L’eterogenea unità dell’opposizione iraniana

Giulia Della Michelina
image_pdfimage_print

Un bell’ossimoro quello del titolo, ma se si facessero paragoni con il passato e le modalità con cui si andò agglomerando l’enorme insurrezione contro il regime dello shah nel 1978, portando alla sua caduta l’anno successivo, potrebbe assomigliare molto a un corso e ricorso storico: infatti anche allora ci fu un coacervo di opposte fazioni e ideologie politiche che portarono al potere Khomeini, il quale per prima cosa fece stragi dei comunisti e dei più progressisti, che furono i più impegnati nello sforzo di cacciare Pahlavi (al punto che il quotidiano “Lotta continua” esaltava la lotta che avrebbe condotto alla repubblica islamica). Quell’ossimoro discende da una situazione che vede la diaspora diversificata (e che si permette di dire che il Savak non si sarebbe dovuto sciogliere!) ringalluzzita dalle lotte che i giovani stanno portando nelle piazze iraniane e pronta ad approfittarne, magari sognando di mettere il cappello sull’onda degli insorti e dei morti costati alla spontanea rivolta… proprio come gli ayatollah 44 anni fa.

Giulia Della Michelina è riuscita a raccogliere informazioni e dati sulle manovre dei fuorusciti più eminenti che stanno preparandosi a rientrare in scena nel caso le rivolte dovessero aprire varchi nel regime, in cui potrebbero intrufolarsi, cavalcando il malcontento… e la restaurazione. 


Diaspora al vertice con dinastia

Mentre la Repubblica islamica si preparava a festeggiare il suo 44esimo anniversario con manifestazioni pubbliche e decine di migliaia di partecipanti, a 10.000 chilometri di distanza, a Washington, si teneva un incontro tra 8 figure della diaspora iraniana. Il tema del vertice era il futuro di quelle proteste che il presidente Ebrahim Raisi ha dichiarato di aver sconfitto durante le celebrazioni della Rivoluzione. Gli attivisti si sono riuniti al Georgetown Institute for Women, Peace and Security per costruire una piattaforma comune atta a preparare la transizione democratica del paese. È il primo tentativo di consolidamento dell’opposizione all’estero dall’inizio delle rivolte, innescate lo scorso settembre dall’omicidio della ventiduenne curda Mahsa Jina Amini in custodia della polizia morale. Eppure, sono molti i dubbi che aleggiano su questo progetto, capeggiato da Reza Pahlavi, figlio dell’ultimo shah deposto con la rivoluzione del 1979.

Ritorno alla monarchia… certo: “liberale”

Pahlavi invoca da anni il cambio di regime e la costruzione di uno stato secolare e liberale, sostenuto da alcuni iraniani residenti all’estero che lo ritengono un interlocutore affidabile per dialogare con la comunità internazionale. A gennaio l’attore Ehsan Karami aveva lanciato una petizione sottoscritta da 456.000 persone per sostenere il suo progetto di transizione, basato su tre principi: integrità territoriale, democrazia laica e rispettosa dei diritti umani e diritto del popolo a scegliere la nuova forma di governo attraverso il voto. In diverse occasioni il figlio dello shah ha precisato che il gruppo riunito a Washington non intende proporsi come nuova leadership, ma che il suo intento è creare le condizioni per trovare una nuova guida per il paese. Tuttavia Pahlavi, che non disdegna di farsi chiamare “principe” dai suoi sostenitori, ha espresso anche la sua apertura alla possibilità di instaurare una “monarchia elettiva”. Tra i suoi sostenitori ci sarebbero infatti diversi nostalgici della monarchia, come il prigioniero politico Manouchehr Bakhtiari, ma anche persone comuni che a colpi di tweet e di hashtag l’hanno investito del potere di rappresentanza in attesa della caduta della repubblica islamica. Al contempo Pahlavi è stato duramente criticato per non aver mai preso sufficientemente le distanze dal regime di Mohammad Reza, una dittatura non meno sanguinaria di quella degli ayatollah. L’accusa è di aver approfittato del patrimonio familiare costruito sulle sofferenze degli iraniani per la propria ascesa personale.

