«Abbiamo bisogno di cambiamento». Chiavi thai per una rivoluzione culturale nel regno del Siam
Le trame della realtà affondano in radici magiche e simboli culturali
«Pensa alla magia, non alla politica». È il consiglio, a volte inquietante, che spesso viene rivolto a uno studioso del mondo magico thailandese. Lui stesso un “indovino”, un mo du [il dottore che osserva], colui che vede il destino. Che sia un farang, come in Thailandia chiamano gli stranieri, complica le cose. Per i thai è un’anomalia nel mondo della khwampenthai, la “thailandesità”. Per gli occidentali sfugge ai codici canonici dell’accademico.
Edoardo Siani, giovane italiano dalla storia romanzesca, antropologo, docente di studi del Sudest asiatico all’università Ca’ Foscari di Venezia, reincarna quegli studiosi come Elémire Zolla, “il conoscitore di segreti”, che interpretano la realtà ricercandone le radici magiche e psicologiche.
Le vicende della contemporaneità thai vanno osservate come se si assistesse al Ramakien – il poema ispirato all’indiano Ramayana – in cui le trame e i simboli sono al tempo stesso struttura culturale. Nella versione rappresentata oggi nella scena thai gli episodi vedono l’apparizione di nuovi personaggi in nuove trame: la pandemia, la rivoluzione culturale e la restaurazione.
Le analisi compiute con questo metodo spesso riescono a spiegare ciò che è incomprensibile a molti osservatori che si ostinano ad applicare una logica occidentale nello scenario del buddhismo theravada. In Thailandia, il dharma, le regole che governano il cosmo, è in uno stato di fluttuazione perché soggetto all’anijja, l’“impermanenza”: la transitorietà dei fenomeni.
Dharma, anija e sanuk: evitano l’Orientalismo e… spiegano anche l’epidemia
Il dharma e l’impermanenza sono la chiave per approfondire le nuove trame thai evitando le banalizzazioni narrative, l’Orientalismo. «Come recita la legge buddhista dell’impermanenza, ogni cosa, anche la legge sulla lesa maestà, si manifesta, esiste e scompare, al pari delle norme etiche e culturali della società. Nulla è permanente» scrive Matthew Wheeler dell’International Crisis Group, riferendosi al tabù che è anche il nodo centrale della politica thai.
Per uno di quei fenomeni di sincronicità, coincidenze casuali, che sono tra i concetti cardine del pensiero junghiano, maestro del pensiero magico come medium di psicanalisi, l’attesa di un ritorno in Thailandia, che appare sempre più come un’anabasi esistenziale, diviene prova e manifestazione dell’impermanenza.
Un farang che oggi cerchi di tornare in quel paese permane sull’orlo di una crisi di nervi: per la burocrazia e i costi da affrontare. Ma pochi rinunciano: troppo forte è l’attrazione del clima, dell’apparente sicurezza del regno. E soprattutto del sanuk. Letteralmente significa divertimento, ma ha un contenuto più profondo. Si può definire “la via della gioia di vivere”, base dell’edonistica cultura thai. Le sue forme d’espressione sono innumerevoli: feste e gioco, teatro tradizionale e soap opera, muay thai e combattimenti dei galli, shopping e spiagge. E, ovviamente, il sesso. Per ravvivare il turismo, nel settembre scorso era stato proposto di permettere ai turisti di frequentare le “sale massaggi” vicine agli alberghi dove trascorrevano la quarantena.
Ma all’inizio dello scorso anno, quando la pandemia sembrava circoscritta a Cina e dintorni (come nel 2002 con la prima epidemia di Sars) e si temeva di restare bloccati in un incubo virale, quegli stessi farang tempestavano le ambasciate, le compagnie aeree, per trovare una via di fuga che li riportasse nella comfort-zone dell’Occidente. La Thailandia, Bangkok in particolare, era in pieno lockdown, sottoposta a coprifuoco, materializzava un Hotel California da cui non si può fuggire, dove lo straniero è intrappolato dai suoi stessi desideri.
Il futuro prossimo potrebbe segnare un’ulteriore transitorietà. Se fino a metà dicembre il Thailand Center for Covid-19 segnalava una situazione stabile con poco più di 4000 casi di contagio e 60 decessi, a metà gennaio i casi erano saliti a oltre 11000 e 70 morti. Nel frattempo, il 4 gennaio è stato dichiarato un nuovo, parziale lockdown dopo mesi di apertura.
