La geopolitica di Sedat Peker. 1: la vendetta corre sul video
Inauguriamo la serie di interventi a cura di Murat Cinar sulle videorivelazioni di Sedat Peker: in questo primo articolo si è cercato di inquadrare il personaggio, il contesto in cui è cresciuto il suo potere, fondato soprattutto sui tanti dossier che ha potuto crearsi nel tempo di aderenza con tutti i gangli del potere dell’Akp. La palude che ha permesso si creasse una rete di collusioni tra organizzazioni mafiose, traffici d’armi e droghe e il sistema di potere, i partiti della destra nazionalista, il clan del presidente della repubblica turca sono fotografati attraverso le inquadrature dei video scaricati in rete dagli Emirates: un terremoto per la comunità turca in attesa come noi del prossimo video che può gettare luce sulla Storia della Turchia (e dell’area mediterranea) – o spargere bocconi avvelenati.
Il prossimo articolo di questa serie racconterà la svolta improvvisamente geopolitica del nono appuntamento con il mafioso, il cui canovaccio improvvisamente è stato stravolto per accuse di complotti internazionali da smentire e quindi… Peker da consumata volpe del palcoscenico, anziché rivolgersi al presidente come previsto, annuncia rivelazioni riguardanti intrecci con l’India di Modi, il bancomat qatariota, ma soprattutto la tragedia siriana completerà le conclusioni più squisitamente geopolitiche che emergono dalla serie di Peker; e sullo sfondo la relazione tra la Turchia di Erdoğan e la Russia di Putin nell’ultimo decennio, ma anche le altre vicende mediorientali, mediterranee e globali scoperchiate dal mafioso che sapeva troppo. Nel terzo articolo invece si affronterà la maniera in cui il governo centrale ha approfittato dell’occasione per colpire la stampa indipendente e i partiti dell’opposizione. E infine, nel quarto intervento troverà spazio la vicenda di tre giornalisti la cui uccisione avvenne agli inizi della carriera del mafioso al servizio del regime e che trovano spazio nelle videorivelazioni; i video di Peker hanno influenzato l’andamento dei processi per la loro morte.
Sedat Peker, personaggio di spicco del movimento panturchista, accusato di appartenere al mondo della criminalità organizzata e attualmente in esilio negli Emirati Arabi Uniti, da più di un mese pubblica dei lunghi videomonologhi svelando una serie di informazioni su diversi personaggi appartenenti all’attuale governo e al mondo della burocrazia e imprenditoria.
A oggi sono otto i video pubblicati da Peker. Girati con il cellulare, durano poco più di un’ora e la loro realizzazione avviene nella sala di un appartamento lussuoso. Il linguaggio di Peker è diretto e chiaro, parla facendo nomi e cognomi, date e luoghi; illustra una serie di relazioni complicate e importanti. In questi video anche se spesso risulta pacato, calmo e composto è evidente che Peker sia arrabbiato e abbia deciso d’intraprendere questa strada per vendetta.
Chi è Sedat Peker?
Nato a Sakarya nel 1971, Peker ha cominciato a farsi notare già durante il suo primo processo negli anni Novanta in cui veniva accusato di aver fondato un’organizzazione criminale illegale perseguita per «estorsione, sequestro di persona e istigazione all’omicidio».
Nel 1997 Peker è stato assolto dall’omicidio di Abdullah Topçu, accusato di essere un contrabbandiere nella città di Rize; tuttavia le due persone che sono state processate con Peker sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio di Topçu.
In quel periodo era fuggito in Romania, ma fu riportato in Turchia nel mese di agosto del 1998; nuovamente processato e assolto nel maggio successivo, contro di lui erano ascritti molteplici reati. In quel frangente rimase in carcere per otto mesi.
Verso la fine del 1999, in un’intervista rilasciata al quotidiano nazionale “Milliyet”, Sedat Peker, si descriveva come un «panturchista e turanista» e si difendeva dalle accuse a lui rivolte dicendo che stava «cercando di ottenere i soldi che gli spettavano, ma andando oltre i limiti delle relazioni civili».
Pochi anni dopo, nel 2005, Peker è stato arrestato di nuovo, nell’ambito dell’operazione Kelebek (Farfalla) a Istanbul, a seguito delle operazioni ad ampio raggio contro le organizzazioni della criminalità organizzata. È stato condannato a 14 anni di galera e in un altro processo, in cui era stato accusato di «fondare un’organizzazione armataı, era stato condannato a 1 anno di reclusione.
