Ora gli 11 del Sud globale rappresentano il 36 % del pil e il 47 % della popolazione mondiale
Un’occasione unica per individuare obiettivi comuni per un gruppo molto eterogeneo da cui può emergere un sistema mondiale diverso, alternativo al neoliberismo americano imperante da 40 anni, accantonando rivalità storiche (Xi si complimenta con Modi per il successo spaziale, proponendo collaborazioni! – accantonando gli screzi himalayani). A seconda di quali spinte prevarranno tra i 5 Brics (+6, tra cui acerrimi nemici come Iran e Sauditi, che avevano già preparato il terreno con abboccamenti preliminari) le istanze potranno essere più populiste, monetariste o repressive, oligarchiche… certo che i nuovi ingressi confermano che il mondo là fuori non prevede antitotalitarismo, nonostante la radice anticoloniale che pervade gli accoliti dei Brics+6. Infatti l’aspetto che spiazza un analista occidentale è l’accantonamento di impostazioni ideologiche: improntato al pragmatismo, il summit di Johannesburg ottiene i risultati prefissi… ma da chi?
«Come Brics, siamo pronti a esplorare le opportunità per migliorare la stabilità, l’affidabilità e l’equità dell’architettura finanziaria globale»
«una transizione giusta, accessibile e sostenibile verso un’economia a basse emissioni di anidride carbonica»
«soluzioni africane ai problemi africani»
«un partenariato paritario tra paesi che hanno punti di vista diversi ma una visione condivisa per un mondo migliore»
Dedollarizzazione in fondo è l’auspicio che vede unanimi i 5 Grossi di Johannesburg per superare l’ottuagenario Bretton Woods, per il resto mossi da interessi diversi… ma non divergenti.
Il petrodollaro è nel mirino al punto che tra i 6 nuovi membri sono stati pescati nel mazzo Emirati (MbZ) e Sauditi (MbS) – entrambi perni nel sistema del dollaro sostenuto dal petrolio, per cui se dovessero inverosimilmente abbandonarlo, scardinerebbero l’economia mondiale –, senza contare che la presenza dell’Iran incide pesantemente sul controllo delle risorse petrolifere rappresentate nel gruppo direttamente dai più importanti paesi dell’Opec: una dimostrazione in più che i Brics hanno inquadrato come obiettivo principale da destabilizzare il sistema fondato sull’intreccio dello strapotere del dollaro e il controllo delle risorse energetiche da parte delle multinazionali nordamericane. E lo perseguono, perché è giunto il momento di sostituire l’unilateralismo egemonico con un multilateralismo; che diventa possibile se si propone un’alternativa al Nord globale dei G7, imposto dall’epoca reaganiana: non una specchiata democrazia, bensì un sistema ideologico fondato sulle nefandezze neoliberiste dei Chicago Boys, esaltate nella macelleria sbirresca di Genova 2001 («Voi G7, noi 7 miliardi», ricordate?). Anche in questo caso non sono specchiate democrazie a contrapporsi all’ingiustizia del “sistema dollaro”, ma trattandosi di stati non possono esulare dall’autoritarismo repressivo insito nel concetto; l’unica possibilità di affrancamento dal colonialismo per le genti del Sud Globale è che si proponga una coalizione alternativa, costretta per diventare concorrenziale a offrire servizi per sottrarre clienti al G7. Infatti Xi ha proposto di stanziare il corrispondente di 100 miliardi di dollari alla New Development Bank e subito Biden in risposta ha chiesto ai suoi partner di costituire una borsa di 200 miliardi nel Fmi. Infatti il dominio della moneta americana non è mai disgiunto dai diktat di Fmi e Banca mondiale:
«stabilito attraverso istituzioni come Fondo monetario e Banca Mondiale, è sempre più visto come una reliquia di un’epoca passata, fuori dal contatto con le realtà di un mondo multipolare e la graduale erosione dell’egemonia del dollaro è innegabile»
Probabilmente non si arriverà in tempi brevi a scalzare il dollaro come riferimento, perché la maggior parte del debito globale è espressa in dollari e per ripagarla è necessario avere accesso ai dollari americani; e la potenza militare e le industrie belliche in maggioranza sono americane. Ma forse sottrargli parte dei ricavi derivanti dai traffici che media può essere alla portata del gruppo; e quindi potrebbe cominciare a indebolire il suo sistema. Difficilmente si conierà una moneta, anche solo di conto come fu l’Ecu, ma può darsi si assista a una prassi comune di scambi tra i paesi del club regolati secondo le loro valute.