La pandemia diventa contaminazione culturale
Rispetto alla prima ondata sono cambiati gli untori. Ora sono i lavoratori birmani, dato che il contagio è ripreso in un mercato del pesce vicino a Bangkok e si è diffuso nei quartieri ghetto dei migranti birmani. Il rischio è che divengano ancor più “dannati”, vittime di quel senso di superiorità diffuso in Sudest asiatico nei confronti dei più poveri.
Nella prima ondata, invece, la xenofobia era nei confronti dei farang, giudicati sporchi (come ebbe a dichiarare il ministro della Sanità), ma soprattutto portatori di comportamenti malsani. Il virus che possono trasmettere non è solo il Covid, bensì qualcosa di più insidioso: la contaminazione culturale.
È un fenomeno anch’esso virale: tutto il Sudest asiatico appare circondato da una nuova cortina di bambù. Secondo molti asiatici, sul tramonto dell’Occidente è ormai scesa la notte. Ci attende l’alba di una storia postpandemica: gli autoritarismi asiatici, “la democrazia fiorente nella disciplina”, si sono rivelati più efficaci delle democrazie occidentali. Un nuovo ordine mondiale post-covid di conflitti e contraddizioni è il titolo di un articolo del Commodoro C. Uday Bhaskar, direttore della “Society for Policy Studies” di Delhi. «Per i thai è troppo tardi per sfuggire all’abbraccio cinese, possiamo solo cercare di non farcene soffocare» ha dichiarato un diplomatico di Bangkok. Pechino segue la politica – che in Occidente definiamo “amorale” – di non interferenza negli affari interni dei paesi dell’area e ora ha rinforzato questo “soft power” con la “Vaccine diplomacy”. La Thailandia, per esempio, dovrebbe ricevere entro il prossimo mese le prime 200.000 dosi del Sinovac anti-Covid. In Occidente, in compenso, anziché cercare di comprendere ciò che si sperimenta in Asia, tutto viene assunto a prova di una marginalità asiatica, di una sua alterità, a volte mostruosità (di cui è simbolo il “virus cinese” diffuso in orridi “wet market”).
A fari della democrazia spenti nella notte
Il caos delle elezioni americane (che per gli osservatori delle vicende asiatiche è stato ancor più traumatico nel paragone con la “normalità” di quelle svolte in Birmania dopo solo una settimana) è apparso come un ulteriore segno della decadenza del paese considerato faro di democrazia. In Thailandia i sostenitori del generale Prayuth, denunciando interferenze a favore delle proteste, non hanno mancato di rilevare che per l’America è sempre più difficile ergersi a giudice.
Da parte dell’opposizione democratica thai, invece, Trump è stato paragonato (anche in molte vignette) a Suthep Thaugsuban, leader del People’s Democratic Reform Committee (Pdrc), la formazione ultraconservatrice delle “camicie gialle” che con le manifestazioni del 2014 aprì la strada al golpe di quell’anno. Paragone tanto realistico quanto inquietante.
In Thailandia, dunque, la pandemia è stata un’ottima scusa per dichiarare una sorta di legge marziale. La chiusura quasi totale del paese, giustificata per tutelare il regno da contagi, ha generato una crisi economica i cui effetti potrebbero avere conseguenze interne e internazionali difficilmente valutabili secondo gli standard occidentali, considerando che in Thailandia l’1% della popolazione controlla il 66,9% della ricchezza. Ma anche la crisi è divenuta lo strumento per propagandare un nuovo modello di sviluppo. Come dimostra uno spot televisivo che inneggia alla decrescita felice, al ritorno alle radici tradizionali, una recherche dell’antico regno del Siam.
In questo brodo di coltura la protesta si è sviluppata come una variante del virus. Le manifestazioni studentesche sono iniziate nel febbraio 2020 a seguito dello scioglimento di Future Forward (Ffp), il partito d’opposizione fondato dal giovane miliardario Thanathorn Juangroongruangkit che aveva ottenuto un eccezionale risultato alle elezioni del marzo 2019.
