Siamo già oltre?

Il libro di Alfredo Somoza, “Siamo già oltre? La globalizzazione tra fake e smart”è uno strumento gradevole e prezioso per conoscere e interpretare le dinamiche della globalizzazione in modo puntuale e documentato.
Smascherando le fake news, ma anche andando a indagare sui reali vantaggi della civiltà smart. Uno sguardo critico che vada oltre la retorica trionfalistica sul futuro dell’umanità. La globalizzazione è un fenomeno che ha cambiato la nostra vita con dinamiche nuove e riproposto in veste moderna altre molto antiche.
Il libro racconta gli scenari dell’economia mondiale, della lotta per la terra e l’ambiente, dei diritti ottenuti e negati, del gioco delle potenze. Senza ideologismi né compromessi. Quel mondo nel quale siamo già immersi, anche se ancora non ci è stato del tutto svelato.

Qui abbiamo costituito una sezione audio con podcast e video di approfondimento dedicati e testi di accompagnamento alla produzione del libro in uscita a fine autunno.
Il libro offrirà chiavi di lettura utili per interpretare il mondo che ci circonda, spesso a partire da notizie che non riescono a guadagnare i titoli dei giornali, talvolta per conflitto di interessi. Il progetto non comprende solo il libro, ma uno sguardo continuativo delle dinamiche globali e delle loro conseguenze. Una specie di osservatorio che l’autore cura da 20 anni con aggiornamenti settimanali radiofonici che si potranno continuare a seguire nel tempo. Molte cose che troverete in questo libro sarebbero censurate in diverse parti del mondo. Perché una delle vittime eccellenti della pandemia – e dalla globalizzazione – è stata la democrazia e di conseguenza la libertà di stampa.

100%

Avanzamento

Dal golpe alla Moneda al nuovo ordine mondiale

Un anno dopo il libro di Diego riprendiamo in altro modo, con Alfredo, la domanda relativa al luogo da cui si arriva e dove si continua ad andare: stavolta il libro che ci guida nell’eterno ritorno ciclico che tiene congelato il Sudamerica all’altalena tra vagiti di speranze di emancipazione e reazione populista che difende i privilegi imposti dalle dittature, che hanno (avuto) a modello il regime di Pinochet.

Alfredo è stato intervistato da Rete Capodistria il 17 novembre 2023 e il suo intervento si può sentire dal minuto 1:25:15

https://www.rtvslo.si/rtv365/arhiv/175001870?s=radio_ita

L’interesse per il Sudamerica in questo periodo è catalizzato in particolare dalle elezioni presidenziali argentine, che vedono al ballottaggio due contendenti pessimi, risultato di populismo e turbocapitalismo che hanno nuovamente innescato il solito ciclo perverso di emancipazione e speranza vs ferocia e liberalismo. L’amico Alberto Da Rin ha coinvolto Alfredo Somoza nella composizione della pagina che “Il Sole24Ore” dedica alle elezioni di domani:

Milei: le prime mosse scompostamente menemiste

Alfredo è stato intervistato da Roberto Da Rin subito dopo i primi provvedimenti annunciati da Javier “el Loco” Milei, sconcertanti come prevedibile.

Da ”Il Sole 24 Ore”di venerdì 22 dicembre 2023:

:

Ora gli 11 del Sud globale rappresentano il 36 % del pil e il 47 % della popolazione mondiale

Un’occasione unica per individuare obiettivi comuni per un gruppo molto eterogeneo da cui può emergere un sistema mondiale diverso, alternativo al neoliberismo americano imperante da 40 anni, accantonando rivalità storiche (Xi si complimenta con Modi per il successo spaziale, proponendo collaborazioni! – accantonando gli screzi himalayani). A seconda di quali spinte prevarranno tra i 5 Brics (+6, tra cui acerrimi nemici come Iran e Sauditi, che avevano già preparato il terreno con abboccamenti preliminari) le istanze potranno essere più populiste, monetariste o repressive, oligarchiche… certo che i nuovi ingressi confermano che il mondo là fuori non prevede antitotalitarismo, nonostante la radice anticoloniale che pervade gli accoliti dei Brics+6. Infatti l’aspetto che spiazza un analista occidentale è l’accantonamento di impostazioni ideologiche: improntato al pragmatismo, il summit di Johannesburg ottiene i risultati prefissi… ma da chi?

