Gli iraniani cercano casa, in Turchia

Marina Forti
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Il governo Raisi fronteggia una forte emigrazione di cittadini iraniani (soprattutto in Turchia, dove la lira si è indebolita) e la crisi interna ha bisogno dell’eliminazione delle sanzioni. Molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare, intanto la Cina aggira i blocchi Usa e acquista il petrolio iraniano. In questo articolo Marina Forti fornisce un quadro economico e sociale della realtà iraniana.


Sono sempre di più gli iraniani che cercano di comprare casa. Non stupisce: l’immobiliare sembra tra i pochi investimenti sicuri in tempi incerti. Gli iraniani però comprano casa all’estero, e soprattutto in Turchia. Non solo gli iraniani più abbienti, e non solo ville o proprietà di alto standard: gli acquirenti di case sono spesso professionisti, universitari, insegnanti, piccoli negozianti, infermieri. Media o piccola borghesia, persone che cercano di mettere in salvo i risparmi. Magari puntano a comprare casa per prendere la cittadinanza e poi spostarsi ancora più lontano – Regno Unito, Canada, Australia, Usa.

A Tehran, si sente spesso di persone che vendono la seconda casa, o magari l’appartamento dei nonni defunti, o perfino quello in cui vivono, per raggranellare il possibile e tentare il grande passo. Non ci sono dati precisi sull’emigrazione degli iraniani, ma alcuni indizi sono chiari.

In parte vengono proprio dalla Turchia, uno dei pochi paesi dove gli iraniani possano andare senza visto, e dove sono un po’ meno penalizzati in termini di potere d’acquisto. Infatti la moneta iraniana, il rial, ha dimezzato il suo valore negli ultimi tre anni. Ma anche la lira turca ha perso almeno il 20 per cento del suo valore nel corso dell’anno passato, cosa che ha contribuito a impoverire milioni di cittadini turchi ma ha favorito l’arrivo di acquirenti stranieri sul mercato immobiliare, a Istanbul e altrove. Ebbene, nel 2021 al primo posto tra gli stranieri c’erano gli iraniani, seguiti da iracheni e russi; nel periodo tra gennaio e novembre gli iraniani hanno comprato 8594 case (ma il trend era già visibile negli anni precedenti; nello stesso periodo del 2020 ne avevano comprate 6425).

Secondo dati raccolti dal “Financial Times”, inoltre, più di 42.000 iraniani sono emigrati (hanno preso la residenza) in Turchia nel 2019; nello stesso anno circa 18.000 iraniani hanno lasciato la Turchia, ma non è chiaro se per tornare in Iran o emigrare altrove.

Altri segnali si possono raccogliere dalla stampa iraniana, o dai dibattiti parlamentari. L’ex ministro della Scienza, Mansour Gholami, ha dichiarato mesi fa in parlamento che 900 professori universitari hanno lasciato l’Iran nel solo 2019. Il Consiglio medico (l’organismo che rilascia la licenza all’esercizio della professione medica) fa sapere che ogni anno se ne vanno circa 3000 dottori. L’emigrazione, in particolare di persone istruite e con buone qualifiche professionali, non è una novità nella storia della Repubblica islamica dell’Iran: ora però sembra accelerare. In parlamento, sui giornali, si parla di “fuga dei cervelli”. Il leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, di recente ha accusato chi semina “illusioni” nell’animo di tanti giovani spinti a cercare chissà cosa all’estero.

E poi non solo giovani. Si racconta di persone che vendono tutto e si affidano a intermediari per trovare la casa da acquistare e poi trasferire il denaro per vie traverse, dato che i normali trasferimenti bancari sono bloccati e portare grosse somme in contanti è rischioso e illegale. L’intermediazione è un mercato a sé, ovviamente sommerso; si racconta di speculatori e di truffe.

Ma cosa spinge tante persone a mettere i propri risparmi in mano a intermediari e speculatori nella speranza di comprare un appartamento in una periferia turca? Le risposte sono verosimilmente molte, ma si possono riassumere nelle parole “incertezza” e “sfiducia”.