Il Free Youth Movement e i precedenti
Alla base delle manifestazioni – interrotte per Covid in aprile e poi riprese con forza alla fine di luglio con un picco tra agosto e novembre – c’è la richiesta di dimissioni del premier Prayuth Chan-ocha, la riforma costituzionale e il ritorno a una vera democrazia. L’ex generale Prayuth è al governo dal 2014, prima al comando della giunta militare che prese il potere (il diciannovesimo golpe dopo l’istituzione della monarchia costituzionale nel 1932), poi primo ministro autonominato, infine premier di un partito che alle elezioni del 2019 ha ottenuto la maggioranza grazie a una modifica costituzionale ad hoc. Ma non è bastata a quello che ormai va definendosi come l’espressione dell’Ancien Régime: il Ffp appariva una variante troppo pericolosa perché trasmessa dai figli di una borghesia medio-alta. Non più quei “bufali rossi” com’erano sprezzantemente definite le “camicie rosse”, i popolani e i contadini dell’Isaan, la regione più povera del paese, che nel 2010 occuparono Bangkok in una protesta repressa nel sangue.
Secondo Duncan McCargo e Anyarat Chattharakul, analisti di politica thai, nel saggio Future Forward: The Rise and Fall of a Thai Political Party, quel partito guidato da un “hyperleader” che sfidava sia il potere dei militari sia delle grandi famiglie che monopolizzano l’economia (per quanto anche lui ne sia figlio) ha avuto un effetto “più emozionale che razionale”, riuscendo a coagulare consensi che apparivano più simili a quelli di un gruppo K-pop che non a un movimento politico tradizionale. A questi si univano i “fans radical” di Piyabutr Saengkanokkul, altro fondatore dell’Ffp, attivista legale, “seguace” della Rivoluzione Francese (che in una monarchia come la thai appare una minaccia contemporanea, considerando che nel 1932, il People’s Party, un gruppo di giovani turchi ispirati agli ideali della Rivoluzione Francese rovesciò la monarchia assoluta promulgando la prima costituzione).
Le rivoluzioni francesi, del 1789 come del 1968, sembrano ispirare la contestazione. Se n’è avuta dichiarazione il 3 agosto, quando l’avvocato Anon Nampa ha proclamato la necessità della riforma della monarchia. Ancor più la sera del 10 agosto, nel campus della Thammasat University di Bangkok, quando la ventunenne Panusaya “Rung” Sithijirawattanakul ha letto il manifesto della contestazione: dieci punti che richiedevano una forte limitazione dei poteri reali. È stata anche la scenografica rappresentazione di quel momento che l’ha fatta divenire la star del movimento e inserire nella lista della Bbc delle 100 donne più “ispiratrici” del 2020.
Dalle rivoluzioni nate a Parigi sono derivati anche gli slogan di Bangkok. “Né dio, né re, solo umano” riecheggia quelli del Sessantotto. Alla trinità “Nazione, religione, monarchia” i manifestanti hanno opposto lo slogan, “Nazione, religione, il popolo”. Il gesto simbolo delle manifestazioni, il braccio alzato con tre dita unite, ripreso dal film Hunger Games per indicare l’opposizione alla tirannide, è interpretato come l’unione dei valori di Liberté, Égalité, Fraternité della Rivoluzione Francese. La rappresentazione plastica dei fantasmi evocati dalla rivoluzione è la foto, forse casuale, che ritrae il passaggio dell’auto della regina Suthida tra due ali di manifestanti il 14 ottobre. Il volto della regina, perfettamente a fuoco dietro il finestrino, appare smarrito, quasi impaurito. Era la prima volta che una folla di manifestanti arrivava così vicino a un membro della famiglia reale, salvo quando si trattava di manifestazioni di devozione e la folla era in ginocchio.
[riproponiamo qui un’analisi di Massimo Morello che puntualizza bene i motivi della sollevazione, ringraziando Giampaolo Musumeci e Radio24 per averci permesso di utilizzare il suo intervento trasmesso all’interno della puntata di Nessun luogo è lontano del 15 ottobre 2020 («raccontare, raccontare, raccontare…»)]
Ascolta “Cosa scuote il sistema pi-nong, impalcatura della monarchia tailandese?” su Spreaker.