La coa(li)zione a ripetere

Kamelia Entekhabifard, caporedattrice dell’“Independent Persian” ha sollevato il dubbio che affidare a Pahlavi il mandato di transizione possa impedire la candidatura di persone più qualificate, con un passato più chiaro e richieste ben definite. Per esempio tra le migliaia di prigionieri rinchiusi nelle carceri come quello di Evin, tristemente ribattezzato “l’università Evin” per il grande numero di studenti e intellettuali presenti. In molti hanno sottolineato come affidare la responsabilità della transizione a una sola figura sia già di per sé lontano dalla democrazia auspicata. C’è poi chi vede nell’investitura di Pahlavi il ripetersi di una storia che l’Iran ha già vissuto affidandosi all’ayatollah Ruollah Khomeini per sbarazzarsi del padre dell’odierno candidato a rappresentare la volontà popolare.

Secondo lo scrittore e traduttore Khashayar Dayhimi se ci fosse un referendum «Pahlavi vincerebbe solo perché gli iraniani non conoscono un’altra alternativa».

La coalizione sta cercando di consolidarsi: si è dotata di un nome ufficiale e di un manifesto, intitolato Mahsa Charter. Sul loro sito si legge che l’obiettivo dell’Adfi (Alleanza per la democrazia e la libertà in Iran) è rovesciare il regime in maniera non violenta e costruire le fondamenta di una democrazia laica che possa servire la volontà del popolo iraniano. Oltre a Reza Pahlavi i primi firmatari del manifesto sono l’attivista e giornalista Masih Alinejad, l’attrice Nazanin Boniadi, l’avvocata premio Nobel Shirin Ebadi, Hamed Esmaeilion (ex portavoce dei familiari delle vittime del volo ucraino PS752) e il segretario del partito curdo Komala Abdulla Mohtadi.

Un supporto esterno alle lotte… neutrale, da Occidente

Secondo l’Adfi l’attivismo al di fuori del paese deve essere uno strumento per facilitare l’azione degli iraniani in patria. Un altro punto fondamentale è l’isolamento della Repubblica islamica, per cui è richiesta la collaborazione della comunità internazionale. Un sostegno che la coalizione sta cercando di guadagnarsi in diversi modi, partecipando a eventi internazionali e proclamando la propria adesione ai valori e agli obiettivi dei paesi occidentali. Tra i punti del manifesto compaiono l’adesione alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, la Convenzione Internazionale sulla Sicurezza nucleare. Quest’ultimo punto risulta particolarmente sensibile dopo che i funzionari dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica) hanno riportato che l’Iran ha arricchito l’uranio all’83,7%, un livello prossimo a quello necessario per la bomba atomica. Si cita inoltre la volontà di stabilire politiche di pacificazione nella regione. Pahlavi ha già dichiarato che un nuovo governo «non sarà belligerante e non manderà droni». Il figlio dello shah ha anche menzionato la volontà di cooperare con l’Europa sulla questione migratoria.

Quale legittimazione fuori dai confini iraniani?