«Come Brics, siamo pronti a esplorare le opportunità per migliorare la stabilità, l’affidabilità e l’equità dell’architettura finanziaria globale»
«una transizione giusta, accessibile e sostenibile verso un’economia a basse emissioni di anidride carbonica»
«soluzioni africane ai problemi africani»
«un partenariato paritario tra paesi che hanno punti di vista diversi ma una visione condivisa per un mondo migliore»

Dedollarizzazione in fondo è l’auspicio che vede unanimi i 5 Grossi di Johannesburg per superare l’ottuagenario Bretton Woods, per il resto mossi da interessi diversi… ma non divergenti.

Il petrodollaro è nel mirino al punto che tra i 6 nuovi membri sono stati pescati nel mazzo Emirati (MbZ) e Sauditi (MbS) – entrambi perni nel sistema del dollaro sostenuto dal petrolio, per cui se dovessero inverosimilmente abbandonarlo, scardinerebbero l’economia mondiale –, senza contare che la presenza dell’Iran incide pesantemente sul controllo delle risorse petrolifere rappresentate nel gruppo direttamente dai più importanti paesi dell’Opec: una dimostrazione in più che i Brics hanno inquadrato come obiettivo principale da destabilizzare il sistema fondato sull’intreccio dello strapotere del dollaro e il controllo delle risorse energetiche da parte delle multinazionali nordamericane. E lo perseguono, perché è giunto il momento di sostituire l’unilateralismo egemonico con un multilateralismo; che diventa possibile se si propone un’alternativa al Nord globale dei G7, imposto dall’epoca reaganiana: non una specchiata democrazia, bensì un sistema ideologico fondato sulle nefandezze neoliberiste dei Chicago Boys, esaltate nella macelleria sbirresca di Genova 2001 («Voi G7, noi 7 miliardi», ricordate?). Anche in questo caso non sono specchiate democrazie a contrapporsi all’ingiustizia del “sistema dollaro”, ma trattandosi di stati non possono esulare dall’autoritarismo repressivo insito nel concetto; l’unica possibilità di affrancamento dal colonialismo per le genti del Sud Globale è che si proponga una coalizione alternativa, costretta per diventare concorrenziale a offrire servizi per sottrarre clienti al G7. Infatti Xi ha proposto di stanziare il corrispondente di 100 miliardi di dollari alla New Development Bank e subito Biden in risposta ha chiesto ai suoi partner di costituire una borsa di 200 miliardi nel Fmi. Infatti il dominio della moneta americana non è mai disgiunto dai diktat di Fmi e Banca mondiale:

«stabilito attraverso istituzioni come Fondo monetario e Banca Mondiale, è sempre più visto come una reliquia di un’epoca passata, fuori dal contatto con le realtà di un mondo multipolare e la graduale erosione dell’egemonia del dollaro è innegabile»

Probabilmente non si arriverà in tempi brevi a scalzare il dollaro come riferimento, perché la maggior parte del debito globale è espressa in dollari e per ripagarla è necessario avere accesso ai dollari americani; e la potenza militare e le industrie belliche in maggioranza sono americane. Ma forse sottrargli parte dei ricavi derivanti dai traffici che media può essere alla portata del gruppo; e quindi potrebbe cominciare a indebolire il suo sistema. Difficilmente si conierà una moneta, anche solo di conto come fu l’Ecu, ma può darsi si assista a una prassi comune di scambi tra i paesi del club regolati secondo le loro valute.

Multilateralismo inclusivo

Brasile cerca un’incoronazione a paese guida dei latinos – e ottiene l’ingresso dell’altro gigante sudamericano (l’Argentina) – anche questo dipendente da Huawei per la rete telefonica –, essendoci presidente il sindacalista Lula e non il militarista Bolsonaro, ma tra pochi mesi potrebbe venire eletto il clone di Menem alla Casa Rosada; Lula lo fa immaginando di poter inventare (attraverso Dilma Rousseff neodirettrice di turno della banca dei Brics) un istituto finanziario che presti agli stati svuotati e predati dall’Occidente o dal suo cambiamento climatico, senza i ricatti e l’affossamento a cui ci ha abituato l’organismo iperneoliberista complice della Banca mondiale. E questo volano del nuovo blocco, che è innanzitutto economico, è un dato che consolida l’attenzione al superamento della egemonia del dollaro, tentando di risolvere la sudditanza del Sud globale (e in particolare il Cono Sur) all’approccio neoliberista: un altro fronte finanziario che si aggiunge al superamento del (petro)dollaro come riferimento mondiale per le transazioni tra i partner del club a 5 costituito nel 2010. L’alleanza con la Cina è resa naturale dal costante incremento dei rapporti sino-latini dal 2001 con l’ingresso di Pechino nel Wto, tanto che con l’ingresso dell’Argentina nel 2022 nel novero dei paesi aderenti al Bri ha raggiunto il totale di 21.

