Il Camaleonte di Managua
Dopo lo sguardo su Haiti – post Moïse – e Cuba – dopo le proteste di luglio – di cui ci ha parlato Diego Battistessa, già ponendo in relazione L’Havana con Managua, riprendiamo il dossier nicaraguense con Alfredo Luis Somoza, che ci avvicina alle elezioni di novembre, fornendo un ingrandimento del ritratto di famiglia della dinastia Ortega-Murillo.
Sono più di 30 i detenuti in Nicaragua in vista delle elezioni del 7 novembre. Ortega usa la detenzione per eliminare concorrenti a rendere perpetuo il suo potere: infatti 7 di questi sono candidati alle presidenziali: Cristiana Chamorro Barrios, Félix Maradiaga, Arturo Cruz, Juan Sebastián Chamorro, Medardo Mairena, Miguel Mora e Noel Vidaurre. Gli altri sono leader dell’opposizione, come la Comandante 2 (Dora Marìa Téllez, protagonista della Rivoluzione) e del Movimento Campesino, tutti “traditori della patria” in base alla Ley de Defensa de los Derechos del Pueblo a la Independencia, la Soberanía y Autodeterminación para la Paz… ma il vero tradimento degli ideali che, cacciando Somoza, rinverdirono le speranze rivoluzionarie di Tierra y libertad è quello perpetrato dal Danielismo ai danni del Sandinismo.
Perpetuarsi alleandosi col peggior Spirito del Tempo
La storia politica di Daniel Ortega è unica nel suo genere. Dopo avere guidato l’unica rivoluzione vincente che ha mantenuto in vita il pluripartitismo, convocato elezioni, perso e consegnato il potere ai vincitori, ha iniziato una seconda vita politica che lo vede ancora al potere nel piccolo Nicaragua. E questo perché il camaleontico Ortega ha saputo adoperare una retorica e una pratica politica sempre adeguata ai tempi, oltre a essere diventato maestro della manipolazione, dell’uso politico della corruzione e della repressione.
Quando Maggie Thatcher proibì la parola e Sandinista fu titolo per i Clash
Negli anni Sessanta, dopo essere passato dal Collegio dei Gesuiti, Daniel diventa guerrigliero e sale man mano nella gerarchia del Fronte Sandinista fino a diventare Presidente della Giunta rivoluzionaria che si insedia al potere, davanti al Vescovo di Managua, nel 1979. Un governo di unità nazionale antidittatura con appartenenti a tradizioni diverse, dai cattolici ai marxisti, passando anche dalle grandi famiglie illuminate come i Chamorro. Il governo sandinista, confermato dalle urne nel 1984 dovrà fare fronte a un’aggressione militare ed economica con pochi precedenti. Gli Stati Uniti finanziano e armano clandestinamente la cosiddetta “contra”, che inizia una guerra armata contro il governo, e sabotano l’economia del paese fino a minarne i porti, azioni per le quali gli Usa vengono condannati dal Tribunale dell’Aia nel 1986. Malgrado la situazione, e a dimostrazione di quanto la rivoluzione sandinista fosse principalmente un movimento radicale contro la dittatura ma restasse nel campo democratico, nel 1990 si torna al voto e vince la coalizione antisandinista messa insieme da Violeta Chamorro, già membro della prima giunta rivoluzionaria e proprietaria del più importante quotidiano del paese, “La Prensa”.
Tierra y… piñata
Il risultato viene riconosciuto e il potere consegnato, ma nella fase di transizione già si può notare la trasformazione in corso nell’entourage di Ortega con la cosiddetta” piñata”, cioè la spartizione di terre e aziende tra alcuni capi della rivoluzione in base a due leggi approvate ad hoc. Erano beni confiscati soprattutto, ma non solo, alla dinastia dei Somoza rovesciata dai sandinisti e poi nazionalizzate. Ortega stesso diventa proprietario terriero lungo il fiume San Juàn al confine con il Costa Rica. Si calcola che il valore di quanto accaparrato dai dirigenti sandinisti sconfitti fosse di 1,3 miliardi di dollari. E non stavano rubando ai ricchi latifondisti, stavano rubando allo stato nicaraguense. Con la piñata [la Pentolaccia] si chiude la stagione del sandinismo storico che si divide in due tronconi, i dirigenti ed ex guerriglieri che tentano di mantenere in vita gli ideali di Sandino e il “danielismo”, cioè il gruppo di potere che si forma attorno a Ortega e che lo accompagnerà nelle piroette degli anni successivi. Centrale in questa costruzione sua moglie, Rosaria Murillo, che difese Ortega dall’accusa di violenza sessuale ai danni di sua figlia (di un precedente matrimonio) Zoila América. Ortega non fu mai processato per questo reato grazie all’immunità parlamentare.
