Afghanistan: tolto il ciocco che attizza il fuoco, il vuoto si riempie di caos
Gli anni del Great Game afgano superano ormai la quarantina, la popolazione è stremata da scontri e Signori della guerra e non ne può più di scontri. E forse su questo si può contare affinché le forze talebane non ripetano l’esperienza di un regime oscurantista intollerabile. In un articolo per “Atlante delle Guerre” Emanuele Giordana espone queste speranze, ribadite ai nostri microfoni nel podcast estratto da Radio Blackout, mentre Giuliano Battiston si aggira per Kabul, registrando umori, scelte di campo, decisioni che gli afgani di ogni comunità, stirpe, ceto o credo religioso si ripromettono di seguire nel momento in cui lo straniero se ne sarà andato. E lo fa stilando un diario di appunti quotidiano, pubblicato su “Lettera22“, che riporta le molteplici ricostruzioni dei giochi di potere, a seconda dell’interlocutore. Intanto la violenza cresce e il vero pericolo è questo: il vuoto che si riempie di caos.
Il futuro dell’Afghanistan
Emanuele Giordana ci ricorda che in passato, in questi 40 anni di guerra continua e occupazioni, i “ritiri” non sono mai stati indolori e auspica un livello di cooperazione internazionale che permetta sostegno vero alla popolazione, a guida Onu e non della Nato che comprenda anche i paesi musulmani, per evitare che il vuoto non porti a una soluzione pacifica.
La dipartita completa delle truppe straniere dall’Afghanistan prevista a settembre solleva una serie di preoccupazioni, in parte condivisibili in parte forse sovrastimate, che sembrano a volte sottintendere che, magari… sarebbe stato meglio restare. Tensione e timori sono comprensibili, assai meno una specie di racconto del caos in cui l’Afghanistan precipiterebbe proprio perché noi ce ne andiamo. Con un ragionamento molto semplice e quasi banale, viene infatti da pensare che, se si leva dal fuoco il ciocco più grosso (la guerra contro gli stranieri), dovrebbe esser più facile governare le ceneri per quanto ancora calde. La Storia può dare una mano.
1989: Quando le donne non portavano il burqa
Quando nel 1989 dopo dieci anni di una guerra fallimentare l’Urss si ritirò dall’Afghanistan, nessuno si preoccupò del baratro su cui il paese era sospeso: con una guerra civile in corso, uno stato fallimentare ormai privo di aiuti (che l’Urss cominciò a sospendere dal ritiro) e un futuro oscuro per donne che, all’epoca del soviet afgano, erano ministre o direttrici di giornali che non portavano il burqa. Proprio quanto avvenne ai tempi dell’Urss dovrebbe servire di lezione perché col ritiro delle truppe andrebbe previsto un piano a lungo termine, una visione per ricompensare almeno in parte i danni di un conflitto durato vent’anni. Allora non era semplice farlo ma oggi si può.
Quando dopo gli accordi di Ginevra dell’aprile 1988 Urss, Usa e Pakistan si accordarono sul ritiro dell’Armata rossa, a patto che nessuno più finanziasse la resistenza, a maggio iniziò il ritiro dei soldati che si concluse in febbraio. Il governo di Najibullah però resisteva: è nota la battaglia di Jalalabad dell’aprile 1989 quando i mujahedin, che Usa e Pakistan continuavano a rifornire violando gli accordi, non riuscirono a prendere la città che sta sulla frontiera col Pakistan, retroterra dell’intera coalizione guerrigliera. Fu solo dopo il 1990 che le cose si complicarono: gli Usa smisero di sostenere i combattenti islamici (ma non cosi Islamabad e Riad) mentre Gorbachov si rifiutò di continuare a pagare Najibullah. Non potendo più erogare gli stipendi, il suo esercito si sciolse come neve al sole e i mujahedin, gente non molto più progressista dei Talebani, entrarono vittoriosi a Kabul dove iniziarono a guerreggiare tra loro.
2021: il consenso dei Talebani al lumicino
Trent’anni dopo, pur con tutte le differenze, siamo a un punto simile. I Talebani controllano in parte campagne e piccoli centri ma hanno un consenso al lumicino, fiaccato da vent’anni di guerra. Non possono prendere le città e, in presenza di un piano di reclutamento nelle file dell’esercito nazionale, si troverebbero senza manodopera. Continuando a finanziare l’esercito afgano con stipendi decorosi e stimolando la creazione di un partito politico (non sarebbe il primo partito radicale dell’Afghanistan), i Talebani potrebbero essere coinvolti nel gioco parlamentare, con qualche ministero e posti nell’amministrazione pubblica e nell’esercito. Quanto alle donne afgane, esse hanno da temere dai Talebani non molto più di quanto già non debbano temere da una società maschile che non ha risparmiato loro, nemmeno in democrazia, la negazione dei diritti fondamentali.
Naturalmente è necessario continuare a sostenerle, finanziando i loro progetti e rafforzando una società civile cui i governi Karzai e Ghani hanno sempre riservato uno spazio esiguo.