Russia non può contendere alla Cina la conduzione del gruppo – ma neanche all’India (in prospettiva il paese con maggiori atout di sviluppo futuri) –, trovandosi alle prese con contrasti interni, esterni e misteri sui condizionamenti di alcuni servizi sulla leadership; però svolge il lavoro sporco (quello militare), soprattutto in Africa – con o senza Wagner (sono tante le Pmc russe) – e quindi si allinea alle scelte, sottolineando quanto sia aggregante il contrasto alla pretesa egemonica occidentale e, proponendo l’unione attorno al tema della creazione di un polo alternativo all’unilateralismo, legittima se stessa e conferisce un ruolo agli alleati all’interno dell’intesa. Ma la sua debolezza è palese quando vengono tenuti fuori dal cerchio magico i paesi più apertamente alleati come Nicaragua, Cuba, o l’Algeria.

India ha intrapreso uno sviluppo legato al suo neutralismo, alla dimensione e alla demografia, alla collocazione negli snodi geografici. E si propone come probabile locomotiva sia demografica, sia per lo sviluppo, che va dotandosi di tecnologie all’avanguardia; non intende sganciarsi dall’Occidente, ma è attirata dalla possibilità di essere trainante e questo dà a Brasilia la possibilità di fare da tramite tra i vari mondi, di cui si propone come cerniera. In questo caso sarebbero le due “democrazie” più collegate con l’occidente nel gruppo iniziale a costituire un diverso nocciolo a fianco ai regimi totalitari eredi delle rivoluzioni marxiste dell’altro secolo.

Cina ed Etiopia con l’Egitto (divisi solo dal Sudan di al-Buhran, che 2 giorni dopo la fine del summit – che ha sancito l’ingresso di sauditi e egiziani tra i Brics – è andato a negoziare con MbS e al-Sisi) costituiscono parte essenziale della Belt road initiative assicurata nei suoi passaggi attraverso il choke point costituito dal Mar Rosso. Si può creare un bel sconquasso… e l’ingresso solo di quegli africani (non l’Algeria antineoliberista di cui si era parlato) dimostrano quello che si diceva dell’interesse cinese per il continente (l’Algeria poi è già un forte partner dell’economia cinese, che un mese fa ha avviato investimenti per 36 miliardi nel paese maghrebino). Geograficamente e strategicamente l’allargamento è stato realizzato su misura dei traffici cinesi, ma il cortile di casa del Sudest asiatico non è stato portato in dote (come nemmeno gli “stan”, satelliti centrasiatici dell’impero russo), che continuano a essere gestiti in modo unilaterale.

Sudafrica rappresenta gli interessi del continente australe, un’area che interessa meno di quella che si trova a nord della Rift Valley e che è terreno di scontro e controllo tra grandi potenze in questo snodo epocale. La posizione di Ramaphosa guarda sicuramente meno agli Usa, anche perché il sistema di governance attuale che s’incentra sul dollaro è stato creato nell’immediato dopoguerra, quando i paesi africani erano sottoposti al colonialismo occidentale e invece nei Brics+6 tre paesi sono forti baricentri del nord (Egitto), centro (Etiopia) e sud del continente, dove dopo la liberazione dall’apartheid già Mandela privilegiava il dialogo con i paesi “non capitalisti”. L’Etiopia è entrata nel club (condivide con il Sudafrica il tentativo di mantenere un’equidistanza tra le superpotenze), nonostante il suo Pil sia una frazione di quello dell’Egitto e i conflitti che la stanno scuotendo all’interno, mentre l’occidente africano non ha rappresentanti tra i Brics, probabilmente perché è un accordo innanzitutto economico e la presa francese si è attenuata come occupazione militare e istituzionale sulla Françafrique, ma non economica, tanto che il franco Cfa continua ad avere corso legale, nonostante i molti tentativi anche di aggancio al renminbi, sempre rintuzzati dall’Eliseo. Peraltro anche Ruto, presidente del Kenya, in una delle sue prime uscite aveva esortato a utilizzare il sistema di pagamenti panafricano (Papss) della Afreximbank, abbandonando il dollaro. E probabilmente proprio il suo eccessivo panafricanismo (come quello Nigeriano) hanno convinto Ramaphosa e gli altri Brics a lasciar cadere le loro candidature.