Nuovi modelli di cultura thai
«La Thailandia è in una crisi di legittimazione, d’identità senza precedenti e deve confrontarsi con una nuova generazione intelligente, che propone una visione del tutto nuova della società, che sia nella filosofia politica, nelle diversità di genere, nelle questioni etniche…», ha scritto David Streckfuss, storico del Sudest asiatico. Questa interpretazione, un po’ falsata dalla sociologia occidentale, ha fatto sì che molti paragonassero le proteste di Bangkok a quelle di Hong Kong. Forse la contestazione thai è più importante per i giovani hongkonger, che la vedono come prova del contagio democratico in Asia. In Thailandia Hong Kong è un modello soprattutto stilistico, in una forma che fonde modelli e segni della cultura pop asiatica (come le papere gonfiabili utilizzate come scudi agli idranti), l’uso di flash mob e dei social che diviene quasi una performance al pari dei video del gruppo Rap Against Dictatorship, il cui primo lavoro Prathet Ku Mi (Questo è il mio paese) è divenuto virale, mentre l’ultimo Reform è stato bloccato su YouTube thai.
La patriottica metafora malata
Nella Thailandia del Covid si ritrovano diverse storie e le loro narrazioni sono un’intricata trama di politica, economia, magia, virus, sanuk, totem e tabù. La contestazione in atto, più che politica è culturale, contesta un sistema di norme che costituisce l’impalcatura della società. Quel sistema è definibile nel rapporto pii-nong, “maggiore-minore”. Un rapporto gerarchico e di deferenza molto complesso: riguarda l’età, le gerarchie familiari, professionali, economiche, sociali, culturali. È un sistema che negli ultimi anni ha creato notevoli tensioni perché cristallizza le stratificazioni sociali, già viste come un’espressione del karma, un destino assegnato in funzione delle vite precedenti. Secondo lo studioso realista Bowornsak Uwanno, per esempio, ogni limite alla libertà d’espressione «riflette le norme etiche e culturali che ogni thai dovrebbe seguire». Seguendo tale assioma, chi richiede una riforma della monarchia è un “eretico”. Per il generale Apirat Kongsompong, ex capo di stato maggiore e oggi viceciambellano di corte, i contestatori sono individui “malati”, soffrono di chang chart, “odio verso la madrepatria”, sindrome molto più grave dello stesso Covid. Più reali le sindromi da stress e depressione che colpiscono molti manifestanti, dovute sia al rischio delle loro azioni sia alle pressioni dei genitori che li accusano di disonorarli, tanto che è stato proposto di diseredare i figli ribelli. In Thailandia, inoltre, ogni problema psicologico è marchiato da uno stigma sociale e religioso in quanto considerato effetto di un karma negativo.
Il tracollo della monarchia etica
In questa dimensione psicopolitica la situazione è resa ancor più oscura dalla presenza di un “cigno nero”, un evento imprevedibile in quanto dipendente anch’esso dall’impermanenza: la monarchia. Re Rama IX, sua maestà Bhumibol Adulyadej, scomparso nel 2016 dopo settant’anni di regno, per la maggior parte dei thai resta l’incarnazione delle virtù buddiste, un Dhammaraja, che governa secondo il Dasarajadhamma, “i principi del re virtuoso”. Nel periodo del Bhumibol consensus, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, riuscì a evitare che la Thailandia subisse lo stesso destino degli altri paesi dell’area, là dove la Guerra Fredda divenne incandescente. Con i suoi programmi di economia sostenibile – forse non compiuti ma certo preveggenti – e i suoi spostamenti nel paese per promuovere progetti quali la riconversione delle colture da oppio, era considerato un innovatore, forte del consenso sino alla venerazione popolare.
Come è stato osservato, la società thai si è sviluppata in uno stato di “caos controllato” e il re ha svolto il ruolo di controllore. «La sua autorità morale è enorme: per i thai è un punto di riferimento nei momenti di sfiducia nei confronti dei politici». Il che, commenta Thitinan Pongsudhirak, professore di dottrine politiche, «induce a una riflessione sulle carenze della nostra democrazia. Quando ci troviamo di fronte in un’impasse, il popolo guarda al re come il solo che può risolvere la situazione».
