La guerra non ha il congiuntivo, ma l’economia sì
Dichiarata la guerra il suo banale corredo è intriso di propaganda, retorica, ostentazioni scontate e risapute ipocrisie; strategie e dichiarazioni, video reali e manipolati su cui dibattere vanamente costellano la cronaca… Tutto questo orrore è consueto e si riassume nella parola “guerra”. Ormai è in corso e dovrà arrivare al fondo, che sia un Blitzkrieg, una “operazione speciale”, o un impantanamento di un poderoso esercito; una resistenza determinata, motivata o preparata… seguirà il suo corso e avrà sul campo una delle due o tre potenziali soluzioni. Quella cronaca diventerà storia, come le stragi di civili, i massacri di comunità, le distruzioni di case e mezzi bellici; la frustrazione, le defezioni e gli arruolamenti di mercenari e l’esaltazione della truppa: sentimenti da gestire per evitare spiacevoli “effetti collaterali”.
I morti ne sono ovvio corollario.
La precognizione di quale potrà essere il coinvolgimento del mondo si avvicina maggiormente all’approfondimento a un livello più elevato di uno squallido salotto televisivo. Cinicamente la geopolitica considera nella sua contabilità questi dati comuni a tutte le guerre e li fa interagire: ciò che interessa all’analista geopolitico è la trasformazione socio-economica dopo una guerra che coinvolge potenze di questo livello. Come si svilupperà l’esistenza in tempo di guerra e quale sarà la ricaduta sull’economia mondiale? tariffe del grano e bollette energetiche, approvvigionamento e reti di distribuzione… fame e freddo. Le svolte imposte da una guerra di queste proporzioni all’economia neoliberista imperante da 30 anni potrebbero far deragliare il libero mercato e dunque lo scenario che si comincia ad aprire è quello dello statalismo: non incentrato sul welfare ma quello bellico, fatto di riarmo e interventismo monetarista, di autarchia e di stretto controllo da parte del potere di ogni aspetto macroeconomico: centralizzazione del controllo dell’energia e sua nazionalizzazione.
Fin qui la sintesi di OGzero dopo le sollecitazioni di questo nuovo articolo di Yurii Colombo che state per leggere
Sindromi propagandistiche e stalli reali
I sondaggi d’opinione in Russia (per quanto possano valere quelli in tempi di “operazioni speciali”) sostengono che la popolarità di Putin sia aumentata dall’inizio del conflitto. Non deve stupire. Il rublo si è in parte ripreso, le sanzioni inizieranno a farsi sentire tra qualche mese e il nazionalismo russo nelle “ore supreme” è storia nota. L’annuncio di Putin poi di voler chiedere in cambio del gas e del petrolio ai paesi “non amici” il pagamento in rubli ha inorgoglito i russi anche se poi continueranno a ricevere i soliti euro e dollari anche nel futuro. La dedollarizzazione di parte delle transazioni internazionali era già stata fatta baluginare dal presidente russo ai tempi dei Brics, ma continuerà ad avere un difficile decollo se non diventerà un’arma di Pechino.
Del resto le truculente interferenze di Joe Biden hanno aiutato il Cremlino a fornire un’immagine alla propria opinione pubblica da “cittadella assediata”, in cui l’aggressore tenta di dimostrare contro ogni evidenza di essere l’aggredito. Le stesse campagne di russofobia che qua e la sono emerse in tutto l’Occidente hanno dato la possibilità a Dmitry Peskov, il portavoce ufficiale di Putin, di sostenere di «essere di fronte a campagne simili a quelle dei nazisti quando bruciavano i libri negli anni Trenta». Anche misure come quelle assunte dalla società farmaceutica tedesca Miltenyi Biotec, un produttore di attrezzature e materiali per la terapia cellulare, che ha smesso di fornirle alla Russia a causa del conflitto, producendo un (giusto) sdegno tra la popolazione visto che non si tratta di sanzioni che colpiscono oligarchi, funzionari, personale militare o aziende, ma invece negano il diritto alla salute dei malati anche se si tratta, secondo gli esperti, di terapie a cui sono sottoposti pochissimi pazienti. Tuttavia, ci sono altre forme di assistenza medica in cui la Russia è criticamente dipendente dalle attrezzature importate. In Russia circa 50.000 persone sono sottoposte a emodialisi su base permanente e in totale circa 1 milione di persone hanno bisogno di una terapia sostitutiva in un modo o nell’altro. Sanzioni in questo o altri settori sanitari alla Russia potrebbe portare al collasso della catena di assistenza medica per coloro che hanno bisogno di tali cure e mettere decine di migliaia di persone a rischio della vita.