Brics populism

Quello che potrà fare la differenza è il fatto che i Brics spingono sull’ineguaglianza e ingiustizia del sistema occidentale: «È inaccettabile che la spesa militare globale in un anno superi i 2000 miliardi di dollari mentre la Fao dice che 735 milioni di persone soffrono la fame nel mondo. La ricerca della pace è un imperativo per lo sviluppo giusto e sostenibile», ha detto Lula, che appare come il leader che può mediare tra tutti all’interno e all’esterno dei Brics. Ma senza cadere nella trappola dei non allineati di Bandung, che si erano sbilanciati in senso “comunista” (perciò Cuba, Nicaragua rimangono a ’sto giro fuori dal novero degli aspiranti a far parte del club), questa rimane un’alternativa all’idea egemonica ma cercando di non far crescere una potenza unica alternativa agli Usa, perciò la scelta dei 6 nuovi partner tiene fuori quelle realtà più esplicitamente antiliberiste: la campagna quindi si mantiene all’interno di quella dottrina.

Break the Brics

Dunque non è un sovvertimento, piuttosto una rivendicazione dei principi che proprio il G7 ha sempre sbandierato: la libera concorrenza; i Brics purtroppo non sono bricconi anarchici, però propongono un’attenuazione della ferocia del Nord globale attraverso una concorrenza alla pari tra un Sud globalmente populista (a cui si ascrivono come potenze solidali), non mosso da umanitarismo, ma proponendosi come meno intrusivi – anzi! – sul piano dei diritti civili, però alternativi a un colonialismo conosciuto come rapace. Non è certo la rivoluzione che auspichiamo, però induce a un sorriso compiaciuto la sfida all’arroganza dell’Occidente, che supera le storiche divisioni per operare un cambio di governance… che non soddisferà le istanze dal basso e di diritti sociali, ma inscenerà l’ennesimo teatrino secolare di rivalità/avvicendamento di poteri “diversamente autocratici”.

Sulla scorta della proverbiale definizione di “granaio del mondo” l’Occidente sta attribuendo integralmente alla guerra in Ucraina la responsabilità della fame che si sta annunciando per carenza di grano (ma non si parla del fatto che la Russia è il maggior esportatore di fertilizzanti), senza considerare che il prezzo dei cereali era già in aumento prima del 24 febbraio e che sono periodiche le rivolte del pane (anche dopo il 2011 dei gelsomini).
La guerra è stata solo il la ciliegina su una torta immangiabile per i 20 milioni di potenziali morti per fame che la contingenza può creare e i due autocrati di Astana si stanno mettendo d’accordo anche in questo caso per spartirsi guadagni e prestigio nei paesi africani sbloccando la situazione del Mar Nero con il blocco delle tonnellate di grano ammassato nei silos ucraini che rappresentano comunque soltanto l’8 per cento del prodotto annuale mondiale. Un’arma ibrida come le bombe di migranti gettate ai confini, che si produrranno anche attraverso questa nuova fame indotta dalla guerra sarmatica. Ma non solo: Alfredo Somoza ha colto i vari collegamenti che portano alle scelte strategiche dei singoli stati vincolati in qualche modo ai prodotti russi (per esempio il Brasile) e il ritorno d’immagine per i popoli affamati in Africa che si troveranno a ringraziare i garanti russo-turchi delle forniture alimentari che sono i responsabili dell’improvvisa carenza; senza contare la stagflazione ormai globale e l’indebitamento generalizzato.

Alfredo – nell’intervista a Radio Blackout del 9 giugno 2022 – ha fatto dunque il punto attribuendo a ogni fattore la giusta responsabilità nella emergenza della carestia, guardando al sistema di produzione e distribuzione del cibo, il saccheggio e la colonizzazione dei territori, la pianificazione selvaggia e monocolturale: speculazione, latifondo senza collegamento con il territorio, landgrabbing, sistemi di produzione malati, diserbanti e ogm, concentrazioni di colture; la superficie coltivabile è diminuita con la globalizzazione, le colture per il foraggio o per i biocombustibili sono sempre più estese, il cambiamento climatico, la siccità avevano già innescato la speculazione sulle commodities dei futures che è strabordata con la scusa del conflitto raddoppiando il prezzo del grano; l’occupazione di terre africane da cui saccheggiare i prodotti da importare in madre Cina, o da esportare in paesi ricchi, sottraendo cibo potenziale agli autoctoni.