Multilateralismo inclusivo
Brasile cerca un’incoronazione a paese guida dei latinos – e ottiene l’ingresso dell’altro gigante sudamericano (l’Argentina) – anche questo dipendente da Huawei per la rete telefonica –, essendoci presidente il sindacalista Lula e non il militarista Bolsonaro, ma tra pochi mesi potrebbe venire eletto il clone di Menem alla Casa Rosada; Lula lo fa immaginando di poter inventare (attraverso Dilma Rousseff neodirettrice di turno della banca dei Brics) un istituto finanziario che presti agli stati svuotati e predati dall’Occidente o dal suo cambiamento climatico, senza i ricatti e l’affossamento a cui ci ha abituato l’organismo iperneoliberista complice della Banca mondiale. E questo volano del nuovo blocco, che è innanzitutto economico, è un dato che consolida l’attenzione al superamento della egemonia del dollaro, tentando di risolvere la sudditanza del Sud globale (e in particolare il Cono Sur) all’approccio neoliberista: un altro fronte finanziario che si aggiunge al superamento del (petro)dollaro come riferimento mondiale per le transazioni tra i partner del club a 5 costituito nel 2010. L’alleanza con la Cina è resa naturale dal costante incremento dei rapporti sino-latini dal 2001 con l’ingresso di Pechino nel Wto, tanto che con l’ingresso dell’Argentina nel 2022 nel novero dei paesi aderenti al Bri ha raggiunto il totale di 21.
Russia non può contendere alla Cina la conduzione del gruppo – ma neanche all’India (in prospettiva il paese con maggiori atout di sviluppo futuri) –, trovandosi alle prese con contrasti interni, esterni e misteri sui condizionamenti di alcuni servizi sulla leadership; però svolge il lavoro sporco (quello militare), soprattutto in Africa – con o senza Wagner (sono tante le Pmc russe) – e quindi si allinea alle scelte, sottolineando quanto sia aggregante il contrasto alla pretesa egemonica occidentale e, proponendo l’unione attorno al tema della creazione di un polo alternativo all’unilateralismo, legittima se stessa e conferisce un ruolo agli alleati all’interno dell’intesa. Ma la sua debolezza è palese quando vengono tenuti fuori dal cerchio magico i paesi più apertamente alleati come Nicaragua, Cuba, o l’Algeria.
India ha intrapreso uno sviluppo legato al suo neutralismo, alla dimensione e alla demografia, alla collocazione negli snodi geografici. E si propone come probabile locomotiva sia demografica, sia per lo sviluppo, che va dotandosi di tecnologie all’avanguardia; non intende sganciarsi dall’Occidente, ma è attirata dalla possibilità di essere trainante e questo dà a Brasilia la possibilità di fare da tramite tra i vari mondi, di cui si propone come cerniera. In questo caso sarebbero le due “democrazie” più collegate con l’occidente nel gruppo iniziale a costituire un diverso nocciolo a fianco ai regimi totalitari eredi delle rivoluzioni marxiste dell’altro secolo.
Cina ed Etiopia con l’Egitto (divisi solo dal Sudan di al-Buhran, che 2 giorni dopo la fine del summit – che ha sancito l’ingresso di sauditi e egiziani tra i Brics – è andato a negoziare con MbS e al-Sisi) costituiscono parte essenziale della Belt road initiative assicurata nei suoi passaggi attraverso il choke point costituito dal Mar Rosso. Si può creare un bel sconquasso… e l’ingresso solo di quegli africani (non l’Algeria antineoliberista di cui si era parlato) dimostrano quello che si diceva dell’interesse cinese per il continente (l’Algeria poi è già un forte partner dell’economia cinese, che un mese fa ha avviato investimenti per 36 miliardi nel paese maghrebino). Geograficamente e strategicamente l’allargamento è stato realizzato su misura dei traffici cinesi, ma il cortile di casa del Sudest asiatico non è stato portato in dote (come nemmeno gli “stan”, satelliti centrasiatici dell’impero russo), che continuano a essere gestiti in modo unilaterale.