Alcuni membri della coalizione hanno preso parte alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, che si è svolta dal 17 al 19 febbraio e dalla quale è stato escluso il governo di Teheran. Per i dissidenti è stata un’importante opportunità per dimostrarsi all’altezza di dialogare con i paesi occidentali e guadagnarsi la loro approvazione. La loro presenza non è stata sostenuta all’unanimità. Un gruppo di attivisti ha scritto una lettera aperta per denunciare la contraddizione di questa partecipazione con i valori della rivoluzione e la «completa mancanza di legittimazione democratica» della coalizione. Reza Pahlavi ha affermato di essere in contatto con i dissidenti in Iran, ma il reale supporto per la sua coalizione all’interno del paese rimane difficile da sondare.
Il 21 febbraio Alinejad e Esmaeilion hanno partecipato a un incontro al Senato italiano, dove solo un paio di mesi prima era stata invitata anche Maryam Rajavi, leader del Consiglio Nazionale della Resistenza dell’Iran, evoluzione dei Mojahedin-e-Khalq. Odiata dalla maggioranza degli iraniani in patria per la sua attività terroristica e per aver appoggiato Saddam Hussein durante la guerra tra Iran e Iraq, l’organizzazione gode di appoggio e finanziamenti di diversi paesi occidentali. Se la presenza di Rajavi ha suscitato lo sdegno della comunità iraniana in Italia, quella di Alinejad è stata accolta molto più calorosamente, sia dai suoi connazionali che dai media italiani.

Il volto conservatore non incorniciato dall’hijab

La conduttrice di Voice of America vive da anni in esilio negli Stati Uniti e si è sempre battuta per i diritti delle donne, in particolare per il diritto di scegliere di non indossare il velo. Il suo attivismo le è costato prima il suo lavoro di giornalista in Iran e poi diverse minacce di morte. Allo stesso tempo è stata bersagliata dalle critiche per la sua vicinanza a personaggi conservatori e antifemministi come Mike Pompeo e John Bolton. Secondo alcuni, Alinejad sarebbe la portavoce di quel femminismo “accettabile” agli occhi degli occidentali ossessionati dall’hijab e da una visione pietistica delle donne dei paesi musulmani.

“La diaspora iraniana e la realtà del paese dopo 40 anni”.

 

Manovre strategiche globali

I rapporti tra questa nuova coalizione e gli Stati Uniti rimangono un nodo importante da chiarire, oltre che una fonte di preoccupazione per il futuro delle proteste in Iran. Washington potrebbe trarre numerosi benefici da un nuovo “governo amico” allineato alle sue politiche. Inoltre, la mediazione cinese nell’accordo tra Iran e Arabia Saudita potrebbe portare gli Stati Uniti a un’ulteriore accelerazione nel sostegno all’opposizione al regime di Ali Khamenei, già avallata formalmente da diverse risoluzioni del Congresso.
Nel frattempo però anche all’interno del paese non mancano i tentativi di organizzazione e di confronto in vista di uno scenario postrivoluzionario. Mir Hossein Mousavi, ex primo ministro e leader delle proteste dell’Onda Verde del 2009 ha invocato un libero referendum per scrivere una nuova costituzione. Mousavi, agli arresti domiciliari dal 2011, si è sempre collocato nell’area riformista dell’establishment della repubblica islamica, pur facendosi portavoce di uno dei movimenti di contestazione più importanti degli ultimi anni. Questa presa di posizione rende ancora più evidente la fine dell’ambizione di trasformare il regime dall’interno e la necessità di un cambiamento radicale per il futuro dell’Iran.

Richieste dell’opposizione vera: cittadini che rischiano e lottano

Il 16 febbraio una ventina di sindacati, associazioni studentesche e gruppi femministi hanno pubblicato un documento contenente le richieste minime per «costruire una nuova, moderna e più umana società». Tra queste ci sono il rilascio incondizionato dei prigionieri politici, la separazione della religione dalla sfera pubblica, la libertà d’opinione e di espressione, la parità tra uomini e donne, il rispetto dei diritti della comunità Lgbtqia + e delle minoranze etniche e religiose.
Secondo l’antropologa Chowra Makaremi l’orizzontalità dell’organizzazione politica che si sta sviluppando nell’opposizione iraniana è un valore, coerente con le istanze portate avanti dalle proteste.


Per quella che si proclama una rivoluzione partita dalle donne e che porta avanti le rivendicazioni delle minoranze e della classe lavoratrice sarebbe un punto di forza mantenere in dialogo una pluralità di voci e di visioni.