Incertezza economica, in primo luogo, dopo due anni di recessione profonda. Riassumiamo. Sull’Iran gravano le sanzioni, le più drastiche mai viste nei 42 anni di vita della Repubblica islamica, quelle decretate dall’amministrazione di Donald Trump dopo che nel maggio 2018 ha stracciato l’accordo sul nucleare (il Joint Comprehensive Plan of Action, Jcpoa, firmato dall’Iran e da cinque potenze mondiali). Sono centinaia di sanzioni mirate ai principali settori dell’industria, a cominciare da quella petrolifera; colpiscono enti, imprese, banche, individui, perfino aerei, navi e petroliere. Gli Usa sono riusciti a imporle a tutto il mondo grazie alle sanzioni secondarie (contro le imprese di paesi terzi che commerciano con l’Iran). Non solo: nel 2020 le banche iraniane sono state espulse dalla Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication (Swift), che garantisce le comunicazioni interbancarie (è un meccanismo internazionale, ma ha sede a Washington ed è sotto il controllo Usa). Senza un codice Swift nessuna transazione internazionale è possibile. Poi la Financial Action Task Force (Fatf), che ha sede a Parigi e veglia su norme antiriciclaggio, ha messo l’Iran sulla lista dei paesi sospetti.

Così l’isolamento è pressoché totale, nessun settore dell’economia è risparmiato. E queste sanzioni restano in vigore con il presidente Joe Biden, in attesa dell’esito dei colloqui in corso a Vienna per rilanciare l’accordo sul nucleare.

Questo dovrebbe far riflettere sul potere ma anche i limiti delle sanzioni. Non c’è dubbio, la “massima pressione” imposta da Trump ha fatto precipitare l’Iran nella recessione. L’inflazione, che il governo dell’ex presidente Hassan Rohani era riuscito a tenere sotto controllo, è riesplosa – oggi è ufficialmente del 42%, aveva raggiunto il 48% nel febbraio 2021, e nell’esperienza reale è molto più alta. Le imprese pubbliche e private stentano; a volte pagano in ritardo i salari o non li pagano affatto. La disoccupazione cresce: ufficialmente al 9% della forza lavoro, ma molto più alta per i giovani. Il crollo del rial rende tutto più costoso, anche mandare un figlio a studiare all’estero. È quasi impossibile importare farmaci e attrezzature mediche, benché non siano sotto sanzioni, per il semplice motivo che non si riesce a trasferire i pagamenti – perfino in tempi di pandemia sono state fatte solo rare eccezioni.

Il paese, e ogni singolo cittadino, pagano tutto questo in modo pesante. E però l’economia iraniana non è collassata. La “economia di resistenza”, ovvero la strategia di sviluppare capacità industriali interne, promuovere l’export di prodotti diversi dal petrolio, rafforzare legami commerciali con i paesi della regione oltre che con la Cina e la Russia, ha permesso all’Iran di sopravvivere.

Il lavoro minorile in Iran, una delle conseguenze della crisi economica (fonte Asianews).

Anzi, i dati parlano di ripresa. Nell’anno 2020-2021 (l’anno fiscale comincia il 21 marzo, secondo il calendario persiano) il Prodotto interno lordo è cresciuto del 3,4 per cento, stima la Banca mondiale, grazie al settore manifatturiero e a una timida ripresa dell’industria petrolifera. Nell’anno che sta per concludersi la crescita è stimata tra il due e il tre per cento. Quanto al petrolio, nel novembre 2021 la produzione si aggirava su 2,4 milioni di barili al giorno (barrel-per-day, bpd): ancora lontano dai 3,8 milioni bpd del 2017 prima delle sanzioni Trump, ma in lenta ripresa. Quanto all’export di prodotti petroliferi, nei primi mesi del 2018 l’Iran esportava 2,5 milioni bpd, nel 2020 era crollato a circa 400.000; oggi si parla di un milione di barili al giorno (sono stime: è un’attività sotto embargo e non ci sono dati ufficiali).

Dunque l’economia cresce: ma non bisogna ingannarsi, cresce da una base molto bassa dopo il crollo precedente.

La Banca Mondiale osserva che in termini reali, il Pil iraniano si trova più o meno al livello di un decennio fa: nel frattempo però una generazione di giovani per lo più istruiti si è affacciata sul mercato del lavoro e non ha trovato occupazione. Per loro è stato un decennio perso.

