto che siano stati una copertura per una dominazione imperiale. Ecco quindi che la storia ritorna attraverso lo Stato islamico…
L’Occidente non si assume il suo passato coloniale. Ma il punto è che non può assumerselo! È anche questa la trappola che ci tende lo Stato islamico, lo si vede benissimo attraverso la sua rivista in inglese “Dabiq” che illustra ampiamente le contraddizioni delle politiche occidentali e il fatto che i nostri universalismi basati sui Lumi sono serviti come legittimazione alle conquiste coloniali. La cosa peggiore è che ciò è stato spesso fatto in completa buona fede. Quando leggiamo i discorsi di Jules Ferry – il padre della scuola laica francese – per legittimare la colonizzazione della Tunisia, non vi troviamo altro che buone intenzioni, quelle di una missione civilizzatrice dell’Europa rispetto a popoli che sarebbero meno civili. E cosa dimostra il loro inferiore grado di civilizzazione? Il loro attaccamento alla religione. Per le élites francesi, l’attaccamento dei musulmani all’islam mostrava la necessità degli arabi di essere civilizzati e visto che non si arriva alla civiltà dall’oggi al domani bisognava essere guidati da potenze democratiche e secolarizzate come la Francia e la Gran Bretagna. I 14 punti del presidente americano Wilson in favore dell’autodeterminazione dei popoli sono serviti a legittimare l’imposizione dei mandati, ultima forma di colonizzazione anche se limitata nello spazio, perché c’erano delle frontiere, e nel tempo, perché avevano una data limite. Questi mandati hanno soprattutto istituito degli stati e dei sistemi politici che hanno condizionato la vita politica della regione per più di un secolo nella misura in cui le élite locali, una volta battute militarmente dalle truppe francesi e britanniche, poco a poco hanno abbandonato le loro utopie e non hanno quindi avuto altro obiettivo che quello di controllare gli stati a cui si erano inizialmente opposti. Alla fine degli anni Venti i nazionalisti arabi usano la retorica dell’unità araba unicamente per avere una certa popolarità ma appena sono al potere è evidente che ciò che interessa loro non è certo l’unità ma il controllo di stati che non riusciranno mai ad aprire uno spazio pubblico e a stabilire una cittadinanza condivisa per tutti. Dietro la retorica nazionalista araba si celavano infatti strategie comunitarie, familiari, regionali e confessionali come si può oggi vedere chiaramente in particolare in Iraq e in Siria dove non ci sono più partiti politici ma solo partiti comunitari, arabi e curdi, e gli stessi partiti arabi sono divisi tra loro in sciiti, sunniti e alauiti.
Nel libro lei indica che è come se lo Stato islamico facesse di tutto per inscenare uno “scontro di civiltà” in una sorta di gioco di specchi con il libro di Huntington. Come questo aspetto rientra nella trappola Daech?
Come si deduce da ciò che ho appena detto, la base sociale e politica dello Stato islamico è molto locale. È proprio ciò che fa la sua forza, il fatto che si sia impiantato in alcuni quartieri delle grandi città. Il problema dello Stato islamico però è diventato quello di trascendere un localismo molto forte e ciò è stato fatto attraverso l’universalismo. Questo universalismo, a livello di discorso, si può ottenere esclusivamente attraverso una messa in scena che gli consenta di legare la lotta sul posto contro uno stato predatore e assassino con la lotta su grande scala tra il “vero” islam e le potenze occidentali presentate come “crociate”. Questo ha permesso allo Stato islamico di occultare il carattere molto locale della sua base in Medio oriente e di sviluppare una propaganda che all’universalismo occidentale oppone un altro universalismo, che non comprende più solo gli interessi locali degli arabi sunniti d’Iraq o di Siria ma che è un appello a difendere il “vero” islam e la umma islamica contro i “crociati”. Un’illustrazione dell’efficacia di questa tattica è l’arrivo massiccio di combattenti stranieri originari di paesi musulmani ma anche europei che vengono a dare un viso a questa nuova coalizione islamica che ha intenzione di combattere l’altra coalizione di “miscredenti”, come veniamo chiamati.
Lei segnala anche questo altro paradosso dello Stato islamico: un progetto cosmopolita ma che deve la sua attrattiva a un ancoraggio territoriale. Per la prima volta un gruppo salafita si mette ad applicare la sharia, addirittura ad instaurare il califfato qui e ora. Pensa che sia questa la differenza principale tra lo Stato islamico e gli altri gruppi salafiti?