Nel suo libro “Siamo già Oltre?” Alfredo descriveva così il sistema su cui è intervenuto il conflitto in Ucraina, scompigliandolo e paradossalmente rendendo ancora più il cibo un’arma ricattatoria di consumi – anche indotti dal colonialismo – da brandire contro i poveri: «Nei paesi nei quali si è spinto l’acceleratore del moderno agribusiness, dove spesso si produce non solo di più ma anche male, la produzione non serve per soddisfare il bisogno dei consumatori ma per incassare sovvenzioni, fare guerre commerciali, imporre mode alimentari. Difficilmente in Africa, Asia meridionale o America centrale si produce più di quanto si consuma. Anzi, lì spesso si produce molto di meno, dato che una parte crescente delle loro terre agricole viene utilizzata per produrre alimenti e biocombustibili destinati al mondo ricco: che poi non riesce nemmeno a consumarli tutti. Distogliendo l’attenzione dalle cause per concentrarsi solo sugli effetti si arriva a soluzioni “umanitarie”, di buon senso, che però non risolveranno mai il problema a monte. Non porteranno, cioè, a una politica mondiale che stabilisca le priorità nella produzione di cibo, che imponga regole precise sul suo costo e sui suoi impatti. Non è sostenibile, per esempio, il mercato delle primizie che viaggiano in aereo da un angolo del mondo all’altro per garantire pere, ciliegie o mirtilli dodici mesi all’anno per il desco dei consumatori ricchi. Non è possibile che, quando un paese dà in concessione terreni agricoli a soggetti esteri, la Fao non intervenga a certificare che la sicurezza alimentare di quel paese sia comunque garantita, e che le concessioni non la mettano a rischio. Non è sensato che il consumatore, quando compra prodotti provenienti da migliaia di chilometri di distanza, non sia chiamato a pagare il costo ambientale di quella merce. Sono tanti i nodi irrisolti e i problemi in via di peggioramento, quando si pensa al tema del cibo… Ma ci raccontano che basta il riciclo degli sprechi per porvi rimedio. Una versione di comodo per le multinazionali del cibo e dell’agricoltura, proprio quelle che occuparono gli spazi più in vista all’Expo milanese. Imprese che si accaparrano licenze sulle sementi, sono grandi gestori dell’acqua, impongono modelli di consumo basati sulla carne rossa, la più dannosa per la salute e la più “costosa” per l’ambiente, anche se italiana. Questi gruppi oggi tengono in pugno l’agenda del cibo e buona parte della politica accetta la loro narrazione. È questo il segreto (di Pulcinella) da non far sapere al contadino».

Ringraziamo “Amistades” per l’organizzazione dell’incontro tra Alfredo Somoza e Diego Battistessa, uno argentino ormai italo-argentino e l’altro di cittadinanza italiana ormai cittadino sudamericano, attorno al libro di Alfredo che congloba una visione del mondo comunque in qualche modo influenzato dalla consapevolezza di essere in qualche modo figli del Latinamerica.

È comparsa una recensione di Siamo già oltre? su “Le Monde Diplomatique” firmata da Daniele Barbieri (@bottegabarbieri). Ne siamo particolarmente contenti perché si comprende come l’estensore abbia colto le sfumature, gli intenti, l’impianto, la struttura; ma anche la radicalità e lucidità dell’analisi di Alfredo e la profondità derivante dai tanti decenni di impegno altermondista, che nell’articolo emergono con alcuni tratti (il “terricidio green“), i riferimenti forti (Frantz Fanon!) e l’impellente bisogno di contrapporsi a un ordine liberticida e censore. Esattamente lo spirito che pervade il lavoro di Alfredo.

Daniele Barbieri parla di Siamo già oltre? di Alfredo Somoza

Il 15 febbraio 2022 Alfredo Somoza è intervenuto nella trasmissione Prisma di Radio Popolare (@radiopopmilano) e prendendo spunto dalla vicenda della proibizione sanitaria dell’avocado negli Usa ha toccato i molti temi che si trovano in Siamo già oltre? perché è uno degli innumerevoli ingressi alle storture (fake e smart) della globalizzazione

Radio Popolare e la sua trasmissione dedicata a questioni internazionali, Esteri, hanno voluto fare un omaggio al loro redattore Alfredo Somoza, leggendo in diretta il 4 febbraio 2022 la prefazione al suo libro Siamo già oltre? scritta da Chawki Senouci. Ecco la lettura, resa ancora più piacevole dalla voce di Martina Stefanoni:

Radiolombardia ha dedicato un’ora ad Alfredo Somoza prendendo a spunto Siamo già oltre?. Ne è scaturita una intelligente esplorazione a tutto campo di argomenti di stretta attualità, tutti riconducibili a spunti già presenti nel libro, estratti con sagacia da Nicoletta Prandi nella sua trasmissione “Pane al pane”. Ecco la diretta facebook del 28 gennaio 2022:

L’intervista di Nicoletta Prandi ad Alfredo Somoza riprende dai timori portati dalla globalizzazione spinta a quella che è sempre stata la sfida della tecnologia:

Prosegue la diretta di Radiolombardia con Alfredo Somoza a partire dalla pubblicazione di Siamo già oltre?: Nicoletta Prandi sottolinea che il libro contiene diversi temi scottanti e questi avrebbero impedito la sua pubblicazioni presso realtà editoriali mainstream o in paesi dove la libertà di stampa è un’utopia

Nella parte finale Alfredo Somoza ha affrontato argomenti di stretta attualità italiana, ma anche in questo ambito si percepiva sotto traccia la lucida interpretazione della realtà che si sente scorrere nelle pagine di Siamo già oltre?

