Neom: The Red Sea Diving Resort

Eric Salerno
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Immersione nella barriera arabo-israeliana in dissoluzione

Tra il virtuale e il reale, le due rive del mar Rosso sono in ebollizione. Non distante da dove, a ridosso di Port Sudan, anni fa, il Mossad aveva trasformato un fallito centro per subacquei in una base segreta per portare in Israele gli ebrei etiopici (falasha) in fuga, la marina russa sta per aprire una base navale e aggiungere la presenza dell’ex superpotenza a quella di numerosi altri contendenti per il controllo della regione. Dall’altro lato di quel lungo specchio d’acqua tra i più strategici del mondo, di fronte all’Africa più turbolenta, l’Arabia saudita ha avviato la creazione di un vasto comprensorio turistico di lusso (con un poco fortunato avvio per colpa del Covid) dove le regole più arcaiche del Corano non valgono mentre sulla stessa riva ma più a sud continua a seminare morte e devastazione nello Yemen.

Kryptonite SarsCov2 sul vertice G-20

Il 21 e il 22 novembre, su onde simili a quelli che consentono ai droni sauditi di colpire la splendida Sana’a, si sono esibiti a distanza di sicurezza imposta dalla pandemia i rappresentanti dei G20 nel loro vertice annuale presieduto per la prima volta da un paese arabo, proprio l’Arabia saudita. Con gli specialisti che ci continuano a raccontare che il mondo abbastanza presto farà a meno del petrolio e si servirà di altre risorse, meno inquinanti, per le sue molteplici esigenze di vita e che, comunque, i ricchissimi giacimenti di oro nero sotto le sabbie del grande deserto arabo stanno finendo, viene da chiedersi il significato dei giochi geopolitici e militari di quello scacchiere. Lasciamo le risposte complesse a un altro momento: è per molti più importante chiedersi oggi perché la presidenza, seppure di turno, di un sodalizio come il G20 e il vertice siano andati a finire in uno dei paesi più repressivi dei diritti umani del mondo e perché uno dei suoi massimi leader abbia potuto impunemente sfuggire all’accusa di omicidio per il brutale assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi e viene accolto da mezzo mondo come se nulla fosse accaduto nel consolato saudita in Turchia. Qui la risposta è meno complessa: dollari, euro e criptovalute, termine che fa venire alla mente la kryptonite di supereroica memoria. La ricchezza, come quel minerale, può dare potere ma anche mettere in difficoltà chi non sa come gestirla. Il Covid ha vanificato l’investimento dell’Arabia saudita e del suo reggente nel vertice: non c’è stata la foto di gruppo, non ci sono state le strette di mano o le confidenze bilaterali. E nemmeno le gite organizzate per mostrare agli illustri ospiti quella piccola parte del mondo saudita – il comprensorio di Neom – che potrebbe assomigliare al nostro mondo e distrarre l’attenzione dei presenti (delegati e stampa di passaggio) da quanto c’è di negativo in quel paese.

Neom, la ridefinizione dello spazio e metafora dei futuri rapporti mediorientali

Negli anni Ottanta dello scorso secolo quando la repressione dell’Intifada dei palestinesi aveva riportato in primo piano la loro causa, una giornalista, con cinque passaporti in tasca tra cui quelli italiani e israeliani, mi disse con convinzione, temo, che sarebbe stato meglio non criticare Israele. Farlo, sosteneva, avrebbe soltanto messo in difficoltà coloro che in quel paese volevano la pace. Oggi la questione palestinese non fa notizia se non per qualche intrusione non certo costruttiva del presidente americano. Da tempo, ormai, poche sono le critiche pubbliche da parte dei paesi che contano. Eppure i palestinesi non sono più vicini ad avere una patria indipendente. E sbaglia, oggi, chi ritiene che non criticare l’Arabia saudita e il suo relativamente giovane riformatore, l’erede al trono Mohammad bin Salman (MbS), per l’assassinio di Khashoggi o per l’aumento delle violazioni dei diritti umani negli ultimi anni, sia l’unico modo per consentire al regno di uscire dal suo medioevo islamico.

