n. 9 Iraq: Il Destino comune dei paesi mesopotamici. (II) I curdi iracheni

Fabiana Triburgo
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Lo spazio dedicato alla sezione irachena non a caso cade a ridosso delle puntate siriane nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria. Intanto evidenziamo come a completamento dell’area si assista agli stessi meccanismi condivisi tra Siria, Libano e Iraq, la cui frazione nella serie di articoli si compone di due interventi strettamente correlati. Anche in Iraq ovviamente mordono ancora i danni della divisione Sykes-Picot e infatti l’Isis simbolicamente si manifestò sul confine tirato senza criterio dalle potenze coloniali per spartirsi i territori dell’impero ottomano al suo crollo.

Questo secondo articolo si occupa delle tribù curde nel Kurdistan iracheno e della presenza del Pkk sui monti di Kandil e della conseguente aggressione turca, collegata con gli anni di al-Baghdadi e l’Isis a Mosul. Analizzando gli stessi eventi riproposti sotto nuova ottica in questo pezzo complementare al precedente in cui l’autrice aveva analizzato il settarismo religioso che ha visto la presa del potere sciita alla caduta di Saddam e le conseguenti proteste sunnite, veicolo della rivendicazione dei diritti civili, espresse in Libano in modo ecumenico con il Movimento di popolo e in Siria con l’insurrezione contro al-Assad; tra la protesta repressa da al-Maliki e quella dei movimenti giovanili del 2019 l’Isis scorrazzò per ampia parte del territorio iracheno, sgozzando e perseguendo le minoranze religiose, in particolare perpetrando un genocidio della popolazione yazida.


n. 9, parte II

I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.

Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.  

Il Kurdistan di Barzani stringe accordi, tradendo i fratelli turchi

Il 9 ottobre 2020 è stato siglato un accordo tra Baghdad ed Erbil per cooperare in modo congiunto all’espulsione delle cellule del Pkk: la presenza del partito in Iraq rappresenta anche la legittimazione dell’intervento della Turchia nei territori iracheni. In conclusione, la diversità etnica e religiosa di tali due minoranze, come delle altre, pur essendo riconosciuta a livello costituzionale non è adeguatamente tutelata nelle sue garanzie previste per legge venendo escluse queste comunità da qualunque processo decisionale a livello politico, condizione ulteriormente aggravata proprio a causa del precedente dominio del sedicente Stato Islamico nell’area. La situazione di un pluralismo di etnie e religioni che caratterizza il territorio iracheno determina lo scontro interetnico costante non garantendo il governo iracheno un’effettiva decentralizzazione del potere a livello amministrativo locale che invece consentirebbe un’esistenza pacifica tra le diverse etnie, facilitando l’inclusione sociopolitica tra le comunità per il governo dei territori in cui esse sono presenti. Ciò, come già accennato, deve essere ricondotto alla formulazione della Costituzione del 2005 redatta a seguito della caduta di Saddam Hussein soprattutto dai partiti sciiti con l’ausilio dell’Iran interessato al fatto che l’Iraq non acquisisse più lo stesso potere che ebbe durante la dittatura di Saddam Hussein.

L’etnia curda e i conflitti nel Kurdistan iracheno

La semplice cooperazione tra Erbil e Baghdad prevista in Costituzione determina una difficile attribuzione dei ruoli e dei poteri. Con riferimento al popolo curdo – vittima nel 1988 del genocidio di al-Anfal, ordito da Saddam Hussein con l’utilizzo di armi chimiche – la disputa sulla governance investe non più solo attori interni ma anche potenze regionali estere quali la Turchia, l’Iran o internazionali come gli Stati Uniti. Le operazioni militari nel Nord del paese – presenti ancora oggi – hanno provocato trent’anni di vittime, di sfollamenti e di distruzione. Nei mesi scorsi il Christian Peacemaker Team – Iraqi Kurdistan, l’Iraqi Civil Society Iniziative, e il Kurdistan Social Forum hanno chiesto pubblicamente a tutte le organizzazioni locali e internazionali di aderire alla campagna per la fine dei bombardamenti nel Kurdistan iracheno riferendosi in particolar modo a quelli compiuti negli ultimi anni dalla Turchia e dall’Iran.

