“L’occhio del Buddha” e la Realpolitik di Aung San Suu Kyi

Massimo Morello
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«La spiegazione è semplice: la gente non dimentica» dice un vecchio amico che vive in Birmania da più di vent’anni, un uomo per tutte le stagioni. «La gente sta meglio e ha paura di perdere quel poco che ha guadagnato». La memoria di un passato prossimo vissuto nella paura e la percezione del cambiamento spiegherebbero il successo di Aung San Suu Kyi e della sua National League alle elezioni dell’8 novembre.

Una vittoria schiacciante per la Nld

I risultati vanno oltre il “landslide”, la valanga di voti, ottenuta nel 2015. La Nld ha conquistato l’83,2% dei voti di 37 milioni di votanti, aggiudicandosi 396 seggi su 476 nelle due Hluttaw (le camere). L’Usdp, lo Union Solidarity and Development Party, avatar civile di Tatmadaw, le forze armate, ha ottenuto solo il 6,9% dei voti: una “umiliante disfatta”, è la ricorrente definizione, che rischia di essere pagata a carissimo prezzo dai suoi leader. I militari conservano il 25% dei seggi in parlamento, come previsto dalla costituzione creata su misura nel 2008 che assicura loro l’effettivo mantenimento del potere, ma grazie a questo risultato la Nld può formare il nuovo governo e “nominare” il prossimo presidente.

«Un risultato comunque inatteso che dimostra che il popolo la ama e la segue. Rispetto alle precedenti elezioni, queste le conferiscono un vero mandato per il cambiamento. E sono la prova di discontinuità con il passato», commenta un diplomatico, uno di quelli che hanno cercato di far comprendere quanto la realtà locale fosse lontana dall’opinione pubblica occidentale.

«Secondo me ha vinto perché l’hanno vista all’Aja. Lei non ha difeso i militari, ha difeso la nazione» spiega un missionario che percorre le vie meno battute della Birmania, riferendosi all’intervento di Aung San Suu Kyi alla Corte Internazionale dell’Aia per opporsi alle accuse di genocidio nei confronti dei rohingya, l’ormai tragicamente famosa etnia musulmana. «Se la prima volta era entusiasmo, questa volta la vittoria è pensata. Lei rappresenta l’unità. E sono stati proprio i rohingya che hanno unito la nazione».

Burma: “hermit kingdom”

Bisogna ancora affidarsi a “voci” di personaggi che per lunga abitudine preferiscono restare anonimi, per sapere che cosa accade “inside Burma”, all’interno della Birmania, come si diceva sino a dieci anni fa. Allora il paese era un “hermit kingdom”, una nazione, come la Corea del Nord (che ne era uno dei maggiori sostenitori) autoisolata, metaforicamente e fisicamente, dal resto del mondo per proteggere un ordine autocratico. Allora la stessa denominazione del paese, Birmania versus Myanmar, era segno di una presa di posizione, dissidente nel primo caso, ufficiale o “collaborazionista” nel secondo. Allora le voci che arrivavano a noi erano messaggi trasmessi da dissidenti, reporter più o meno in incognito, informatori. E per trasmetterli era necessario un programma per bypassare i blocchi del governo.

Oggi il Myanmar (ormai il termine è divenuto politicamente accettabile, intercambiabile con Birmania) è nuovamente chiuso. Ma ora è per proteggersi da una pandemia che qui potrebbe avere conseguenze inimmaginabili. Se il Myanmar è sfuggito alla prima ondata, con 800 contagi alla fine di agosto, la seconda si è rivelata brutale, con oltre 85.000 casi e 1800 morti a fine novembre. Le notizie, tuttavia, continuano ad arrivare: via mail, consultando siti locali, tramite telefonate, Messenger, WhatsApp, Facebook. In alcuni casi le “voci” si confondono, sovrappongono, appaiono fake, raccontano oscuri complotti, citano altre voci o esprimono analisi geopolitiche.

Le Covid-elections

Tutte quelle voci, nel mattino italiano dell’8 novembre, quando le urne stavano per chiudersi in Birmania, parlavano di lunghissime code ai seggi aperti alle 6 locali, di «banchetti di cibo allestiti dai militari di fronte ai seggi, ma che la gente non mangiava», oppure dell’organizzazione dei seggi «dove erano fornite gratis mascherine N-95 e gel igienizzanti».

