BanGog è a Bangkok

Massimo Morello ha accettato di scrivere per noi di una “città visibile”: la sua Bangkok. Qui raccogliamo le sue idee in preparazione del libro, in uscita entro l’estate 2023, le intuizioni che si svilupperanno, immagini e anime dei luoghi che l’autore vorrà raccontarci.

«BanGog mi è apparsa a Bangkok dopo che mi sono fatto tatuare la figura di Rahu sulla schiena. Il che è accaduto mentre iniziavo a scrivere questo libro su Bangkok in cui Rahu e l’indovino che mi ha indotto al tatuaggio hanno una parte importante.
BanGog, in quella realtà di Bangkok, è un luogo immaginario. E questa è la prima delle innumerevoli contraddizioni che si susseguiranno. Un luogo immaginario che materializza una città invisibile, come quelle descritte da Italo Calvino, simbolo della complessità e del disordine della realtà, in cui ti ritrovi a ricercare le combinazioni interpretative nascoste nell’opera e nel linguaggio stesso.
Il che ci porterebbe a considerazioni sull’ermeneutica quale interpretazione dei significati più profondi dell’esistenza. Ma così il rischio di perdersi tra combinazioni e correlazioni aumenta di riga in riga. Meglio quindi scomporre il toponimo.
“Ban”, o “baan”, in thai è “casa”. “Bang” significa villaggio in riva al fiume. “Gog” richiama una figura mitica della tradizione biblica e islamica, rappresentata soprattutto come demone, mostro, essere sovrannaturale che vive nella terra di Magog. Una terra che nella tradizione medievale si colloca all’estremo dell’Oriente. Da cui deriva il popolare “andare in goga e magoga”, “andare in un paese molto lontano”.
Resta “OG”, che qui richiama l’acronimo di Orizzonti Geopolitici, progetto editoriale, community, laboratorio per delineare una mappa di un mondo aleatorio, stocastico.
Il toponimo così composto diviene quindi un abracadabra. “Gog”, allora, può evocare l’immagine di Rahu, entità fantasmatica che nella tradizione delle scritture vediche rappresenta l’ombra, l’eclissi ma che può essere assunto a divoratore di incubi. È quasi il simbolo del contrasto tra le “Città invisibili” di Calvino e le città che OG vuole rendere visibili. Una dicotomia che riflette le ambiguità delle megalopoli moderne.
Come dice il Marco Polo di Calvino: «Tutto l’immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città, come i sogni, sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra».
Bangog, nasconde e rappresenta Bangkok. E viceversa.
Come Gog e Rahu»

Massimo Morello

La quinta della serie Le città visibili,

rese tali dagli autori di OGzero

Mappa Bangkok

Massimo Morello

Massimo Morello è nato ad Ancona in un anno del bufalo, laureato in storia e filosofia, giornalista. Dopo diverse esperienze professionali, per oltre vent’anni ha girato il mondo da free lance, dedicandosi soprattutto a reportage geografici e d’esplorazione: dall’Amazzonia al Borneo, dalla Nuova Guinea ai deserti australiani. In seguito si è focalizzato sulla geopolitica e la cultura asiatica che studia e pratica in diverse forme, con passione e confusione. Da molti anni vive a Bangkok, in un grattacielo da cui vede il fiume e da dove continua a muoversi per tutta la regione. Quando non è in Asia lo trovate a Marsiglia, in una casa di fronte al mare.
Ha collaborato e collabora con i maggiori giornali italiani. È autore di guide, libri di viaggio, racconti, saggi. Per la collana Orizzonti Geopolitici (Rosenberg&Sellier) ha pubblicato Burma Blue, dove viene in superficie la profonda conoscenza del Myanmar, aggiornato in ultima bozza a cavallo del golpe che il 1° febbraio 2021 ha oscurato l’orizzonte della Birmania.

Tornare dall’ombra

Come dice Yuri Orlov, il personaggio interpretato da Nicolas Cage alla fine del film “Lord of War”: «A volte hanno bisogno di un free lance come me. Mi chiami demone, ma sono un demone necessario».

Si conclude così la prima stesura di un capitolo di “Bangkok” per OGZero. Il capitolo, “La giungla degli specchi”, presenta una Bangkok dove «la possibilità di un pericolo, come un battito cardiaco irregolare, è imprevedibile», una Bangkok definita da personaggi che vivono spesso nell’ombra, i duri, i giocatori, i perdenti, le anime tormentate e perdute.