Il genocidio di al-Anfal fu perpetrato con armi chimiche da Saddam Hussein nel 1988

L’invadenza neo-ottomana

L’auspicio è quello di un cessate il fuoco completo tra le due potenze regionali nel territorio iracheno e l’immediato smantellamento di tutte le basi militari straniere dalla provincia autonoma curda, chiedendo ai governi di Ankara, Tehran, Baghdad, Erbil e alle Nazioni Unite di innescare un processo diplomatico per porre fine ai combattimenti. Negli ultimi mesi si sono verificati diversi attacchi armati che hanno coinvolto la provincia autonoma. Nel giugno del 2020 la Turchia diede inizio all’operazione militare “Artiglio di Tigre”, è considerata la più lunga delle invasioni di Ankara del territorio iracheno, condotta contro il Pkk sostenuto dalla popolazione nel Sudest della Turchia ma attivo anche nel Kurdistan iracheno. L’obiettivo della Turchia è quello di colpire i membri del Partito dei lavoratori in Kurdistan e le loro roccaforti nelle aree irachene. Baghdad ha perciò più volte accusato Ankara di violare la sovranità del territorio curdo chiedendo il ritiro delle proprie truppe e la cessazione delle aggressive attività militari di Ankara. Le milizie turche hanno infatti preso di mira anche i campi profughi nelle città di Makhumar e Sinjar. In particolare, a Sinjar nella provincia settentrionale di Ninive, il governo iracheno ha esortato i membri del Pkk a lasciare la regione senza successo: Ypg/Ypj han preso il controllo della regione nel 2014 in seguito all’intervento a protezione della comunità yazida contro lo Stato Islamico. A febbraio del 2021 è stata decretata la fine dell’operazione turca “Artiglio di Tigre 2” che ha causato la morte di 50 combattenti del Pkk. Ciò nonostante, anche dopo il 14 febbraio, sono continuati i bombardamenti nel Nord dell’Iraq in territorio curdo: 2 aprile 2021 caccia turchi attaccano postazioni militari del Pkk.

guerre civili e per procura

Posto di blocco di resistenti Ypg/Ypj a Kandil nel 2013.

Il 30 aprile Ankara si è detta pronta a ristabilire una propria base militare a Nord dell’Iraq e il ministro della Difesa turco ha annunciato la continuazione di due nuove operazioni militari nel Nord del paese. Secondo Erdoğan: «Non c’è posto per il gruppo separatista terroristico nel futuro della Turchia, dell’Iraq o della Siria» e ha aggiunto «continueremo a combattere fino a quando queste bande criminali che causano solo lacrime e distruzione non verranno sradicate». Infine, nel mese di maggio in particolare il ministro degli Esteri iracheno ha espresso risentimento per la visita del ministro della Difesa turco a una base militare nella provincia di Sirniak senza essersi prima coordinato con l’Iraq che ha nuovamente denunciato: «Continue violazioni della sovranità e dell’inviolabilità del suo territorio e del suo spazio aereo da parte delle forze militari turche». Nella regione curda inoltre, risparmiata dalle proteste popolari che coinvolsero l’intero paese nel 2019, si sono verificate mobilitazioni giovanili a partire dalla fine del 2020 e continuate nel 2021, pur essendo comunque represse nel sangue da parte delle milizie irachene.

Guerre civili e per procura in Kurdistan

In tale ottica si evidenzia il problema storico della necessità della riforma delle forze di sicurezza dei peshmerga e dell’intelligence che non sono organizzazioni ufficiali di polizia della provincia autonoma, ma rispondono piuttosto a partiti di tendenza opposta al Pkk e questo potrebbe innescare una guerra civile e indebolire e dividere il popolo curdo. Inoltre il Kurdistan come il resto del territorio iracheno è il campo sul quale si fronteggiano le forze militari iraniane e quelle statunitensi: il 14 aprile 2021 si è registrato un attacco della sconosciuta milizia sciita “Guardiani del sangue” contro l’aeroporto militare di Erbil e la base della Coalizione internazionale a guida Usa sempre nel capoluogo del Kurdistan; evidenziando come la sicurezza della provincia autonoma sia continuamente esposta all’intensificarsi degli attacchi iraniani contro obiettivi statunitensi.