Il lavoro di Alfredo Somoza è ispirato all’idea che un altro mondo migliore sia possibile, idea che lo accompagna dai tempi in cui partecipò al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre esattamente 20 anni fa.

Un dibattito sulla globalizzazione ed i suoi effetti. Quali sono stati i grandi cambiamenti degli ultimi 20 anni, e in particolar modo durante la pandemia? Come sono stati raccontati? Quante fake girano sulla globalizzazione? Quanto è smart il futuro? Partecipano: Alfredo Somoza, giornalista e scrittore. Chawki Senouci, caposervizio esteri di Radio Popolare, Marta Gatti, esperta di land grabbing e di agricoltura.

Moderano Murat Cinar e Adriano Boano.

Il criptobiscazziere mesoamericano

Ormai è risaputo che in Salvador si è adottata come denaro corrente una criptovaluta, la più famosa: il bitcoin.
Il Salvador non potrà regolare in bitcoin le importazioni, né pretendere “chivo” a pagamento dei beni eventualmente esportati. Non ci possono essere riserve di bitcoin, né una banca centrale che li emetta. Non esiste nemmeno l’obbligo di accettare un pagamento in criptovalute
Ma molti hanno cominciato a farsi un’idea di chi sia Nayib Bukele e di come si muova senza regole, fondando il suo potere sui giovani che ne seguono l’avventurismo tecnologico, manipolati dalla sua spregiudicata propaganda mirata a modificare la Costituzione per essere rieletto.
La mossa dell’adozione della criptomoneta si spaccia come agevolazione per le rimesse dei migranti (quasi un terzo dei cittadini salvadoregni); ma è soprattutto il grande mercato del riciclaggio di denaro sporco che si trova a ringraziare il presidente.
Poi si registrano le apparenti contraddizioni di affidare l’interfaccia e la sicurezza di Chivo (il wallet è stato battezzato così, ovvero “figo”) alla statunitense BitGo controllata dalla Galaxy Digital di Mike Novogratz, proveniente da Goldman Sachs nel momento in cui si sfida l’amministrazione Biden: cioè si spaccia populisticamente come grimaldello dei poveri ma si affida il funzionamento ai maneggi misteriosi della finanza; i commercianti non sapranno in realtà se avranno guadagnato realmente il denaro necessario per reinvestire nell’impresa, ma la finanza avrà altro denaro fresco da far sparire nel criptogioco. In compenso le istituzioni come Fmi hanno declassato ulteriormente il rating del paese per l’estrema volatilità.

Ascolta “Il criptobiscazziere mesoamericano” su Spreaker.

Incauto accordo: era già tutto scritto a Doha

Rassicuranti non lo sono mai stati. Ma ora sono cambiati: i Talebani hanno imparato soprattutto il modo di promuoversi e quanto sia importante la comunicazione in un mondo mediatico, dove persino l’impressione levantina dei capi e orrifica dei tagliagole nei loro stracci e barboni vecchi di due millenni nell’iconografia stantia e un po’ razzista diventa folklore, se fanno la parte a loro assegnata da Trump risultano credibili a Doha, perché svolgono il ruolo di negoziatori, che la loro cultura riconosce ai capiclan maschi e che è quella ricercata dalla controparte fatta di maschi americani. Ciò che li ha accomunati è l’appartenenza al più vieto conservatorismo di entrambe le società.

La solita eccezione culturale francese si chiede se sia possibile confrontarsi, e quindi riconoscere, con le posizioni talebane senza venir meno ai propri principi. Una posizione palesemente ancora fondamentalmente colonialista perché connota il gruppo in senso razzista e prevede una superiorità di principi da esportare: in realtà quei principi dovrebbero riuscire a comprendere come ragiona la controparte per poter individuare i punti su cui avviare la trattativa, perché senza il confronto non c’è che la soluzione di forza, visto che non si è potuta creare una alternativa nazionale credibile riconosciuta dagli afgani, visto che si sono volute imporre figure – corrotte e inconsistenti – ritagliate sul modello occidentale.