Uno di questi è Viktor Anatolyevich Bout, ex ufficiale dell’Armata Rossa divenuto trafficante d’armi. Su di lui avevano scritto un libro, “Merchant of Death: money, guns, planes, and the man who makes war possible” e il libro aveva anche ispirato il film “Lord of War” interpretato da Nicholas Cage.
Nel 2008 Bout era stato arrestato al Sofitel Silom Hotel di Bangkok da agenti del Csd, la Crime Suppression Division thailandese, e della Dea, la Drug Enforcement Administration americana. Nel novembre 2010 fu estradato negli Stati Uniti e l’anno seguente una corte federale di Manhattan lo dichiarò colpevole di “cospirazione” per aver cercato di vendere armi a organizzazioni terroristiche che progettavano l’uccisione di cittadini statunitensi.
Viktor, scrivevo, «è entrato nell’ombra dei fantasmi, ma potrebbe riapparire quando meno te l’aspetti».

È riapparso a fine luglio, quando l’amministrazione Biden si è offerta di rilasciarlo. Antony Blinken, segretario di stato americano, discuterà con il suo omologo russo Sergei Lavrov dell’accordo siglato sul grano che procede a stento e di uno scambio di prigionieri.
Washington offre Bout in cambio della cestista americana Brittney Griner, accusata dai russi di possesso e utilizzo di droga e incarcerata dal giorno dell’arresto (aveva con sé delle sigarette elettroniche con ricarica alla marijuana) senza contatti con la famiglia, e di Paul Whelan, canadese con cittadinanza americana, in carcere dal 2018 e condannato dai russi a 16 anni di carcere per spionaggio).
Probabilmente Viktor pensa di valere molto di più. Ed è così, considerando la sua amicizia con Putin.

Elezioni thailandesi 14 maggio 2023. Una epocale svolta culturale

Il rischio della “sindrome birmana”della Thailandia post-voto
“Il Foglio”, 15 maggio 2023

Abbiamo sentito  Massimo Morello per Radio Blackout martedì 16 maggio e ne è scaturita una bella chiacchierata:

La Thailandia al voto con l’ombra dell’ennesimo colpo di stato
“Il Foglio”, 11 maggio 2023

Perché Bangkok?

Il Very Thai è una delle formule per comprendere la Thailandia e Bangkok. Anzi, la formula principale: ogni cosa è fatta al modo thai, e tu non riuscirai a capirla se non capisci che cos’è il modo thai, che però non puoi capire se non sei thai. Un paradosso, un Comma 22, che regola tutto, che va premesso a qualsiasi non-spiegazione della Thailandia.

Capito che non si può capire si può procedere.  E da questo primo comma si passa al seguente, che a Bangkok trova una sua definizione plastica. La fine della globalizzazione e la rinascita della Globalasian. Un fenomeno in atto già ma che il Covid ha alimentato, riuscendo in ciò che non era riuscito a Pol Pot nella sua volontà antiglobalista e ultra-tradizionalista.

«Una domenica di fine marzo a Bangkok. Caldo e acquazzoni. Una buona giornata per lavorare a un progetto che ormai è quasi un libro su Bangkok. La rassegna stampa quotidiana mi porta ad archiviare un articolo del quotidiano di Singapore, “The Straits Times”, sulla questione, più filologica che altro, del nome di Bangkok. Ma quell’articolo mi rimanda a un altro del gennaio 2021 sul piccolo tempio di Chao Mae Thap Thim. Il tempio si trova nella zona nord-est di Bangkok, poco oltre il Siriraj Hospital, il grande ospedale diventato una vera e propria cittadella medica da quando vi fu a lungo ricoverato re Bhumibol. Lo sviluppo dell’ospedale ha anche modificato l’area in un processo di gentrificazione che minaccia anche quel piccolo tempio.

Un articolo interessante, dunque, per il progetto cui sto lavorando. Senza contare che il tempio è anche consacrato a Mazu, è la Dea dei Mari, che ho sempre considerato uno dei miei spiriti protettori.

Quindi approfittando di una schiarita quel tempio diventa l’obiettivo perfetto per un giro in moto. E così mi avvio e, come quasi sempre mi accade, nonostante l’ausilio di Google Maps, mi perdo. Non esattamente. In realtà devio, allungo, forse perché non ho un supporto per il telefono e mi capita di riguardare il percorso proprio dopo aver superato il punto in cui avrei dovuto girare.

Alla fine, ci arrivo e come sempre, ancora una volta, soprattutto a Bangkok, il percorso si rivela più interessante della destinazione. Purtroppo, il tempio è chiuso e l’unico rammarico è di non poter vedere la statua della Dea. Per il resto appare molto simile a tante altre piccole pagode taoiste, senza alcun elemento di particolare rilievo. Ma questo è un altro discorso relativo al concetto artistico e architettonico religioso asiatico. Vedremo se sarà il caso di approfondirlo.