Il conflitto tra Usa e Iran sul territorio iracheno

Cosi come tra regime turco e Pkk nel Kurdistan iracheno, anche i violenti scontri militari tra Usa e Iran sull’intero territorio dell’Iraq sono una costante. Già nel maggio del 2019 l’allora segretario di stato Mike Pompeo chiese all’allora presidente iracheno Mahdi rassicurazioni sul disarmo delle varie milizie sciite vicine a Tehran (Forze di mobilitazione popolare in Iraq – Pmf), nate in risposta alla richiesta del jihad da parte dell’ayatolllah Ali al-Sistani contro lo Stato islamico, dopo la caduta di Mosul, e successivamente unitesi alle milizie iraniane dell’al-Quds ossia il “braccio armato” dei Guardiani della rivoluzione dell’Iran a capo delle quali vi era il generale Qasem Soleimani. Gli Stati Uniti inoltre vollero rassicurazioni anche in merito alla condizione di sicurezza di circa 6000 militari americani presenti in Iraq e dunque cominciarono a inviare navi da guerra sul territorio. Tale escalation di tensione tra Usa e Iran avvenne in seguito alla visita del presidente iraniano Rohani il 6 marzo 2019 quando incontrò figure politiche militari e religiose irachene ponendo le basi per una collaborazione tra Iran e Iraq in più settori. La situazione tra Stati Uniti e Iran peggiorò con l’uccisione all’aeroporto di Baghdad del generale iraniano Qasem Soleimani il 3 gennaio 2020 – in seguito sostituito da Esmail Ghani – e di altre importanti personalità militari e di sicurezza sciite filoiraniane come Abu Mahdi al-Muhandis, vicecomandante delle Forze di mobilitazione popolare che in passato avevano anche coordinato nel paese i combattimenti contro l’Isis. Dopo questo omicidio il parlamento iracheno votò e approvò una mozione che richiedeva il ritiro immediato delle truppe statunitensi. La decisione dell’uccisione del generale Soleimani – giustificata come misura proporzionata di autodifesa preventiva nel rispetto del diritto internazionale delle Nazioni Unite – venne adottata dall’allora presidente Trump, su consiglio del Pentagono, dopo essersi consultato anche con l’allora segretario di stato Mike Pompeo in seguito all’assalto all’ambasciata statunitense in Iraq condotto dai miliziani iracheni collegati all’Iran. Da allora si ripeterono diversi e violenti attacchi missilistici dell’Iran contro basi militari irachene a Erbil e Ain al-Asad nelle quali erano presenti soldati americani. Il 27 marzo 2020 gli Stati Uniti annunciarono di aver ordinato ai propri impiegati dell’ambasciata americana in Iraq e ai funzionari del consolato di Erbil di lasciare il paese. Gli Stati Uniti decisero di evitare d’inasprire la propria forza militare contro la milizia filoiraniana delle falangi di Hezbollah, pur se particolarmente ostile alle milizie americane e annunciarono di voler ritirare 2000 dei circa 5000 militari statunitensi presenti in Iraq.

In tale scenario occorre menzionare anche il leader sciita di origine libanese Muqtada al-Sadr leader del movimento sadrista del partito Sairoon che vanta una discendenza diretta con il profeta Maometto: le sue milizie furono protagoniste dell’insurrezione armata contro le truppe di occupazione americane nel 2003, ma volendosi ora mostrare distante da Tehran lo scorso anno dichiarò: «L’occupazione americana si combatte in parlamento e non con la violenza, attaccando sedi di cultura e ambasciate». Dopo pochi mesi, tuttavia, ritornò nel quadro delle milizie filoiraniane. Rispetto alla continua attività di belligeranza in Iraq tra le due potenze il nuovo premier Mustafa al-Kadhimi – nominato su comune intesa di Iran e Stati Uniti e considerato il “premier di tutti e di nessuno” – non ha preso una vera posizione, principalmente concentrato su questioni securitarie. Infatti l’attuale premier nonostante abbia dichiarato in più occasioni di voler contrastare l’impunità delle milizie filoiraniane, non ha di fatto mai avviato alcuna attività politica in tal senso. Il 15 febbraio 2021 una dozzina di razzi lanciati da gruppi sciiti sostenuti dall’Iran – come Kata’ib Hezbollah – hanno preso di mira le forze della coalizione a guida Usa fuori dall’aeroporto Internazionale di Erbil.