Sudafrica rappresenta gli interessi del continente australe, un’area che interessa meno di quella che si trova a nord della Rift Valley e che è terreno di scontro e controllo tra grandi potenze in questo snodo epocale. La posizione di Ramaphosa guarda sicuramente meno agli Usa, anche perché il sistema di governance attuale che s’incentra sul dollaro è stato creato nell’immediato dopoguerra, quando i paesi africani erano sottoposti al colonialismo occidentale e invece nei Brics+6 tre paesi sono forti baricentri del nord (Egitto), centro (Etiopia) e sud del continente, dove dopo la liberazione dall’apartheid già Mandela privilegiava il dialogo con i paesi “non capitalisti”. L’Etiopia è entrata nel club (condivide con il Sudafrica il tentativo di mantenere un’equidistanza tra le superpotenze), nonostante il suo Pil sia una frazione di quello dell’Egitto e i conflitti che la stanno scuotendo all’interno, mentre l’occidente africano non ha rappresentanti tra i Brics, probabilmente perché è un accordo innanzitutto economico e la presa francese si è attenuata come occupazione militare e istituzionale sulla Françafrique, ma non economica, tanto che il franco Cfa continua ad avere corso legale, nonostante i molti tentativi anche di aggancio al renminbi, sempre rintuzzati dall’Eliseo. Peraltro anche Ruto, presidente del Kenya, in una delle sue prime uscite aveva esortato a utilizzare il sistema di pagamenti panafricano (Papss) della Afreximbank, abbandonando il dollaro. E probabilmente proprio il suo eccessivo panafricanismo (come quello Nigeriano) hanno convinto Ramaphosa e gli altri Brics a lasciar cadere le loro candidature.
Brics populism
Quello che potrà fare la differenza è il fatto che i Brics spingono sull’ineguaglianza e ingiustizia del sistema occidentale: «È inaccettabile che la spesa militare globale in un anno superi i 2000 miliardi di dollari mentre la Fao dice che 735 milioni di persone soffrono la fame nel mondo. La ricerca della pace è un imperativo per lo sviluppo giusto e sostenibile», ha detto Lula, che appare come il leader che può mediare tra tutti all’interno e all’esterno dei Brics. Ma senza cadere nella trappola dei non allineati di Bandung, che si erano sbilanciati in senso “comunista” (perciò Cuba, Nicaragua rimangono a ’sto giro fuori dal novero degli aspiranti a far parte del club), questa rimane un’alternativa all’idea egemonica ma cercando di non far crescere una potenza unica alternativa agli Usa, perciò la scelta dei 6 nuovi partner tiene fuori quelle realtà più esplicitamente antiliberiste: la campagna quindi si mantiene all’interno di quella dottrina.
Break the Brics
Dunque non è un sovvertimento, piuttosto una rivendicazione dei principi che proprio il G7 ha sempre sbandierato: la libera concorrenza; i Brics purtroppo non sono bricconi anarchici, però propongono un’attenuazione della ferocia del Nord globale attraverso una concorrenza alla pari tra un Sud globalmente populista (a cui si ascrivono come potenze solidali), non mosso da umanitarismo, ma proponendosi come meno intrusivi – anzi! – sul piano dei diritti civili, però alternativi a un colonialismo conosciuto come rapace. Non è certo la rivoluzione che auspichiamo, però induce a un sorriso compiaciuto la sfida all’arroganza dell’Occidente, che supera le storiche divisioni per operare un cambio di governance… che non soddisferà le istanze dal basso e di diritti sociali, ma inscenerà l’ennesimo teatrino secolare di rivalità/avvicendamento di poteri “diversamente autocratici”.