Il tempio, dicevamo, non ha nulla di particolare. Anzi, se ne vedono di più belli. E, almeno per ora, sembra scampato alla gentrificazione. In realtà l’ambiente circostante più che un nuovo quartiere residenziale appare l’immagine di una periferia industriale, di deposito, sotto l’ennesimo cavalcavia. 

Arrivando qua mi sono venuti in mente i “Padroni della Mappa”. Claudio Sopranzetti, giovane antropologo italiano definisce così i guidatori di mototaxi che nella “rivolta” popolare del 2010 svolsero il duplice ruolo di operatori del trasporto e mobilitatori sociali e quindi attori politici. Nel saggio Owners of the Map: Mobility and Mobilization among Motorcycle Taxi Drivers in Bangkok Sopranzetti analizza in modo originale le strategie di protesta urbana che a Bangkok furono accelerate e amplificate dai  “padroni della mappa”.

Bangkok

Personalmente quella definizione mi piace in termini psicogeografici, mi dà l’idea che solo muovendosi sul territorio in moto, quindi immersi in un contesto di strade, stradine, vicoli, aggirando regole codificate, si può “possederlo”. E così ripenso e riprendo coscienza di mappe perdute.

Più di dieci anni fa vivevo da queste parti, in un residence dall’altro lato del Siriraj, sopra un piccolo mercato. Un posto bello, tranquillo, tanto vicino al fiume quanto lontano dalla Bangkok della contemporaneità e degli expat. Me ne sono andato perché non era semplice vivere là. Troppo lontano da tutto. Forse avrei dovuto restare, e forse ci sono rimasto perché è là che è ambientato l’inizio di un altro libro».

Bangkok rizomatica

A questo punto comincia a delinearsi in modo abbastanza preciso il senso della scelta di Bangkok quale tema del libro, tanto più nell’ottica delle trasformazioni. È un percorso di modifica in atto ormai da lungo tempo. E sembra che Bangkok si adatti plasticamente a tutti i cambiamenti e a tutte le fluttuazioni della contemporaneità. Dal Covid, appunto, alla guerra in Ucraina, dal rinascere degli autoritarismi asiatici, al fenomeno (di cui credo che Bangkok sia un laboratorio) della tribalizzazione.

Come epifenomeni Bangkok è un catalogo delle sindromi che connotano il Sudest asiatico: il governo militare, gli intrighi di palazzo, la corruzione, le divisioni in caste-classi, l’economia di frontiera. Più il grande specifico della Thailandia, la casa reale e il tabù che la circonda. Un classico esempio di totem&tabù.

Il testo che segue, di diversi anni fa, mi sembra renda l’idea delle mutazioni che sono il segno di Bangkok, una megalopoli che continua a replicarsi nel cambiamento sino a divenire un archetipo.

«“Bangkok, sta a cavallo del confine tra acre e dolce, soffice e duro, sacro e profano. È una sega circolare di seta, un martello pneumatico laccato, una seduzione cinta d’acciaio, una preghiera digitale” ha scritto Tom Robbins nel romanzo Villa Incognito. Il libro è del 2003 ma ancor oggi è difficile trovare una descrizione migliore di Bangkok.

“La città del collasso”. Così la definiva Gaia Scagnetti, studiosa di scienza della complessità, quando insegnava alla Chulalongkorn University. Il suo era un pensiero critico, non una critica. “È un collasso positivo: la città vecchia e quella nuova non si sono trasformate in qualcos’altro, sono collassate nello stesso punto, combaciano. Se il termine collasso è ambiguo, cambiamo: Bangkok è rizomatica, come un rizoma, una radice che riproduce altre piante”.

Su queste contaminazioni si espande il rizoma di Bangkok. “Se vuoi capire Bangkok, però, devi scegliere se focalizzarti sui luoghi o sul movimento che generano. È il principio d’indeterminazione” dice Christopher G. Moore, scrittore che vive e ambienta qui i suoi noir.

“Come scrittore ho focalizzato la mia attenzione sulla contraddizione creata dal confronto tra tradizione e modernità. Specie nella surrealtà urbana” concorda Tew Bunnag, scrittore e maestro di arti marziali, appartenente a una delle più nobili dell’ammart, l’élite thai, che ha scelto di vivere in bilico tra le contraddizioni.  “La ricerca, anche nel fraintendimento, è importante” dice. “Serve per arrivare alla nozione di Dio”.