Ergenekon: il “tentato colpo di stato non armato”
Il nome di Sedat Peker è apparso anche nel maxiprocesso Ergenekon. Un processo che segnò un periodo particolare della storia della repubblica di Turchia. Era l’inizio della carriera del partito al governo, Partito dello Sviluppo e della Giustizia (Akp). L’attuale presidente della repubblica, Recep Tayyip Erdoğan, allora primo ministro, si definì come il “procuratore simbolico di questo processo”. In questo caso fu coinvolto anche Peker e fu condannato a 10 anni di reclusione.
L’Ergenekon, mentre identificava una serie di personaggi dell’esercito, dei servizi segreti e del mondo della criminalità organizzata con le mani piene di sangue, pian piano diventava anche una scusa per arrestare e zittire tutte le voci dell’opposizione; giornalisti, avvocati, politici, sindacalisti, insegnanti e studenti. Il maxiprocesso Ergenekon, dopo il fallito golpe del 2016 è stato definito come un «tentativo di colpo di stato non armato» dal governo attuale, tutti gli imputati sono stati assolti e quei giudici, procuratori e poliziotti che si erano impegnati in questo maxiprocesso sono stati arrestati, processati, sospesi oppure obbligati a lasciare la Turchia. Peker, condannato in questo processo, fu scarcerato nel 2014 grazie a una riforma legislativa, senza condizioni.
Peker, sostegno incondizionato a Erdoğan
Negli anni successivi alla sua scarcerazione i legami tra Peker e Akp, ma particolarmente con il presidente della repubblica, sono diventati sempre più stretti. In svariate occasioni Peker, pubblicamente, ha espresso la sua ammirazione per il presidente e il suo sostegno incondizionato per l’Akp e per il suo alleato, Partito del Movimento nazionalista.
Pochi giorni prima delle storiche e discutibili elezioni generali del 1° novembre 2015, Sedat Peker svolse un comizio pubblico nella città natale del presidente della repubblica, ossia a Rize, lungo la costa del Mar Nero. In quest’occasione espresse il suo pieno appoggio a Recep Tayyip Erdoğan. Si trattava di una manifestazione organizzata per “condannare il terrorismo”, in quest’occasione Peker promise al pubblico convenuto, circa 2000 persone, che per far pagare il conto amaro ai “terroristi” era disposto a “far spargere sangue loro”.
In pieno conflitto tra le forze dello stato e le guerriglie del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), nel 2016, più di mille accademici firmarono un “appello per la pace” invitando tutte le due parti a cessare il fuoco e aprire il dialogo e per questo i firmatari furono denunciati, processati, arrestati, linciati mediaticamente e politicamente e – alcuni – obbligati a lasciare il paese. In quei giorni salì sul palco di nuovo Peker e attraverso un comunicato stampa minacciò gli accademici firmatari con queste parole:
«Verseremo il vostro sangue e in questo lago faremo il bagno».
Minacce e repressione = libertà di espressione
Dopo queste dichiarazioni, Peker fu oggetto di dure proteste dai partiti dell’opposizione e di diverse associazioni non governative e presso il 20° tribunale penale di primo grado di Istanbul si aprì un’inchiesta. Tuttavia le parole di Peker vennero valutate nell’ambito della “libertà di espressione” e fu dunque assolto.
Sedat Peker è apparso nel primo anniversario del fallito golpe del 2016. Nel quartiere di Üsküdar a Istanbul, in un comizio pubblico, nel 2017, prese la parola e, riferendosi ai presunti golpisti arrestati, parlò così: «Li impiccheremo anche dentro le prigioni». Peker denunciato e indagato è stato assolto un anno dopo.
La fuga, senza ritorno
La vita da latitante di questo soggetto inizia nel 2020. Un anno fa lascia la Turchia e decide di stabilirsi nei “Balcani”. A sua detta la decisione nasce da motivi di lavoro e studio. Tuttavia da quel momento in poi per Peker inizia un viaggio senza ritorno.
Pochi mesi dopo, grazie all’indulto introdotto dal governo in piena pandemia, viene scarcerato un altro personaggio del movimento ultranazionalista e del mondo della criminalità organizzata, Alaattin Çakici. Da quel momento in poi nasce un battibecco via internet tra Çakici e Peker e questo fatto si trasforma in un vero conflitto pubblico. Tutto ciò, facilmente, viene definito come l’inizio di una guerra tra due forze contrapposte sia nel movimento ultranazionalista turco sia nel mondo della criminalità organizzata.
Mentre Peker viveva all’estero da latitante, Çakici era libero in Turchia, scriveva lettere di elogio al presidente della repubblica e incontrava il leader del Partito del Movimento nazionalista.