La dinastia: infrastrutture e petrolio
Dopo il ritorno alla fede, la nomina a deputato a vita per sfuggire al processo per stupro e una virata politica pro mercato, nel 2006 Ortega torna al potere vincendo regolari elezioni, ma solo con il 38% dei consensi. Il camaleonte Ortega aveva però cambiato ancora pelle, il ritorno al potere era stato agevolato dal Patto celebrato con il suo arcinemico ai tempi della Rivoluzione, l’imprenditore José Arnoldo Alemán Lacayo, con il quale condivise le riforme che da un lato avrebbero permesso ad Alemàn di tentare di scampare alla giustizia per corruzione, ma dall’altro abbassavano la soglia percentuale per vincere le elezioni al 35%. Un calcolo quasi matematico rispetto al risultato delle presidenziali. Nel 2011 vince ancora le elezioni con un sospetto 62% dei voti e vengono bloccati ai seggi molti osservatori nazionali e internazionali che non possono verificare la trasparenza del voto. Il suo governo pianifica la costruzione di un Canale che rivaleggi con quello di Panama, costruito dai cinesi, e alla testa del consorzio viene nominato suo figlio Laureano. Al figlio maggiore Rafael viene invece affidata la direzione dell’ente nazionale degli idrocarburi. Altri fratelli e sorelle controllano canali di televisione e giornali. Ormai gli Ortega sono una dinastia familiare al potere, come i Somoza che avevano rovesciato nel 1979.
La cleptocrazia a trazione famigliare ammantata di falso bolivarismo
Hugo Daniel Fidel… todas la iglesias están con el
Il Nicaragua di Ortega ha bisogno di ossigeno e alleanze e fa diplomazia a tutto campo, inserendosi nel gruppo dei paesi dell’Alba, la alleanza bolivariana promossa da Hugo Chávez insieme a Cuba, Bolivia e Venezuela. Scelta che lo porta anche a stringere rapporti con Russia, Cina, Siria, Iran. Il camaleonte di Managua si vende internazionalmente come un progressista e antimperialista di ferro, ma in realtà è a capo di una cleptocrazia a gestione familiare che sopravvive grazie alle alleanze spericolate sottobanco con i peggiori settori del mondo dell’industria e della finanza nazionale. Senza dimenticare i forti sospetti di rapporti con il potente mondo del narcotraffico che però non sono mai stati dimostrati con certezza. Nel 2016 vince ancora le elezioni, questa volta con il 72%, in un crescendo ininterrotto di consensi. La vicepresidente ora è Rosaria Murillo, sua moglie, e durante la campagna elettorale era avvenuta un altro mutazione del camaleonte, diventato icona new age con slogan tipo “l’allegria di vivere in pace” o ”amore per Nicaragua”. Si registra anche l’avvicinamento del cattolico Ortega al mondo delle chiese evangeliche, ormai pedine imprescindibili per vincere in Centro America. Il paese soffre e resta ancorato agli ultimi posti del continente per povertà, circa il 40% dei nicaraguensi si trovano sotto la soglia considerata minima per vivere dagli organismi internazionali.
Libertad y muerte
Nel 2015 e poi nel 2018 si registrano grandi manifestazioni contro il clan Ortega. Il motivo è una riforma previdenziale sancita senza sentire le parti che viene fortemente contestata dai lavoratori con il sostegno degli studenti universitari. La repressione diventerà brutale, addirittura vengono violate le chiese dove si rifugiano i manifestanti. La Commissione Interamericana dei Diritti Umani certifica che i morti per la repressione sono stati 328, centinaia i detenuti e i licenziati dal pubblico impiego, 88.000 gli esuli fuggiti all’estero.
Il governo Ortega diventa definitivamente regime quando rifiuta l’arrivo nel paese di una missione con il compito di verificare i fatti. Viene istaurato uno stato di polizia e cominciano a essere perseguitati i giornalisti, ma soprattutto si moltiplicano le leggi che dovrebbero preparare il terreno per l’ennesima rielezione di Ortega del prossimo 7 novembre. Come quella che inibisce le candidature delle persone che si siano manifestate a favore delle sanzioni applicate dagli Usa ai congiunti del presidente, oppure quell’altra che considera le persone che abbiano ricevuto finanziamenti dall’estero per le loro attività politiche o culturali alla pari di agenti stranieri. Ciliegina sulla torta: la legge sui cyber-reati colpisce la libertà di espressione. Questo combinato disposto di repressione e legislazione da regime ha portato nelle ultime settimane all’arresto e all’inibizione a candidarsi dei principali leader dell’opposizione, sia di destra che di sinistra, includendo alcuni personaggi storici della rivoluzione sandinista come la “Comandante 2”, Dora Marìa Téllez. Il Nicaragua si avvicina quindi nel modo peggiore alle elezioni del 7 novembre, alle quali non saranno ammessi candidati fastidiosi, non saranno controllate da nessuno e si svolgeranno in un paese senza più libertà di stampa e nel quale non si è mai riusciti a conoscere la situazione determinata dalla pandemia. Il Nicaragua, dopo 42 anni dalla fine del somozismo, è tornato a essere un paese governato da un regime corrotto e repressivo gestito da un clan familiare. Lo stesso scenario che portò a ribellarsi sia Augusto César Sandino nel 1926 sia i sandinisti nel 1979. La storia politica del camaleonte Ortega è unica in America Latina proprio per questo dato, da comandante di una rivoluzione contro l’ingiustizia e il totalitarismo a ricco e corrotto gestore di un regime che ha portato indietro nel tempo il Nicaragua, fino alla prossima ribellione.
“Danielismo: Dinastia y Libertad”.
“En época de revolución, nada tiene más fuerza que la caída de los símbolos”
(«In times of revolution nothing is more powerful than the fall of symbols», The Age of Revolution, 1789-1848)