Il G-20 saudita non si boicotta, né risolve…

Per questo, Human Rights Watch e molte altre organizzazioni internazionali e anche saudite avevano sollecitato i capi di stato degli altri paesi del G-20 di ridurre il livello della loro rappresentanza al vertice. O di utilizzare l’incontro virtuale per mandare molto più di un segnale di disappunto al regime. Il sodalizio comprende l’Unione europea e 19 paesi: Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Germania, Francia, India, Indonesia, Italia, Giappone, Messico, Russia, Arabia Saudita, Sudafrica, Corea del Sud, Turchia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molte realtà in comune; molte altre che li separano. Insieme, i membri del G20 rappresentano circa il 90 per cento del Pil mondiale, l’80 per cento del commercio mondiale e i due terzi della popolazione mondiale. E insieme, nel week-end di discorsi a distanza, non sono riusciti nemmeno a tirar fuori un impegno concreto – costo 28 miliardi di dollari – per garantire l’accesso al vaccino anti-Covid ai paesi poveri.

… investe in sogni di ricchezza…

Il presidente americano Trump, sempre sprezzante, ha parlato contro tutto e tutti e appena finito il solito intervento farneticante è andato a giocare a golf senza restare davanti al suo monitor per ascoltare gli altri interventi. Gli interessi economici sono il collante dei G-20 e il tema di fondo quest’anno era, giustamente, il fall-out economico del Covid. Con visioni divergenti e su come procedere di fronte a una delle crisi di crescita che vedrà i poveri diventare più poveri e molti ricchi diventare meno ricchi ci si poteva aspettare almeno una modesta donazione a favore dei più poveri se non altro per farli diventare Mercato utile alla crescita economica dei già ricchi. L’Arabia saudita punta alla modernizzazione e sta approfittando della crisi Covid. Cerca investitori e investe. Con i proventi del petrolio sta arraffando ciò che può nella speranza, secondo il piano dell’erede al trono, di arrivare al 2030 con un’economia non più sostenuta dai soli proventi del petrolio. Un progetto ambizioso che in tempi di magra piace alle economie avanzate in difficoltà. Persino le azioni dell’Eni hanno ripreso quota con la notizia che il fondo sovrano saudita ne ha acquistato un pacchetto.

… e in consumo di armi in Yemen

Abbiamo esaminato, recentemente, il peso del complesso militare-industriale americano sulla politica Usa. Purtroppo non è l’unica nazione del nostro mondo, diciamo “democratico”, a essere soggetta alle pressioni dei fabbricanti di armi. I paesi membri del G20 hanno venduto armi per più di 17 miliardi di dollari all’Arabia saudita da quando il regno è intervenuto nella guerra civile in Yemen. Una cifra di tre volte superiore agli aiuti umanitari forniti dagli stessi paesi ai trenta milioni di abitanti della più antica nazione della regione. Il disavanzo si allarga se si considera la vendita di armi e munizioni verso gli otto paesi che compongono la coalizione a guida saudita: il valore delle esportazioni sale a 31,7 miliardi di dollari.

I bombardamenti indiscriminati da parte saudita su ospedali, cliniche, pozzi e altre strutture civili sono stati condannati da molte organizzazioni internazionali e alla vigilia del vertice di Riad, l’organizzazione assistenziale Oxfam ha definito la politica dei paesi più ricchi del mondo “immorale e incoerente”.  Tra loro, sotto accusa c’è anche l’Italia. Giorni fa la Rete Italiana Pace e Disarmo, il Centro Europeo per i Diritti Costituzionali e Umani (Ecchr), e l’ong yemenita Mwatana per i Diritti Umani, hanno sottolineato in un evento online che il governo di Roma e i produttori italiani di armi potrebbero essere considerati corresponsabili dei crimini di guerra commessi nello Yemen esportando armi verso la coalizione militare guidata dall’Arabia saudita e dagli Emirati arabi uniti. Un anno fa, nel dicembre 2019, Amnesty International e numerose altre organizzazioni comprese quelle citate si rivolsero all’Ufficio del procuratore presso la Corte penale internazionale dell’Aja chiedendo un’indagine sulla responsabilità degli “attori aziendali e governativi in Italia, Germania, Francia, Spagna e Regno Unito”. La comunicazione descriveva ventisei attacchi aerei della coalizione saudita che, secondo le ricerche effettuate, potrebbero aver utilizzato bombe prodotte in Europa. L’Italia, come alcuni altri paesi europei, ha per ora bloccato le esportazioni dirette ai paesi belligeranti (anche se molti armamenti arrivano o arriveranno a loro attraverso paesi terzi). Nei primi mesi del 2020, gli attacchi aerei a guida saudita sono più che raddoppiati e le vittime civili della guerra sono aumentati vertiginosamente arrivando a oltre 20000 per gli oltre 64000 bombardamenti compiuti da quando la guerra cominciò nel 2015. Di fronte a questo quadro sempre più grave e deprimente, poche ore prima dell’inizio del vertice dei G-20, la International Rescue Committee, organizzazione non governativa con sede a Washington ha sollecitato Usa, Gran Bretagna e Francia a sospendere le loro vendite di armi alla coalizione saudita. Silenzio totale da parte dei paesi chiamati in causa.