Risultati dell’insoddisfacente riuscita della “spezial operazy”
La sconfitta politica di Putin è però ormai nelle cose. A 40 giorni dall’inizio dell’ostilità l’esercito russo non ha conquistato alcuna grande città e i segnali di demoralizzazione e di frustrazione da parte delle truppe (che probabilmente sono all’origine del massacro di Bucha) che a parti invertite si erano colte nel conflitto nel Donbass del 2014. In queste ore si stanno moltiplicando tra le truppe russe i casi di diserzione individuale e di massa. Il più clamoroso è quello portato alla luce (e poi confermato il 5 aprile ufficialmente) dal blogger osseto Alik Pukhaev secondo il quale trecento militari dell’Ossetia del Sud hanno rifiutato volontariamente di combattere in Ucraina e sono tornati a casa:
«Circa 300 militari (per lo più di etnia osseta) della base militare russa sono tornati nell’Ossetia del Sud di loro spontanea volontà», ha scritto sulla sua pagina Twitter il giornalista perché erano stati chiamati ad un’azione kamikaze contro le truppe nemiche.
Il rifiuto di fare da carne da cannone è stato segnalato anche tra settori dell’esercito occupante a Melitopol’ e a Sumy.
Che ormai la voglia di combattere dei russi sia scarsa è confermato anche da altre segnalazioni. Già da giorni circolano video e foto in internet in cui si viene a sapere che nella zona di Irkutsk vengono richiamati i riservisti mentre a Norilsk per i maschi di 18-35 anni che decidono di arruolarsi nella “Campagna Z” l’esercito promette ai volontari oltre a uno stipendio di 60.000 rubli, un’abitazione, vacanze pagate, il pensionamento dopo 10 anni.
Escalation in Vietnam, эскалация se declinato in Ucraina
Il bluff dei “rublocarburi” (mossa per evitare la fuga di capitali non solo degli oligarchi) potrebbe aprire però la strada a uno scenario “Blitzkrieg2”: ovvero a un nuovo tentativo di dare l’assalto a Kiev e tentare lo sbarco a Odessa.
Secondo Boris Kagarlitsky (@B_Kagarlitsky) «il Cremlino ha bisogno di ottenere qualcosa in campo di battaglia prima che l’economia crolli per tornare a trattare da una posizione di forza».
Ma anche questa sarebbe poco più di un’illusione Nella vita è impossibile rigiocare all’infinito una partita ormai persa. Sarebbe la soluzione peggiore, perché l’Orso ferito potrebbe perfino tentare nuove avventure militare nei paesi limitrofi.
Il conflitto di per sé sembra giunto a un punto di stallo o perlomeno di reload. Le estenuanti trattative tra le due delegazioni proseguono stancamente e per ora hanno prodotto un solo anche se significativo risultato. L’Ucraina avrebbe accettato nel futuro di diventare uno “stato neutrale” (se in versione austriaca o finlandese è ancora tutto da vedere) e di rinunciare definitivamente all’ingresso nella Nato. Il gruppo dirigente di Zelensky, del resto, si è scottato con le troppe promesse degli alleati occidentali che hanno trasformato il paese slavo solo in una piazza d’armi rivolta contro la Russia e immagina un futuro di Kiev a cavallo tra Bruxelles, Ankara e chissà magari Mosca, se nel futuro ci saranno dei cambiamenti significativi – per ora non immaginabili – al Cremlino.
“спецоперация” suona più minacciosa di “война”
Per il resto le posizioni restano distantissime. Mosca non ha ottenuto la “demilitarizzazione e denazificazione” (ovvero il cambio di regime) e difficilmente può immaginare l’occupazione dell’intera Ucraina e punta probabilmente al pieno controllo del Donbass ed eventualmente ad alcune aree del sud. In altissimo mare resta invece la questione del riconoscimento della Crimea e del Donbass da parte dell’Ucraina dove Zelensky avrebbe enormi difficoltà a far digerire un’amputazione così importante del territorio a un popolo in armi e che appare ancora fortemente motivato a battersi sul campo.
La “pace armata” e un eventuale cessate il fuoco con l’invio di forze di interposizione potrebbero apparire all’orizzonte delle trattative nel prossimo futuro ma anche l’ipotesi di una guerra a bassa intensità di lunga durata potrebbe anch’esso diventare lo scenario del futuro dell’area. La Russia non può bloccare una parte del proprio esercito professionale a lungo nell’area o permettersi un’occupazione e l’Ucraina prima o poi dovrà far ripartire la propria economia: sono questi gli elementi che potrebbero imporre a entrambi i contendenti un ammorbidimento delle rispettive posizioni.
Sullo sfondo si colloca la “guerra fredda 2.0” tra Russia e Occidente che rischia di far impallidire quella del Novecento.
La Federazione dovrà ripensare per forza non solo il proprio orizzonte strategico che ne aveva fatto un paese “semi-periferico” votato all’esportazione di materie prime con massicce importazioni di prodotti finiti. Il ritorno a un’economia che ricordi vagamente l’autarchia sovietica è simbolicamente già iniziato con la sostituzione a Mosca dei McDonalds con la nuovissima (ma assai simile) catena russa “Дядя Ваня” [Zio Vania] e sta alimentando un dibattito a più ampio raggio.