Le “Covid elections”, come definite da molti osservatori, hanno “dominato la psiche locale” per oltre un mese, dal giorno in cui Suu Kyi ha affermato che le elezioni «erano più importanti del Covid». Secondo i suoi oppositori, lo ha fatto per sfruttare la visibilità ottenuta con la gestione dell’emergenza. Ma è più probabile che l’abbia fatto perché i militari chiedevano un rinvio, in seguito a cui avrebbero potuto dichiarare lo stato d’emergenza – previsto dalla costituzione del 2008 – quindi sciogliere il parlamento e reclamare il potere in nome della salvezza nazionale.

In questa situazione le elezioni di domenica 8 novembre, si possono rivelare le più critiche e decisive per il futuro del paese proprio perché Aung San Suu Kyi ha ormai maturato quella Realpolitik che invece le ha fatto perdere il consenso dell’Occidente.

Un modello di normalizzazione

È una storia che comincia con le elezioni del 1990, le prime dopo quasi trent’anni di dittatura. Anche allora vinse la Nld, ma furono annullate dai militari anche per una forma d’ingenuità da parte di Aung San Suu Kyi e del suo partito, che aveva proposto un processo contro gli stessi generali. Da allora nemmeno il Nobel per la pace conferitole nel 1991 riuscì a proteggerla dagli arresti e dagli attentati.

«La Signora ha vissuto all’estero sino al 1988. Non conosceva il suo paese, non aveva esperienza politica» dice una delle “voci” che commentano le elezioni da Yangon. «Adesso sembra accettare il compromesso. Si metterà d’accordo con i giovani militari perché anche i militari non sono quelli di un tempo. Vogliono essere considerati un esercito di professionisti».

Con più sottigliezza politica (frutto di una lunga militanza nella sinistra democratica) è la stessa opinione della senatrice Albertina Soliani, Presidente dell’Associazione Amicizia Italia-Birmania e amica personale di Aung San Suu Kyi. «C’è bisogno di normalizzazione. Anche lei pensa a una nuova generazione di militari. Che si distacchino dalla politica in cambio di una legittimazione».

La storia si evolve con le prime elezioni semilibere del 2010, quando la Birmania sembra avviarsi sulla “road map” verso la democrazia. Anzi: “una democrazia fiorente nella disciplina”, come in molti paesi asiatici. Allora la National League di Aung San Suu Kyi, ancora icona di democrazia, rifiutò di partecipare. Nel 2015, invece, le elezioni furono vinte dalla Nld in un vero e proprio plebiscito. Il Myanmar apparve come una sorta di “modello” per tutto il Sud-est asiatico: un compromesso storico tra un partito democratico e popolare, i militari e le rappresentanze della miriade di etnie che si contendono larghe aree del paese.

L’Affair Rohingya

La crisi di questo modello è stata innescata proprio dal problema etnico, sommato alla questione rohingya. La crisi è stata esacerbata dall’atteggiamento dell’Occidente che ha giudicato e condannato “in remoto” (forse influenzata da lobby finanziarie islamiche) arrivando ad annunciare sanzioni che avrebbero effetti devastanti in un paese dove le milizie etniche sono veri e propri eserciti (come dimostra lo stesso Arakan Army, che si oppone al governo e condanna Aung San Suu Kyi giudicata “complice” dei rohingya). Non è un caso che l’Ashin (il Maestro) Wirathu, monaco ultranazionalista definito “il volto del terrore buddhista”, latitante da 18 mesi in quanto “fomentatore d’odio”, si sia costituito a pochi giorni dalle elezioni. Per sua ammissione, così poteva «chiamare il popolo a votare contro Aung San Suu Kyi e il ‘demone’ della National League for Democracy». Per alcuni dei suoi seguaci, Wirathu è un weikza, un mago. In questo caso però si è scontrato con una figura più forte, Amay Suu, Madre Suu, che incarna quello che è stato definito il “culto dell’eroe” diffuso in Birmania (e in tutta l’Asia, del resto, secondo gli studi di mitologia e religione comparata di Joseph Campbell).