Alfredo Somoza ha colto tutte queste contraddizioni che mettono all’angolo gli europei, le rassicurazioni atlantiste e conferiscono nuova linfa a un jihadismo che si va diffondendo in Asia e Africa…

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Negare la cultura del diverso, annientandolo

Uomini di serie A e di serie B, C… Z. È il principio alla base di ogni razzismo, che immagina un mondo senza diversità e quando la incrocia cerca di assorbirla, introiettarla… integrarla; quando non riesce elimina il diverso, cancellandone ogni espressione, a cominciare dalla cultura che lo esprime.
Alfredo Somoza prende spunto dalla notizia di fosse comuni per bambini, rapiti da comunità cattoliche alle loro famiglie indigene in Canada con lo scopo di eliminare ogni traccia di cultura, religione, costumi “alieni”, avversati fino alla soppressione dei giovani, favorendo il genocidio e l’estinzione di quelle tradizionali tribù.
L’intolleranza si fonda su teorie che imperversarono al tempo del Positivismo, utilizzando teorie prive di fondamento che infestano menti deboli che si credono superiori; ma il vero problema è la capacità di diffusione di quelle teorie che fanno leva sulla supponenza della cultura occidentale industriale di proporsi come unica forma di cultura accettabile.

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L’illusione del bollino: un menu di batterie e semafori

Alfredo Somoza si cimenta con l’adozione di bollini nutrizionali molto burocatizzati dall’UE, che vedono due concetti di cultura dell’alimentazione retti su filiere di affari antagoniste, ma entrambe figlie della guerra al cibo sano.
Nutri-score, ideato in Francia, è un semaforo che indica con 5 sfumature tra il rosso e il verde la ricaduta sulla salute di ogni singolo alimento: il colore viene elaborato da un algoritmo che prende in esame parametri quali l’apporto calorico e il contenuto di grassi saturi, zuccheri e sale. Oltre ai francesi sostengono Nutri-score anche belgi e tedeschi. Diversi paesi dell’Est e del Sud del continente, Italia e Grecia in primis, invece lo criticano perché penalizzerebbe i prodotti ultraprocessati e diversi alimenti tipici della tradizione mediterranea e rilanciano proponendo Nutrinform Battery. Si tratta di un bollino a forma di batteria che indica non se il cibo sia da considerarsi buono o cattivo in sé, bensì quanto pesa percentualmente una singola porzione di quell’alimento sulla quantità totale di calorie, zuccheri, grassi, grassi saturi e sale che è consigliabile assumere in un giorno. Un meccanismo di difficile lettura, meno immediato del semaforo del concorrente. La tesi di Nutrinform Battery è che nessun alimento in commercio è dannoso, tutto dipende dalle quantità assunte. Per Nutri-score, invece, esistono cibi dannosi che restano tali a prescindere dal contesto.
Diverse aziende multinazionali hanno già preventivamente annunciato che si adegueranno: ci si accorge che la logica del bollino non spaventa nessuno. sarà l’ennesima informazione che andrà ad aggiungersi a etichette già cariche di parole e numeri, magari in più lingue, ma anche di simboli, bolli di certificazione e codici a barre, il tutto in caratteri sempre più piccoli e illeggibili. L’eccesso di informazioni, alla fine, sta producendo l’effetto contrario rispetto a quello auspicato: il mondo del consumo è ormai diviso nettamente in due, una minoranza informata che spende tempo per studiare l’etichetta e una maggioranza che la ignora, anche per mancanza di tempo.
È in questa seconda, grande categoria che si collocano i consumatori di trash food: non compiono una scelta ponderata ma acquistano ciò che costa poco e disconoscono o ignorano le controindicazioni. Il problema non è solo economico ma anche culturale. La dieta basata su cibi processati e da consumare rapidamente, come i wurstel o le patatine fritte, ma anche su specialità – per guardare all’Italia – come i salumi e i formaggi. E il cortocircuito si verifica qui: i produttori di alimenti tradizionali ricchi di grassi e sale, come gli insaccati, si rivolgono a un cliente che potrebbe rivelarsi sensibile al richiamo salutista, mentre i produttori di trash food non se ne preoccupano affatto, perché i loro consumatori ignorano i bollini; il cibo è cultura e disponibilità economica. La questione vera sta a monte, ed è che anche nell’Europa mediterranea, dove ieri i poveri vivevano mangiando soprattutto pesce, olio d’oliva, pane, verdura e frutta, oggi hamburger, merendine e patatine fritte possono farsi beffe di qualsiasi bollino.