Era evidente che quel disegno politico e economico che strangola il paese da circa 20 anni aveva deciso ormai di scartare un suo “sicario” e tenere buono l’altro.
La vendetta di Peker
Il primo video di Sedat Peker in realtà è stato lanciato a maggio 2020, quando risiedeva in Montenegro. In questo video Peker prendeva di mira il genero del presidente della repubblica, Berat Albayrak ovvero l’ex ministro dell’Energia e poi del Tesoro.
Secondo Peker, era proprio Albayrak ad avere in testa l’obiettivo di “farlo fuori”. Peker accusava Albayrak di lavorare con la magistratura e con i media per preparare un fascicolo pieno di “prove false”, nonché di adottare i “metodi dei gulenisti”, ossia quella realtà politica, economica e religiosa accusata di essere l’ideatrice ed esecutrice del fallito golpe del 2016.
Nella puntata iniziale, Peker sottolineava che il motivo principale del suo viaggio era proprio quello di non cadere in una “trappola”. Secondo Peker questo “complotto” organizzato ai suoi danni è stato confermato da numerosi suoi conoscenti. Peker assunse un atteggiamento aggressivo dichiarando guerra a coloro che lo volevano far fuori.
Anche se in questo primo video annunciava che ne avrebbe trasmessi altri, in realtà questo fatto non avviene e, anzi, pochi giorni dopo ne pubblica uno per chiedere scusa ad Albayrak, allora ancora potente e ministro del Tesoro.
Novembre 2020: Berat Albayrak si dimette dal suo ruolo di ministro del Tesoro con un post sul suo account ufficiale Instagram; da quel momento in poi il genero del presidente della repubblica non è più stato visto da nessuna parte.
L’inizio di una vera telenovela
La serie di videomessaggi che ormai da più di un mese occupa la quotidianità della Turchia hanno avuto inizio il 2 maggio del 2021.
A oggi, 2 giugno 2021, sono stati 8 in totale e molto probabilmente ne seguiranno molti altri. Il canale YouTube di Sedat Peker ormai ha circa 1 milione di iscritti e continua la sua crescita esponenziale. I suoi video sono seguitissimi, infatti ogni singolo video riceve almeno 6 milioni di visualizzazioni, alcuni addirittura 20 milioni.
Ogni giorno diversi canali televisivi e web trasmettono in diretta o meno, varie analisi sui messaggi lanciati da Peker. I social media, utilizzati molto bene e frequentemente da Peker, sono pieni di hashtag e messaggi su di lui e sui suoi video. La nuova app di discussione audio, ClubHouse, tutti i giorni ospita diverse stanze dedicate a questo tema (la Turchia, come per altri social media, risulta il quarto paese al mondo per utilizzo di questa nuova chat audio).
Dunque è palese che Peker in poco tempo si è collocato al centro dell’attenzione nel paese, arrivando anche a scatenare forme di fanatismo come quello che emerge in questo video di rapper francesi di seconda generazione algerina.
Inoltre le persone chiamate in causa e accusate da Peker, dopo ogni suo video e tweet prendono la parola e si sentono in obbligo di rilasciare una dichiarazione o si profondono in smentite, o lanciano nuove dichiarazioni che rimandano al passato più oscuro e controverso del paese.
Se le dichiarazioni di Peker fossero state fatte da giornalisti, senza ombra di dubbio la magistratura avrebbe preso immediate contromisure per denunciarli. Molto probabilmente questi sarebbero stati presi di mira dai media succubi del governo centrale e da diversi ministri dell’attuale governo. Tuttavia, è evidente che le accuse forti, nette e chiare di Peker in qualche maniera coinvolgono gli interessati e questi le prendono sul serio.
Chi finisce nel mirino di Peker?
Se c’è qualcuno a cui Peker ha deciso di dichiarare guerra è senz’altro prima di tutti l’attuale ministro degli Interni, Suleyman Soylu. Nei suoi video Peker lo accusa di tradimento. Nel racconto di Peker in aprile Soylu gli avrebbe garantito un rientro sicuro in Turchia. Infatti proprio in quel mese la polizia ha effettuato un’operazione capillare presso 121 diverse abitazioni in 5 città della Turchia. Tra le case a cui ha “bussato” la polizia c’era anche quella di Peker. Questo episodio è stato quello che ha fatto saltare il tappo (e i nervi al nostro eroe mafioso). Infatti nei suoi primi video Peker aggredisce verbalmente Soylu soprattutto per via del comportamento che i poliziotti hanno assunto nei confronti delle sue figlie e di sua moglie durante l’irruzione nella sua abitazione.