Centinaia di rohingya passano il confine con il Bangladesh

Riconciliazione nazionale: un processo schizofrenico

I birmani, evidentemente, credono che la Signora sia la sola ad avere l’autorità politica e morale per evitare che il paese torni a essere una dittatura, realizzare la riforma costituzionale e sviluppare un’economia equa e solidale in un paese dove il 24% della popolazione vive sotto il livello di povertà. Obiettivi che dipendono da un processo di riconciliazione nazionale che procede in modo schizofrenico. È accaduto anche in queste elezioni, cancellate in molti distretti controllati da milizie etniche (negli stati Rakhine, Shan e Kachin). La decisione è stata presa per “ragioni di sicurezza” giustificate sia dagli scontri tra Tatmadaw e milizie, sia dagli appelli alla violenza di estremisti come Wirathu, e apparentemente ha ottenuto il solo risultato d’inasprire le tensioni. A differenza di quanto accaduto nel 2015, però, quando il governo eletto aveva peccato d’arroganza pensando che fosse sufficiente il sostegno della maggioranza d’etnia bamar, questa volta il portavoce della Nld ha immediatamente dichiarato la volontà di formare un governo d’unità nazionale con i partiti etnici.

A contestare il risultato delle elezioni è rimasto solo l’ex generale Than Htay, segretario dell’Usdp, che ha denunciato brogli d’ogni genere e, seguendo l’esempio di Trump, ha richiesto nuove elezioni. Peccato sia stato subito sconfessato dagli stessi militari, in particolare dal Comandante in Capo di Tatmadaw, il generale Min Aung Hlaing che ha dichiarato di accettare l’esito delle urne. A nulla è valso il supporto del segretario di stato americano Mike Pompeo, che è sembrato voler accomunare nell’ingiustizia Trump e Than Htay, senza rendersi conto di quanto potesse apparire grottesco.

Sia pure con motivazioni diverse, la vittoria della Nld appare malaccetta in gran parte dell’Occidente, dove sembra ci sia un rifiuto concettuale di ciò che hanno affermato tutte le nostre “voci” birmane: Aung San Suu Kyi è amata e gode della fiducia del suo popolo. Analisti e osservatori occidentali non cercano risposte bensì conferme alle loro opinioni. Nella maggior parte degli articoli sulle elezioni birmane la parola rohingya appare sin dalle prime righe, condizionando le analisi, piegandole alla tesi secondo cui l’utopia birmana incarnata da Aung San Suu Kyi sia mutata nell’ennesima manifestazione di dittatura.

Miscuglio febbrile

Sfugge così la complessità della situazione. «La Birmania somiglia a parti dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo: un miscuglio febbrile di nuove libertà e nuovi nazionalismi, capitalismo sfrenato, nuove ricchezze e nuova povertà, città e baraccopoli che spuntano come funghi, governi eletti, popoli esclusi e violente guerre di frontiera; uno specchio del passato, turbo-esasperato da Facebook e dalla vicina potenza ad alta industrializzazione, la Cina» scrive Thant Myint-U nel saggio L’altra storia della Birmania. Myint-U è lui stesso un “miscuglio”: storico, ex funzionario dell’Onu, nipote di quel Maha Thray Sithu U Thant che tra il 1961 e il 1971 fu segretario generale delle Nazioni Unite, nel 2011 ha iniziato a collaborare col governo come consigliere del presidente Thein Sein, ex generale che è il vero artefice della transizione verso la semidemocrazia. Nei suoi libri la Birmania è una metafora della geopolitica asiatica. È “L’occhio del Budda”, a indicare l’importanza strategica della Birmania nello scenario della regione che era definita Indocina, punto di unione e collisione delle grandi civiltà asiatiche.

Accordi e disaccordi: rotte e trattati

Oggi unione e collisione sono tra Cina e Stati Uniti. Anzi, tra Asia e Occidente. Negli ultimi anni i fronti sono divenuti ancor più fluidi: Occidente significa Stati Uniti e Unione Europea, Asia vuol dire Cina, India, Asean (l’associazione delle nazioni del Sudest asiatico) e Asia orientale (Giappone e Corea).