L’Italia, per esempio, ha speso per l’apparato militare 8,4 miliardi di euro in 20 anni (cui vanno forse detratti spiccioli della cosiddetta cooperazione civile-militare). Solo 320 in cooperazione civile, nemmeno il 5 per cento…
Il quadro di accompagnamento
La comunità internazionale e l’Italia potrebbero allora lavorare a un piano che preveda un forte aumento della spesa di cooperazione, un sostegno politico alle istituzioni, riconfermando un contributo finanziario per molti anni con dei paletti, e l’appoggio alle ong – locali e internazionali – attive nel paese. Andrebbe aggiunto un quadro di “accompagnamento” guidato dall’Onu – non certo dalla Nato – con l’allargamento a partner regionali (Russia compresa) finora tenuti fuori dai negoziati. Una riformulazione dell’impegno potrebbe anche passare dall’impiego, se davvero necessario, di una forza di interposizione a guida Onu che coinvolga anche i paesi musulmani, dall’Indonesia al Marocco. Ma di tutto ciò, a parte un’iniziativa turca – che proprio perché nelle mani di Erdogan lascia perplessi – nulla si vede tranne qualche frase di rito che appare un po’ retorica. Se tornare a casa lascerà un vuoto sarà più facile che a riempirlo sia il caos.
Diario afgano
E a riempire il caos con voci dissonanti raccolte estemporaneamente ci pensa Giuliano Battiston con l’esordio del suo diario kabulino, pubblicato da “Lettera22”, la prima e la seconda puntata raccontano la nascita della “seconda resistenza” all’oscurantismo talebano.
«Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io». Abdul (nome di fantasia) è avvocato, lavora in un progetto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a fare quello che non ha mai fatto: “prendere un’arma”. Il giovedì pomeriggio il caffè Simple, nel quartiere di Kart-e-Char, si riempie di giovani come lui. Ventenni e trentenne istruiti, che parlano inglese e chiacchierano nei caffè del quartiere, a poche centinaia di metri dall’università di Kabul, chiusa per Covid.
È un tardo pomeriggio prefestivo. Tavolini e panchetti esterni sono pieni. Incontriamo quattro ragazzi, tre hanno avuto il Covid. Uno indossa la mascherina. Molto meno congestionata del solito, la città non si spenge. «Come potranno i Talebani controllare una città come questa, cinque milioni di abitanti, oppure Herat, la stessa Kandahar?».
Sotto i Talebani, qui non ci vogliono stare. Come altrove nel paese. «Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra», ripetono tutti. È tempo di “moqawamat-e-do”, di una seconda resistenza. Contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani, si sta formando un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico.
«Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del Nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e il Hezb-e-Whadat. La “seconda resistenza” è un termine diffuso da qualche mese dagli stessi protagonisti», ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network, che sul tema ha appena pubblicato un articolo informato.
La seconda resistenza nasce dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. «Mi pare che nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, consideri più il processo di pace come il piano A», ci dice Ali Adili. «Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali». Il fronte repubblicano è più diviso che mai. «Non c’è una strategia comune, nessun consenso su cosa fare». Lo dimostra l’impasse sul Consiglio Supremo di Stato.
Kabul divisa, periferie in fermento
Il ritiro delle truppe innesca dinamiche nuove: si gonfiano i muscoli e ci si arma. Rivendicando sui social le milizie, oltre l’autorità di Kabul. «Restando attaccato al potere Ghani ostacola la soluzione. L’unico modo per uscire dall’impasse è convincerlo a farsi da parte, facendo nascere un governo a interim», ci raccontano due abituali interlocutori qui, nella capitale afghana. La sovranità centrale del governo e delle stesse forze di sicurezza viene apertamente sfidata. «Se non è in grado di proteggerci, lo faremo da noi», si dice. Sul cancello non lontano dall’ingresso della scuola Sayed al-Shohada, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, dove un mese fa un attentato ha ucciso 85 studentesse, uno striscione funebre chiede giustizia, «o ci prenderemo la nostra vendetta».
Ci si protegge da sé. Il processo di pace mal gestito da Washington ha rafforzato i Talebani, «che rimangono un movimento sostanzialmente pashtun», sottolinea ai tavolini del caffè Simple Abdul, la cui famiglia viene da Bamiyan. «Per noi sono come i fascisti che voi avete combattuto in Europa», sostiene Jawad, che lavora in una ong. Canteranno pure vittoria, ma non si illudano di prendere Kabul e le città, i Talebani. La seconda resistenza nazionale è pronta.
Nel suo articolo Ali Adili elenca una serie di casi. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: «Abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare». Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, si dice pronto a «restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin». L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene «capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà».
L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia “Dai Chahar”. L’ex presidente Karzai dichiara a “Der Spiegel”: «stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli». A Maimana, capoluogo della provincia nordoccidentale di Faryab, gli uomini del generale Dostum e del suo Jombesh-e-Melli si oppongono con le armi all’insediamento del governatore provinciale, scelto dal palazzo presidenziale.