Yurii Colombo sta girando la penisola per incontrare chi è curioso di sentire un punto di vista diverso da quello dei salotti televisivi sulla crisi ucraina; questa chiacchierata con alcuni redattori di Radio Blackout è stata registrata il 7 aprile dopo un incontro organizzato dal Centro di Documentazione Porfido di Torino presso l’Edera Squat.
Svolte antiliberiste: il volano statalista dell’economia bellica
«La crisi al vertice…»
Su “Kommersant” – il quotidiano della Confindustria russa – è apparso un lungo saggio di Dmitry Skrypnik studioso di economia e matematica dell’Accademia russa delle scienze di Mosca. Secondo Skrypnik la cosiddetta politica di stabilizzazione macroeconomica che ha segnato tutta l’era putiniana, che consisteva nell’accumulare riserve auree ingenti «avrebbe potuto essere giustificata solo in un caso: se il suo scopo fosse stato quello di sottovalutare il rublo come elemento di una politica industriale mirata alla sostituzione delle importazioni e alla conseguente crescita orientata alle esportazioni».
Invece «l’economia ha continuato a rimanere indietro in tutti questi decenni e a deteriorarsi in molte aree, e la crescita economica è stata inaccettabilmente bassa. La storia, come sapete, non ha il congiuntivo, ma l’economia sì. La scienza economica ha ricette per lo sviluppo in un ambiente di alta corruzione, clientelismo e un sistema giudiziario debole, quindi i tentativi da parte delle autorità economiche e di alcuni esperti di assolvere se stessi dalla responsabilità attribuendo tutti i problemi ai servizi di sicurezza e al sistema giudiziario non dovrebbero essere presi in considerazione. E il fatto che le sanzioni sembrano ora in grado di privare la Russia di questi beni e tecnologie è una conseguenza delle politiche economiche sbagliate degli ultimi 30 anni».
… a Est…
Una disamina impietosa dello stato della Russia in cui non ci sarebbero soluzioni semplicistiche e neppure grandi possibilità per un arroccamento ormai impossibile nel quadro delle dimensioni della globalizzazione. Per lo studioso ci si dovrebbe invece muovere «contemporaneamente lungo l’intera catena del valore, e non solo modificarne il singolo elemento dove lo stato dovrebbe mirare a coordinare i produttori nella fase di creazione della produzione, seguita dalla creazione della concorrenza e dall’entrata delle imprese nel libero mercato. Se questi obiettivi non vengono raggiunti entro un certo periodo di tempo limitato, i relativi progetti dovrebbero essere gradualmente abbandonati».
… e a Ovest
Si tratta di un dibattito che sta attraversando – per altri versi – anche l’occidente dove già a partire dalla crisi del Covid-19 ha rilanciato il ruolo dello stato e dei governi in chiave non solo regolatrice ma interventista anche con la ripresa in grande stile del deficit-spending militarista che mette in discussione sin dalle radici il modello neoliberale. Una svolta non per forza di sinistra, anzi, che si alimenterebbe di russofobia e di un ulteriore rafforzamento della Nato (la Georgia ha già annunciato di non voler deflettere dal suo intento di voler entrare a far parte dell’Alleanza Atlantica nei prossimi anni).
Sono volani che potrebbero produrre dei giganteschi profitti per tutte le aziende legate alla Difesa e al loro indotto che però lasciano dietro di sé le solite vittime predestinate.
Fame e stagflazione alimenteranno proteste?
La guerra, stima la Banca Mondiale, produrrà una riduzione del Prodotto interno lordo ucraino quest’anno di oltre il 20% riportando il paese ben sotto i livelli di vita sovietici. Fame, morte, migrazioni di massa sono già diventate la quotidianità di milioni di ucraini. In Russia le sanzioni comminate dall’Occidente hanno fatto esplodere l’inflazione che si attesterà sicuramente alle due cifre mentre milioni di russi inizieranno a conoscere l’indigesto cocktail della stagflazione (il Pil russo dovrebbe calare del 10%).
In questo quadro, tra qualche mese, con l’arrivo dell’autunno i “fronti interni” potrebbero riaprirsi improvvisamente. Non bisogna dimenticare che l’Ucraina è uno dei paesi più sindacalizzati tra quelli dell’ex Urss e anche recentemente – prima dell’inizio del conflitto – ha conosciuto forti movimenti di sciopero e di protesta. Lo stesso discorso, seppur con altre caratteristiche, potrebbe valere anche per la Federazione.
Come ha sostenuto ancora Kagarlitsky recentemente su “Forum.msk.ru”: «Il Cremlino non capisce non solo gli europei, che sono veramente immaginati come codardi coccolati, il che è totalmente falso. I nostri governanti non capiscono nemmeno il loro popolo, che immaginano come una massa di contadini analfabeti del Diciannovesimo secolo, credenti nello zar e in Dio, pronti a soffrire le privazioni senza domande, a combattere e a morire senza compiacenza sotto l’ordine. Lo stile di vita della popolazione della Russia moderna differisce poco da quello occidentale. La differenza non è che il nostro popolo è più fedele alle autorità, ma che è più diviso e più intimidito. Ma la crisi li costringerà a unirsi. E in nessun modo intorno allo zar».