L’instaurazione del califfato è un’utopia comune a tutti i gruppi salafiti ed è un obiettivo comune di tutti i gruppi jihadisti, che siano alleati con lo Stato islamico o che siano legati ad al Qaeda. C’è semplicemente una differenza di timing. Al Qaeda rimprovera allo Stato islamico di aver bruciato le tappe e di aver voluto territorializzare la fondazione del califfato troppo presto, prima di aver avuto le basi sufficienti per la sua sovranità. Lo Stato islamico, al contrario, ha una visione che afferma che il fatto di possedere un territorio al di là delle frontiere – siamo in un jihad globale – e delle istituzioni è il miglior modo per riunire tutti quelli che vorrebbero unirsi al jihad mentre invece, nella visione dello Stato islamico, al Qaeda resterà sempre condannata ad essere prigioniera di questioni locali. La fondazione di uno Stato e la sua proclamazione, nel discorso dello Stato islamico, gli permette di trascendere i limiti della propria base locale.
Se, al momento dell’uscita della prima edizione francese del libro, il risultato della scommessa dello Stato islamico risultava incerta ora è sempre più definita visto che la stessa struttura statale del califfato è sempre più in difficoltà. Oltre a storicizzare il fenomeno Daech, lei mette anche in luce le cause sociali che hanno portato alla nascita dello Stato islamico. Cause sociali che sono ben lungi dall’essere risolte. Che ne sarà del califfato dopo il califfato?
I paesi occidentali e più in generale della coalizione anti-Daesh fanno finta che lo Stato islamico sia il responsabile del caos in Medio Oriente quando invece il caos precede lo Stato islamico anzi è proprio quello che ha permesso a Daesh di diventare ciò che è. Quindi una sconfitta militare di Daesh senza soluzioni politiche affidabili non risolverebbe nulla e, per esempio, se Daesh perde terreno sul campo, se il califfato diventa sempre più virtuale e meno territoriale, vedremo molto rapidamente le altre questioni – al momento occultate dalla preminenza dello Stato islamico – tornare alla ribalta. Tra queste questioni c’è ovviamente quella curda, che è molto complessa dal momento che si presenta in maniera parecchio diversa in Turchia, in Siria e in Iraq inglobando però oggi tutta la regione, ci sono poi le relazioni tra i curdi e i sunniti, tra i curdi e gli sciiti, tra i sunniti e gli sciiti. La soluzione a volte presa in considerazione di un Iraq federale “a tre”, a mio avviso, non è fattibile perché oggi assistiamo a un processo da cui non c’è ritorno, bisognerebbe che ci fossero degli interlocutori ma gli interlocutori arabi sunniti che hanno fatto il gioco del governo di Bagdad non hanno nessun futuro, prendiamo Atheel al-Nujaifi, che è oggi sostenuto da curdi e vicino alla Turchia. È stato l’ex-governatore di Mosul prima dell’arrivo dello Stato islamico ed è probabilmente una delle persone più odiate di Mosul, che si ricorda bene le condizioni che erano loro imposte prima dell’arrivo di Daesh. Non ci sono quindi, nel quadro delle istituzioni attuali, riforme possibili che permettano ad ognuno di trovare il proprio posto. In caso di sconfitta militare lo Stato Islamico sceglierà l’opzione della guerriglia invece che della difesa di un territorio. Si assisterà a una diffusione, mentre la territorializzazione era, nonostante tutto, una forma di contenimento dello Stato islamico. Rischieremo invece di avere uno Stato islamico che si diffonde fino a Bagdad come è stato già il caso negli anni Novanta. Ricordo che possiamo far risalire l’origine dello Stato islamico, militarmente, alla regione di Helebce, in Kurdistan, lungo la frontiera iraniana. È stata la volontà delle truppe dell’Unione patriottica del Kurdistan di Ǧahlāl Tāhlabānī di espellerli da questa regione che ha permesso la diffusione dei combattenti jihadisti nella zona araba arrivando quindi alla formazione di Daesh negli anni Duemila. Rischiamo quindi di avere lo stesso fenomeno in Iraq mentre in Siria è probabile che la perdita del progetto iniziale dello Stato islamico avrà come effetto l’unificazione dei ranghi jihadisti e in particolare di quelli di al-Qaeda con quelli dello Stato islamico.
Parigi, 30 agosto 2016
Cfr. La trappola Daesh. Lo Stato Islamico o la Storia che ritorna, di Pierre-Jean Luizard, con una prefazione di Alberto Negri, introduzione di Franco Cardini, Torino, Rosenberg & Sellier, 2016, disponibile in libreria e sulle principali piattaforme online.