Sull’“Atlantic Council”, Tamim Asey, già viceministro della Difesa afghano, scrive che i Talebani «vanno dissuasi militarmente dall’idea di cercare la vittoria con la guerra». La “resistenza 2.0 è inevitabile” e sarà fatta anche di milizie, sostenute dagli attori regionali anti-Talebani.
«Ci aspettano tempi bui», dicono i ragazzi del caffè Simple. Sulla strada per casa, superato il passo Gardanah-ye Sakhi e scendendo verso la grande arteria Salang Wat, sventola un bandierone. Non è nero, rosso e verde. Non è la bandiera nazionale della Repubblica islamica d’Afghanistan. È verde, bianca e nera: la bandiera dello Stato islamico d’Afghanistan. Il governo di Rabbani e dei mujahedin anti-Talebani.
Le voci sul presidente Ghani
Kabul – Incontro Seema– nome di fantasia – nel suo ufficio con aria condizionata di Qala-e-Fatullah. È direttrice di una ong che ha fatto propria la liturgia liberale del periodo post-Talebano: democracy, empowerment, good governance, civil society. Progetti, progetti, progetti. Partner o donatori sono Usaid, le ambasciate britannica, danese e statunitense, tra gli altri. Ha ricoperto incarichi importanti nelle istituzioni. Lamenta il disimpegno diplomatico e finanziario della comunità internazionale, parallelo al ritiro delle truppe. Sa che i fondi verranno meno. Sul fronte interno dice che «c’è una sola soluzione: convincere Ghani a farsi da parte».
Il negoziato tra Talebani e fronte repubblicano è lento. La violenza cresce. Le posizioni negoziali sono più rigide di prima. I Talebani capitalizzano il ritiro delle truppe straniere, guadagnano distretti, fanno propaganda. Il governo riproduce il conflitto intorno a sempre nuovi corpi istituzionali che servivano a disinnescarlo. Contenitori costruiti per concedere potere a chi non lo aveva. L’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale, l’organismo creato per far ingoiare ad Abdullah Abdullah il nuovo mandato di Ghani dopo le ultime contestate elezioni, ancora non è del tutto formato. Eppure ora ci si accapiglia su struttura, mandato e nomi del Consiglio supremo di stato.
Previsto nell’accordo del maggio 2020 «per accomodare chi era rimasto escluso dall’accordo tra Ghani e Abdullah, soprattutto Rabbani, Karzai, Hekmatyar», ci spiega Ali Adili, dell’“Afghanistan Analysts Network”.
Una seconda resistenza
Nel paese intanto si parla apertamente di una seconda resistenza, come quella dei mujahedin contro i Talebani. Milizie sostenute da attori regionali anti-Talebani, suggerisce qualcuno. In posti come Sar-e-Pul, Samangan, che non sono mai finiti sotto il controllo degli studenti coranici, ci si attrezza.
«Una parte del quadro politico imputa al presidente una resistenza eccessiva. Ghani ritiene di poter inglobare i Talebani nelle strutture esistenti, concedendo porzioni di potere. Ed esclude invece il governo a interim», sostiene Adili. Già prima delle elezioni presidenziali, Ghani aveva resistito alle pressioni per rinunciarvi in favore di un governo di transizione. Cercava un mandato forte da giocare sul tavolo negoziale con i Talebani. Ne è uscito con elezioni contestate e un mandato debole. «Il governo non è migliore dei Talebani», dice più di uno, qui a Kabul. Ci si fida poco dei Talebani quanto del governo.
Per Seema, Ghani è il problema. Talmente attaccato al potere da essere «pronto a trasferire il palazzo presidenziale a Paghman e continuare a governare da lì, anche se i Talebani prendessero Kabul… Ma sono solo rumors», precisa. Uno dei ragazzi hazara del caffè Simple, ieri raccontava una storia diversa, su Ghani: «Pur di non lasciare il paese in mano a non-pashtun, è disposto a darlo ai Talebani e a tornarsene negli Usa».
La Grande Illusione, L'Afghanistan in guerra dal 1979
a cura di Emanuele Giordana
Iniziata con l’invasione sovietica, l’ultima guerra afgana compie quarant’anni con attori diversi ma sempre con le stesse vittime: i civili.
Una lunga guerra della quale Usa e alleati – tra cui l’Italia – sono tra i maggiori responsabili anche per l’ennesima grande illusione: diritti, lavoro, dignità, uguaglianza. A diciotto anni dall’ultima fase del conflitto iniziato nel 2001, il disastroso bilancio è anche il manifesto di come si possa utilizzare la bandiera dei diritti per violarli ripetutamente. I saggi scritti dai più autorevoli osservatori delle vicende afgane disegnano illusioni e sofferenza, le responsabilità di guerriglia, governo e alleati stranieri, i giochi degli attori regionali e lo spregiudicato uso di una propaganda cui non credono più nemmeno i suoi inventori.
Una fotografia in bianco e nero dove il nero trionfa. Un atto d’accusa che, pur riconoscendo la buona fede di molti, mette il dito nella piaga della malafede tipica di ogni conflitto.