E poi, i segnali di ripresa contrastano con l’esperienza quotidiana di prezzi sempre più alti, disoccupazione, ristrettezze. Tutto aggravato dalla lunga pandemia di Covid-19 e dalla siccità. L’Iran resta un paese impoverito e disilluso. Si capisce che molti sognino di emigrare.

In questo quadro vanno visti i conflitti sociali che han segnato gli ultimi mesi. E anche le prime mosse del presidente Ebrahim Raisi, insediato lo scorso agosto.

Le piazze si riempiono

Il 13 gennaio centinaia di migliaia di insegnanti hanno riempito strade e piazze nelle maggiori città dell’Iran. Era la quarta giornata di mobilitazione da settembre, proclamata dal Consiglio nazionale dei sindacati degli insegnanti. A Tehran una folla massiccia ha manifestato davanti al parlamento, con slogan come “la penna è più forte del fucile”, “gli insegnanti contro la discriminazione”. Chiedono aumenti salariali e miglioramenti normativi. Chiedono anche il rilascio dei sindacalisti e insegnanti arrestati dopo i primi scioperi: in effetti ogni giornata di protesta è stata seguita da arresti, che però non hanno impedito alla mobilitazione di crescere.

Il caso degli insegnanti è indicativo. Come tutti i dipendenti pubblici, e come i pensionati, hanno visto crollare i salari reali almeno del 40 per cento tra il marzo 2018 e il marzo 2021, causa l’inflazione. Il governo Rohani aveva aumentato gli stanziamenti per l’istruzione e la previdenza sociale, nella finanziaria del 2020-2021 (portati al 55 per cento della spesa pubblica, contro il 45% dell’anno precedente), nel tentativo di proteggere dalla crisi la piccolissima borghesia per lo più urbana. Ma la perdita di potere d’acquisto reale è stata comunque più forte. Ora, quando gli insegnanti hanno visto che i promessi aumenti erano stati cancellati nella finanziaria di quest’anno, sono scesi in piazza.

Proteste in piazza per la crisi economica (foto CC – Fars Media Corporation).

Gli insegnanti non sono soli. Nei primi mesi dell’anno numerose proteste hanno coinvolto i pensionati. Tra giugno e agosto ci sono stati scioperi a singhiozzo e mobilitazioni dei lavoratori petroliferi, in particolare quelli precari (anche a loro l’amministrazione uscente ha concesso aumenti di salario). Le agitazioni si sono intensificate in settembre, il primo mese di effettivo lavoro della nuova amministrazione: decine di proteste, alcune locali, altre di portata più ampia. Tra novembre e dicembre sono riesplose anche le proteste per l’acqua a Isfahan, che rimandano a un complicato scontro di interessi tra regioni rurali e urbane per la suddivisione delle scarse risorse idriche.

Come ha risposto l’amministrazione di Ebrahim Raisi, il presidente eletto con il voto meno partecipato della storia dell’Iran repubblicano?

Favorito dall’establishment (al punto che ogni serio concorrente era stato escluso dalla competizione elettorale), Raisì è arrivato con la promessa di portare benessere “sulla tavola di tutti gli iraniani”. Nei primi cento giorni del suo mandato ha girato il paese in lungo e in largo, con visite nelle province che ricordano un po’ quelle del presidente Mahmoud Ahmadi Nejad. Anche Raisi è andato in ospedali, farmacie, quartieri popolari. Ma andare “vicino al popolo” e promettere giustizia non basta. Servivano segnali concreti: e il primo è stato ordinare massicce importazioni di vaccini contro il Covid-19.

Nel solo mese di settembre in Iran sono arrivate 30 milioni di dosi di vaccino, contro 19 milioni in tutti i 7 mesi precedenti. D’improvviso, pratiche di importazione che prima richiedevano settimane si sono sbloccate. I vaccini sono importati dalla Mezzaluna Rossa Iraniana, per lo più attraverso accordi bilaterali e tramite la Croce Rossa Cinese; vaccini cinesi, russi, o il Covishield di Astra Zeneca (fabbricato in India) grazie al programma delle Nazioni unite Covax. Anche vaccini di produzione nazionale sono ora disponibili. Fatto sta che alla vigilia dell’insediamento di Raisì erano state somministrate circa 10 milioni di dosi a una popolazione di 80 milioni di iraniani; oggi 60 milioni di persone hanno ricevuto la prima dose e 53 milioni la seconda, secondo l’Organizzazione mondiale per la sanità.