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La Seconda Guerra Fredda: l’ipocrisia neoliberista sui diritti umani

La Guerra Fredda che si sta preparando è molto diversa dalla precedente per protagonisti, interessi economici, ambiti ideologici, schieramenti, alleanze porose come i confini entro cui agisce la contesa.
Alfredo Somoza (@alfredosomoza) prende spunto dal recente G7 di St Ives per cogliere le molte contraddizioni che ne sono emerse e la strabicità di visioni tra gli antagonisti: da un lato la “cordata occidentale” dell’“America is Back” (https://ogzero.org/america-is-back-la-regia-del-road-movie-di-biden/) e dall’altra il costruendo asse Mosca-Pechino con le potenze locali costituite dagli strategici regimi di Tehran e Ankara a svolgere il ruolo di comprimari con sceicchi, emirati e la potenza militare israeliana.
Le differenze tra le due epoche sono nel fatto che sul sistema economico le leadership mondiali si sono attestate tutte su diversi livelli di una stessa dottrina, il neoliberismo; la sensazione è che i diritti umani siano merce di scambio, da mettere sul piatto della bilancia commerciale, il vero centro dello scontro.
Quando il gioco si fa duro, i Grandi ripristinano il G7 per dimostrare che comandano ancora loro. Ma è davvero così? Oggi la forza dei Paesi del G7 non è il loro arsenale militare, imbattibile e costoso, ma la ricchezza dei loro mercati. Si tratta però di una ricchezza che scorre sempre di più verso altri paesi, dispersa in milioni di rivoli, lasciando ai Grandi sempre di meno in termini di entrate fiscali e creazione di impiego. Il drenaggio economico favorisce chi possiede materie prime e, soprattutto, chi le trasforma, ed è destinato a tradursi anche in potere politico.
L’impero Françafrique si sta sfaldando e infrastrutture e stakeholder cinesi lo sostituiscono, mentre turchi e russi subentrano nel controllo militare del territorio; in Mesoamerica non si tollera più l’ipocrisia della retorica democratica di chi in passato copriva i colpi di stato, la fame alimenta i populismi di ogni segno, e la ferocia repressiva dei narcoregimi producono insurrezioni come in Colombia.
Un tratto è fondamentale nella analisi della nuova Guerra Fredda: i grandi avversari di oggi sono legati indissolubilmente tra loro nella costruzione e nella gestione della globalizzazione. Dove conta di più chi vende una pera argentina, impacchettata in Thailandia per distribuirla in quegli Usa che possiedono gli inutili missili intercontinentali.

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La chimera della ridistribuzione

Un tema complesso quello delle diseguaglianze, che secondo la scuola liberale non dovrebbero nemmeno esistere come categoria, in quanto deriverebbero soltanto dall’impossibilità di concorrere liberamente in un mercato svincolato da ogni controllo pubblico.
Opposta è la visione delle socialdemocrazie, che credono in un mercato regolato dallo stato e considerano le diseguaglianze come “anomalie” da combattere attraverso il welfare e la tassazione progressiva sui redditi. Cioè ridistribuendo la ricchezza.
Il punto è che questi problemi non riguardano solo la ridistribuzione del reddito. Siamo alle soglie di una rivoluzione industriale senza paragoni, quella dell’intelligenza artificiale applicata alla robotica, potenzialmente destinata a eliminare una quantità enorme di lavoro: che i robot che svolgono lavoro umano dovrebbero essere tassati, per assicurare il mantenimento del livello di welfare.
Secondo l’istituto di ricerche globali sull’economia McKinsey, il 45% dei posti di lavoro oggi remunerati potrebbe essere sostituito in tempi brevi da tecnologie già attualmente in sperimentazione.

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I forzieri della filibusta fiscale

Nei fondamentali della liberalismo inglese il fatto di pagare le tasse diventa una parte dei binomi fondativi della appartenenza alla comunità data da tasse e cittadinanza, tasse e responsabilità sociale, tasse e giustizia. Oggi si parla invece di “erosione della base imponibile”, il trucco legale che permette alle grandi multinazionali di trasferire all’estero i profitti onde evitare la tassazione nei paesi dove gli stessi profitti sono stati generati.
Secondo un report di Citizen for Tax Justice, le principali 500 aziende statunitensi avrebbero parcheggiato in paradisi fiscali 2100 miliardi di dollari che, se dovessero rientrare negli Usa, lascerebbero allo stato 600 miliardi di dollari; la pratica innocentemente chiamata “di ottimizzazione fiscale” è a portata soltanto delle grandi multinazionali. Per un produttore locale europeo, questo vuol dire avere un gap rispetto al suo concorrente pari a circa il 30-35 per cento sul guadagno atteso. Evidente concorrenza sleale alla base della globalizzazione che ha moltiplicato le opportunità di produrre e di vendere a un mercato sempre più grande, senza ridistribuire i proventi.

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