La crisi attuale è detonata con la morte di Rama IX. Rama X, suo figlio Maha Vajiralongkorn, non gode dello stesso favore. È sempre apparso come l’antitesi del “re virtuoso”, ma sembra credersi un Devaraja, “il dio-re”, cui tutto è concesso. Ha accentrato un enorme potere, compresa la nomina del Supremo Patriarca buddhista e il controllo del patrimonio della corona, circa 40 miliardi di dollari, con interessi in ogni settore. Sua anche la Siam Bioscience che con AstraZeneca produrrà il secondo vaccino usato in Thailandia. Per proteggere tale potere ha affidato alla guardia reale (vero e proprio corpo di pretoriani) il controllo della capitale. Inoltre il nuovo re si è alienato le simpatie popolari (e non solo) perché trascorre più tempo in Germania che in Thailandia e per un comportamento, come ripristinare lo status speciale per le concubine reali, che fa “perdere la faccia” al paese.
Ma Vajiralongkorn è anche un “Principe” in senso machiavellico, diverso da come lo descrivono molti osservatori occidentali. «La Thailandia è la terra del compromesso» ha risposto a un giornalista straniero che gli ha chiesto se e come si potesse risolvere la crisi. E negli ultimi tempi ha fatto numerose apparizioni in pubblico, quasi sempre al fianco della regina Suthida, spesso intrattenendosi con i sudditi. Un comportamento che, pare, ha fatto crescere la sua popolarità. Per ammissione dello stesso primo ministro Prayuth, è stato il re a chiedere di non ricorrere alla draconiana legge sulla lesa maestà quale forma di deterrenza.
In questo flusso d’impermanenza, il movimento d’opposizione ha commesso un clamoroso errore. Il Free Youth Movement ha lanciato un nuovo simbolo: RT. Che ufficialmente significa Restart Thailand, per altri indica Revolution Thai. Per altri ancora il significato è più minaccioso: Republic of Thailand. Un simbolo, inoltre, rappresentato con un altro simbolo: la falce e martello (disegnate da R e T).
Come ha scritto il nostro mo du Siani: «Sovraimporre l’identità marxista al movimento è pericoloso». Perché implica quell’idea di repubblica che è lo spettro dei conservatori, perché il comunismo per la maggior parte dei thai identifica coloro “senza religione”, perché potrebbe portare a una restaurazione della monarchia assoluta o a una repressione come quella del 1976, quando furono massacrati un centinaio di studenti. Allora lo scenario geopolitico era profondamente diverso: la Thailandia era la pedina centrale nel “domino” del Sudest Asiatico tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Ma il ricordo della guerra è ancora radicato nell’inconscio collettivo. «Muoio perché ho ucciso troppi comunisti» dice Lung Bunmi Raluek Chat [Lo zio Boonmee che può richiamare le sue precedenti vite], personaggio che dà titolo al film del thailandese Apichatpong Weerasethakul, vincitore del 63° Festival di Cannes. Di fatto sembra che il riapparire di antichi spettri abbia segnato un nuovo colpo di scena. «La legge sulla lesa maestà si manifesta con un’escalation senza precedenti», ha commentato il politologo Thitinan Pongsudhirak.
[a proposito del reato di lesa maestà è interessante ascoltare un intervento di Sabrina Moles su Radio Blackout del 21 gennaio 2021, un paio di giorni dopo la stesura di questo articolo di Massimo Morello: un intervento che prende spunto dalla legge 112, per collocare l’episodio che vede Anchan Preelert protagonista, utilizzandolo per spiegare il contesto attuale, il momento del golpe – periodo storico in cui è avvenuto il reato contestato ad Anchan e il mondo di riferimento delle nuove generazioni]
Ascolta “Una condanna esemplare del retrivo regno del Siam” su Spreaker.
La crisi è sembrata risolversi a dicembre, quando i leader della protesta hanno annunciato una tregua durante la stagione delle festività. Secondo la maggior parte dei commentatori era la dimostrazione dei primi dissidi all’interno del movimento e una forma di ritirata di fronte all’inasprirsi della repressione. Ma potrebbe anche essere l’ennesima espressione del sanuk, il pervasivo edonismo thai.
Per il momento è difficile capire come si manifesterà l’impermanenza, perché a gennaio, con l’aumento dei casi di Covid ogni manifestazione pubblica è stata bandita e la tregua prolungata sino a metà 2021. Nel frattempo, come a metà gennaio, potrebbero verificarsi nuovi scontri, magari in seguito ai dissidi tra i gruppi del servizio d’ordine, crearsi nuove alleanze, per esempio tra studenti e camicie rosse, Thanathorn potrebbe ripresentarsi sulla scena, oppure potrebbero riapparire le camicie gialle realiste.
In Thailandia il futuro è nelle mani dei maghi.