Il Myanmar firma il Regional Comprehensive Economic Partnership

«Entrambe le parti, Nld e militari, seguono una linea di bilanciamento fra le grandi potenze secondo la politica sancita con la conferenza di Bandung», afferma una delle “voci” di Yangon riferendosi alla conferenza del 1955 che segnò l’affermazione del movimento dei non-allineati. Ma nella geopolitica contemporanea appare sempre più difficile – specie per paesi come il Myanmar – sfuggire all’orbita della megastrategia cinese. Se ne è avuta rappresentazione una settimana dopo il voto, il 15 novembre, quando è stato siglato il Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) l’accordo economico-commerciale tra i 10 paesi dell’Asean plus Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. Il Rcep, oltre a creare il blocco commerciale e d’investimento più grande al mondo, si integra nei progetti della Belt Road Iniziative (Bri), le nuove vie della seta, e segna lo spostamento dell’Asean nella sfera d’influenza di Pechino. È un movimento di dimensione tettonica provocato anche dalla politica estera statunitense. Il presidente Trump, per marcare il distacco dal “pivot to Asia” di Obama, che affermava il ruolo strategico dell’Asia extracinese, e ribadire il suo “America First”, nel 2017 si è ritirato dalla Trans-Pacific Partnership, l’accordo di libero scambio tra gli Usa, il Canada e altri 10 paesi del Pacifico che sino ad allora si era rivelato il maggior ostacolo al progetto della Rcep. Ironia della sorte: il 17 novembre il presidente Xi Jinping ha annunciato la disponibilità ad aderire alla Tpp.

India: la grande esclusa

Oltre all’America, altro grande assente dal Rcep è l’India, preoccupata dallo strapotere cinese. Per questo, almeno in apparenza, affianca gli Stati Uniti nella strategia per «un Indo-Pacifico libero, aperto e inclusivo». In realtà è probabile che l’India, con Giappone e Corea del Sud, cerchi di bypassare i progetti cinesi di collegare Oceano Indiano e Pacifico Occidentale. Progetti che hanno il loro centro nell’occhio del Buddha, il porto birmano di Kyaukphyu, terminale che collegherebbe la baia del Bengala con la provincia dello Yunnan e da là, seguendo uno dei corridoi delle vie della seta, con il Mar della Cina Orientale. Non a caso l’India si è rivelata ben più proattiva dell’America, “regalando” al Myanmar un sottomarino. «I militari adorano questi giocattoli e non amano troppo la dipendenza dalla Cina» aggiunge la “voce” da Yangon appassionata di questo risiko.

«Dopo le elezioni dovrebbe aprirsi una nuova stagione di partnership», dice la Soliani. Ma si riferisce a quelle americane. La senatrice, infatti, afferma che il presidente eletto Joe Biden avrebbe stabilito un rapporto personale con Aung San Suu Kyi sin dal 2016, quando era vicepresidente e incontrò la Signora a Washington, un anno dopo la visita di Obama a Yangon. Secondo la Soliani, inoltre, Suu Kyi e la nuova vicepresidente Kamala Harris sono accomunate dall’influenza del pensiero di Gandhi.

Il piano di rilancio economico

Biden ha già manifestato attenzione verso l’Asean e annunciato un piano di commercio internazionale che potrebbe contrastare la Rcep, ma sembra difficile che in Birmania se ne possano avvertire le conseguenze nel breve termine. Più probabile che la combinazione di un presidente americano attento al Sudest asiatico e l’eclatante vittoria della Nld possano invertire la tendenza di Stati Uniti e Unione Europea nei confronti di una nazione criminalizzata ma che invece esprime un percorso democratico più avanzato rispetto a molti paesi dell’area. È anche grazie al rafforzamento della Nld, inoltre, che il governo del Myanmar sta per lanciare un ambizioso piano di riforme economiche, il Myanmar Economic Resilience and Reform Plan (Merrp).

La Birmania come Singapore?

«Tutti sognano Singapore. Aung San Suu Kyi potrebbe essere come Lee Kuan Yew», dice un vecchio amico di Yangon che dimostra una fiducia totale nella Signora, tanto da paragonarla al demiurgo della città-stato. E per sottolineare quanto la Birmania stia mutando su quel modello fa un’osservazione bizzarra ma significativa riferendosi alle chiazze gialle delle cicche di betel (impasto euforizzante di noce d’areca, foglie di betel e calce) che disseminavano le strade di Yangon e di tutta la Birmania. «Per terra non c’è uno sputo di betel».