Ovviamente anche in Turchia la polizia è direttamente collegata al ministero degli Interni.
Nei video vengono esposte anche le altre eventuali motivazioni che hanno provocato la rabbia del boss mafioso contro Soylu. Secondo Peker, l’attuale ministro degli Interni deve a lui la sua carriera politica. Molto probabilmente è questo il motivo per cui si sente ancora un’altra volta “tradito”.
Secondo i dettagli-bomba sganciati da Peker sembra che durante la sua latitanza all’estero sia stato proprio Soylu a fornirgli protezione armata e varie soluzioni.
Nei confronti di Suleyman Soylu, Peker lancia numerose accuse, ma tra queste c’è un elemento che lo collega ad altri personaggi: i narcotrafficanti. Secondo Peker ormai la Turchia è diventata uno degli snodi più importanti al mondo del traffico di stupefacenti provenienti dalla Colombia e dal Venezuela.
Il giro della droga effettuerebbe secondo lui una tappa importante in Italia, per poi passare dalla Turchia con l’intento di arrivare alla destinazione finale che sarebbe la Siria.
Dal racconto di Peker in questa logistica sarebbe coinvolto in modo attivo l’ex ministro degli Interni Mehmet Ağar. Un altro sulfureo personaggio della storia della repubblica di Turchia. Il nome di Ağar è diventato famoso per due motivi principali negli anni Novanta. Prima di tutto con lo scandalo di Susurluk. Si tratta di un incidente stradale che ha scoperchiato la stretta relazione tra alcuni membri del governo dell’epoca, le forze dell’ordine, i lupi grigi e la criminalità organizzata. Dopo lo scandalo del 1996, Ağar si dimise. Successivamente fu condannato nel 2011 a 5 anni di reclusione per via dei suoi legami con la criminalità organizzata.
Il secondo punto che rende Ağar famoso è il maxiprocesso in cui è accusato di avere partecipato all’organizzazione della scomparsa e uccisione di 19 persone negli anni Novanta. Anche se in primo grado Ağar era stato assolto, nel maggio del 2021 uno dei tribunali penali di Ankara ha deciso di riaprire i fascicoli.
Un’altra persona che finisce nel mirino di Peker è Erkam Yıldırım ossia il figlio dell’ex primo ministro, Binali Yıldırım. Secondo Peker, il giovane Yıldırım sarebbe il tramite che teneva i contatti con i narcotrafficanti venezuelani per disegnare la nuova rotta per il trasporto della droga verso la Turchia. Anche se risulta che Yıldırım sia stato – in piena pandemia! – in Venezuela, proprio nelle date che Peker specifica nei suoi video, suo padre ha smentito l’accusa dicendo che suo figlio era lì per portare degli aiuti medici alla popolazione locale. Tuttavia, finora non risulta che sia avvenuto un trasporto di prodotti sanitari in quel periodo dalla Turchia verso la Venezuela.
Nei suoi video Peker parla anche di due giornalisti assassinati: Uğur Mumcu, ucciso nel 1993, e Kutlu Adalı, ammazzato nel 1996.
Due voci di opposizione e due giornalisti che hanno indagato sul rapporto tra i narcotrafficanti, lo stato turco e le guerriglie. Inoltre, particolarmente Mumcu lavorò anche sul traffico delle armi e sulla presenza massiccia dei paramilitari religiosi presenti in Turchia. Due casi ancora non chiariti definitivamente e per entrambi, secondo l’opinione pubblica, molto probabilmente c’è, in parte, anche lo zampino dello stato.
Come tutti, anche il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha deciso di rispondere alle accuse di Peker, prendendo due volte la parola per diverse ore in diretta tv.
Tra le sue parole, anche Soylu ha pronunciato il nome di un giornalista assassinato, Hrant Dink, nel 2007. Secondo Soylu, stavolta sarebbe Peker coinvolto – direttamente o meno – nell’assassinio del giornalista.
Ascolta “La sulfurea serie di videorivelazioni di Sedat Peker” su Spreaker.
Cosa ci aspetta?
Ovviamente sorge spontanea una domanda: “Perché parla ora Peker?”. Anche se in parte si è cercato di rispondere in questo articolo che avete appena finito di leggere, si tratta di una domanda che merita una risposta ancora più dettagliata. Però sarà probabilmente Peker stesso a darci una risposta adeguata, dato che, questa domenica, 6 giugno, uscirà il suo nono video e in questo si rivolgerà soltanto e direttamente a Recep Tayyip Erdoğan, che finora ha fatto delle dichiarazioni con toni pacati e ha difeso (dopo aver atteso a lungo), i suoi alleati e i suoi ministri.