Questo però è l’unico successo concreto da esibire, per ora. Il fatto è che importare vaccini in fondo è più semplice che rilanciare l’economia.

Per questo bisogna guardare al parlamento, che in queste settimane sta discutendo la legge finanziaria: presentata in dicembre, va approvata in tempo per entrare in vigore con l’anno nuovo, il 21 marzo. La prima finanziaria del presidente Raisi afferma obiettivi ambiziosi, parla di crescita dell’8 per cento. Afferma che le linee guida saranno “aumentare la produzione e l’occupazione” nel quadro della “economia di resistenza”. Il governo prevede di aumentare del 10% le entrate nel bilancio generale dello stato, e del 25% il bilancio delle imprese statali (attraverso cui è gestita una buona parte dell’economia). Spera di contenere l’inflazione sotto il 40 per cento, e di aumentare le entrate fiscali del sessanta per cento anche con la lotta all’evasione. L’amministrazione Raisi basa le sue previsioni sull’ipotesi di esportare 1,2 milioni di barili al giorno di prodotti petroliferi, messi in bilancio al prezzo medio di 60 dollari a barile.

Se questo basterà a contenere la perdita di potere d’acquisto degli iraniani, resta da vedere. Il parlamento ha ripristinato gli aumenti per gli insegnanti e sta discutendo di aumentare il salario degli impiegati pubblici tra il 5 e il 28 per cento: considerata l’inflazione però resta una diminuzione di reddito netta. Moshen Rezai, ex comandante delle Guardie della Rivoluzione e oggi uno dei massimi consiglieri economici del presidente Raisi, ha annunciato che il governo raddoppierà i sussidi in contanti distribuiti agli iraniani sotto una certa soglia di povertà. Istituito da Ahmadi Nejad, si tratta di un assegno di 455.000 rials: solo che nel 2010 equivaleva a 40 dollari, oggi al cambio libero equivale a meno di 2 dollari.

Già, il cambio. Il parlamento sta discutendo anche la proposta di abolire il cambio ufficiale imposto nel 2018, che aveva “congelato” la parità a 42.000 rial per un dollaro – mentre sul mercato libero oggi per un dollaro servono 275.000 rial. Il cambio di stato serve a finanziare le importazioni di beni essenziali e strategici e calmierare i costi, ma ha dato luogo ad arbitri e corruzione; lasciare tutto al mercato libero però potrebbe aumentare ancor più l’inflazione.

Il presidente Raisi riuscirà a mantenere la sua promessa di benessere? Secondo un osservatore informato come Bijan Khajehpour, molto dipenderà dalle sanzioni. L’Iran ha dimostrato di avere una economia diversificata (non solo petrolio: esporta automobili, prodotti meccanici, agroalimentare e altro), e di riuscire a vivere nonostante l’isolamento internazionale. Un effetto delle sanzioni è stato ridirigere le relazioni commerciali iraniane verso i paesi vicini, l’Asia centrale, la Cina e la Russia.

Tehran ha firmato accordi di cooperazione economica con Pechino e ne sta negoziando con Mosca – anche se non è ancora chiaro quale sarà l’impatto concreto.

Ma finché restano le sanzioni sul sistema bancario il costo di ogni transazione renderà molto più costose sia le importazioni che le esportazioni. Per sostenere la crescita inoltre servono investimenti in infrastrutture, e anche questi sono frenati dalle sanzioni.

Certo, il probabile aumento dei prezzi petroliferi potrebbe aiutare l’Iran. Anche qui però pesano le sanzioni: la Cina è divenuta il principale acquirente di petrolio iraniano, ma finora è stato tutto in via ufficiosa; solo a metà gennaio, per la prima volta dal dicembre 2020, Pechino ha annunciato una importazione di greggio iraniano sfidando le sanzioni Usa.

In definitiva il governo Raisi ha bisogno di veder togliere le sanzioni, se vuole davvero riportare “il benessere a tutti gli iraniani”. Così molto dipende dall’esito dei colloqui in corso a Vienna per salvare l’accordo sul nucleare: anche i salari e le pensioni degli iraniani, e le prospettive di una generazione che sogna di emigrare.