Il 1° marzo del 2021 Joe Biden ha ordinato un attacco sulla base operativa di un gruppo di miliziani sciiti vicini all’Iran, due giorni dopo diversi missili iraniani hanno colpito nuovamente la base di Ain al-Asad della coalizione anti-Isis a guida statunitense e impiegata altresì dalle truppe britanniche stanziate in Iraq nel governatorato occidentale di Anbar. Le notizie di continui attacchi contro obiettivi statunitensi ancora sono state riportate il 16 e il 29 marzo 2021 così come nel mese di aprile e di maggio sempre a opera di gruppi armati affiliati all’Iran. In tale situazione di continua belligeranza va sottolineata la dichiarazione congiunta di Washington e Baghdad ad aprile: le truppe da combattimento statunitensi, impiegate contro la lotta allo Stato Islamico, abbandoneranno l’Iraq. Le forze Usa tuttavia continueranno a fornire consulenza e addestramento all’esercito iracheno mentre la presenza italiana nella Missione Nato nel paese continua ad aumentare.

I continui attentati nel paese da parte del sedicente Stato Islamico

Con la fine del regime di Saddam nel 2003, lo scioglimento e l’immediata ricostruzione delle forze di difesa statali condussero all’espansione di al-Qaeda in Iraq in particolare a Mosul e Falluja tra i sunniti – in precedenza unitisi nel gruppo dei Fratelli Musulmani – che temevano sia la crescita del potere sciita sia le conseguenti rappresaglie della popolazione curda. Il governo ad interim guidato da Ayad Allawi nel 2004 infatti si impegnò per il rafforzamento sia delle forze armate irachene, con l’inclusione delle unità dei peshmerga, sia delle forze di polizia sciite, in modo da aver un maggiore controllo della città di Mosul. Nel 2005 i sunniti tuttavia boicottarono le elezioni provinciali e ciò portò alla vittoria del Partito democratico del Kurdistan nel Consiglio provinciale alla quale seguì la violenta protesta sciita. Intanto l’anno successivo mentre diminuiva la presenza militare irachena e statunitense proprio a Mosul si faceva già strada quello che sarebbe divenuto il leader del sedicente Stato Islamico Abu Bakr al-Baghdadi. La politica anticurda successivamente portata avanti dal premier Maliki – coincidente questa volta con la volontà della comunità sunnita – determinò l’allontanamento della comunità curda da molti territori di appartenenza e la conseguente vittoria dei sunniti nel 2009 i quali ottennero la maggioranza dei seggi nel Comitato provinciale.

Mappa demografica delle etnie curde in Mesopotamia (tratto da Curdi, a cura di Antonella De Biasi, Rosenberg & Sellier, 2018).

Nel 2011 il rapporto tra il governo centrale e quello locale si deteriorò con un conseguente aumento delle forze federali a scapito di quelle locali e così, quando nel 2012 scoppiò la guerra civile nella vicina Siria, l’Isis ebbe la possibilità di strutturarsi meglio per poi attaccare le forze di sicurezza del paese assediando la città di Mosul dal 2014 al 2017. Dopo la conquista di Mosul nacquero le cosiddette Forze di mobilitazione popolare in Iraq (Pmf) unitesi in seguito alle milizie iraniane del Quds che con i peshmerga e le truppe americane riconquistarono la città nel 2017 dichiarando la sconfitta dell’Isis. Già a partire dal 2019, nonostante l’annuncio degli Stati Uniti dell’uccisione di al-Baghdadi, i funzionari dell’intelligence curda segnalavano che l’Isis fosse tutt’altro che sconfitto e che doveva essere considerato piuttosto come un’organizzazione terrorista risorgente. Nonostante la cattura lo scorso 3 maggio del governatore dell’Isis a Fallujah, Abu Ali al-Jumaili a opera dei servizi segreti iracheni l’Iraq oggi non può considerarsi ancora al sicuro dalla minaccia terroristica dello Stato Islamico che negli ultimi mesi del 2021 ha notevolmente intensificato gli attacchi nel paese.

L’Iraq non è un paese sicuro

In conclusione, oggi l’Iraq non può essere considerato un paese sicuro, tradendo l’attuale esecutivo di al-Kadhimi forti difficoltà a mantenere quei propositi securitari posti all’inizio del suo mandato, stante l’attuale impossibilità di un effettivo contenimento delle milizie filoiraniane, degli attacchi dello Stato Islamico, così come delle continue proteste della popolazione locale. Fallisce in questo modo, mentre si avvicinano le nuove elezioni nel paese, l’idea di un recupero della centralità e dell’influenza dello stato e dell’esercito iracheno che invece risulta sempre maggiormente dipendente dall’aiuto militare esterno locale e internazionale proprio come riscontrato in Siria.