L’abbraccio esiziale a Neom: MbS, Pompeo, Bibi

Con la scusa che l’Arabia saudita deve essere considerata una pedina importante per controllare “l’espansionismo iraniano” nella regione, l’anno scorso il presidente americano furbescamente ordinò la consegna di bombe e missili sofisticati a Riad per una cifra volutamente inferiore a quella che impone un’approvazione congressuale sulle vendite di armi. Giochi più volte ripetuti e più volte giustificati dalla Casa bianca (e sottoscritte dal parlamento) in quanto le vendite “creano lavoro” per gli americani. Nel 2017 Trump e i sauditi firmarono una lettera d’impegno per l’acquisto di armi per un valore di 110 miliardi di dollari subito e altri 350 miliardi di dollari entro dieci anni. Un accordo simile l’aveva firmato il deludente “premio Nobel per la pace” predecessore di Trump, Barack Obama.

Non sono soli i movimenti pacifisti a chiedersi cosa può fare l’Arabia saudita con tale quantità e qualità di armamenti se non garantirsi il sostegno dell’industria americana. Persino il Pentagono, nelle sue analisi, ammette che il regno dei Saud, poco popolato e con una maggioranza di sudditi poco incline a sostenere la famiglia reale, non sarebbe capace nonostante il suo arsenale crescente supersofisticato a vincere un confronto militare con un paese come l’Iraq, l’Iran o l’Egitto senza l’intervento diretto degli Stati Uniti. O di Israele. E a proposito della superpotenza mediorientale: mentre gli occhi dei rappresentanti del G20 erano più o meno concentrati sugli schermi che li collegavano, il premier israeliano, il capo del Mossad, Yossi Cohen e il bellicoso segretario di stato americano Mike Pompeo sono volati a Neom, la città del futuro – zona turistica e industriale – nel nord dell’Arabia saudita per il primo incontro ufficiale tra Netanyahu e Mohammed bin Salman. Non ci vuole molto per capire che si è trattato di un “consiglio di guerra”. Cosa fare prima dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca per mettere i bastoni tra le ruote del neoeletto?

Quali spuntati argini “democratici” alla deriva bellica?

Il leader democratico ha più volte parlato di modificare la politica americana impostata da Trump rispetto a Mohammed bin Salman e all’Arabia saudita nel suo insieme. E ha più volte insistito sulla necessità di riprendere appena possibile il dialogo sul nucleare con l’Iran che Trump aveva interrotto nonostante le esortazioni non solo di molti consiglieri americani ma anche dei partner europei. Nei giorni scorsi il “New York Times” aveva rivelato che subito dopo il voto Trump aveva sollecitato, senza successo, i suoi generali a mettere in piedi un attacco alle istallazioni nucleari iraniane. Sarà ora Israele a colpire? Pochi a Tel Aviv pensano che una massiccia azione militare contro Teheran sia imminente. L’altro tema di fondo è la “questione palestinese”. L’avvicinamento tra Israele e Arabia saudita è un dato di fatto ma è ancora re Salman, non MbS, a decidere fino a dove arrivare e ha appena ribadito, frenando l’entusiasmo di Netanyahu, che la normalizzazione delle relazioni tra i due paesi aspetta il momento in cui sarà annunciata la creazione di uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come sua capitale.

Israele e il suo premier hanno ottenuto molto da Trump ma nel commentare il vertice trilaterale a Neom, Joshua Teitelbaum, storico ed esperto di affari sauditi e dei paesi del Golfo all’università Bar-Ilan (destra religiosa) ha ricordato al premier che anche «con i democratici Israele ha molta influenza a Washington» ma non deve troppo schierarsi con i sauditi contro le eventuali azioni di Biden, noto da sempre come sostenitore di Israele.