Ma ancora, nonostante Bangkok si riveli sempre di più un laboratorio della complessità, un incubatore di quel “pensiero debole” che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, da molti è rappresentata con un certo torbido compiacimento, come un santuario di vizi, un “cuore di tenebra”. È un’immagine alimentata anche dagli stessi noir di Christopher Moore o di John Burdett (ex avvocato inglese), che fa muovere il suo personaggio, un investigatore con trascorsi da monaco, tra magie, trafficanti e prostitute.

Il romanzesco è realtà. Parte della città si dice, sta collassando per l’acqua pompata dal sottosuolo per alimentare le jacuzzi delle sale massaggio – eufemismo per bordelli – grandi come alberghi (120 quelle registrate). È un fenomeno che ha ragioni altrettanto profonde dell’acqua, che si alimentano a una cultura edonistica, a una religione che non considera il sesso come un peccato capitale, e che si è amplificato negli anni Settanta quando Bangkok divenne la meta dei militari americani in licenza dal Vietnam. In quegli stessi anni Bangkok era l’ultimo terminale dei “vagabondi dell’Asia” in cerca di misticismi e paradisi artificiali. Per anni, poi, Bangkok è stata lo snodo di traffici d’ogni genere e santuario di trafficanti e rifugiati. Infine, è divenuta la meta di espatriati attratti più che dalla volontà di rifarsi una vita, quanto dal desiderio di migliorarne la qualità nel paese del sorriso, del sanuk, la filosofia del divertimento, dove la pensione vale di più e la vecchiaia sembra sospesa. Alcuni ci riescono, per molti altri si rivela una delusione e scatena depressione, tanto da indurli al suicidio. È una vera e propria sindrome culturale. “È come confrontarsi con la prima nobile verità del Buddha, il dukka, l’inevitabile sofferenza che segna l’esistenza” dice Tew Bunnag. “A Bangkok vivi nella sensazione di questo sottile equilibrio tra il dukka e il tentativo di cogliere ogni attimo di piacere che ti offre la vita”.

Un buon posto per trovare questo equilibrio, meditando in sale disseminate di cuscini a forma di pietra, è il Bia, il Buddhadasa Indapanyo Archives, edificio dall’architettura organica, a colonne sull’acqua del laghetto nel parco di Suan Rot Fai (accanto al famosissimo mercato di Chatuchak). Prende nome da Buddhadhasa Bhikkhu, “pensatore buddhista per il mondo moderno”, secondo cui secolare e spirituale non sono entità separate. È anche alla sua filosofia che si ricollegano molti artefici dell’ultima metamorfosi di Bangkok, che, come direbbe Gaia Scagnetti, sta facendo collassare gli stereotipi: sessuali, criminali, culturali.

“Bangkok ha bisogno di una visione” dice l’architetto Duangrit Bunnag, uno degli artefici del rinascimento culturale di Bangkok, di quegli intellettuali che credono nel caos creativo, nell’entropia del riutilizzo piuttosto che nella nuova costruzione. La sua visione, dunque, non è quella della grandeur in salsa thai. Anzi, è molto critica dell’attuale politica. È più vicina a quella del suo omonimo scrittore: collega la cultura al senso della vita. “Per rispettare la tua cultura la devi abbracciare, la devi smaterializzare, liberare dai condizionamenti finanziari”.

“Thai significa libero” dice Bunnag. “Il futuro della Thailandia sta tutto in una nuova generazione di creativi che pensi liberamente”».

 Bangkok noire

A poco a poco emergono tutte le caratteristiche che hanno fatto del toponimo Bangkok un brand, un coagulo di miti d’oggi (à la Barthes, evidentemente) ma anche riti, formati da letteratura, film, musica, tv, esotismo, orientalismo, immaginazione popolare thai e immaginario collettivo occidentale. Tutto “Very Bangkok” (sequel di “Very Thai”).

Come l’introduzione a Bangkok Noir, raccolta di racconti curata da Christopher G. Moore, che ben rappresenta alcuni dei miti, letterari e non solo, di Bangkok, in cui si ritrovano storie che ricorreranno nel libro. Ma soprattutto ne fa venire in mente altre. Come quella di The Serpent, la storia di Charles Sobhraj, alias Alain Gautier, un serial killer franco-vietnamita che negli anni Settanta ha ucciso almeno una dozzina di giovani occidentali per impadronirsi dei loro passaporti, dei contanti e dei traveller’s cheque che erano la forma di pagamento più diffusa. Una storia che era conosciuta solo dai cultori dei miti di Bangkok ma che è divenuta famosa per la serie Netflix. Su cui ho scritto un lungo testo, di quelli che andranno a far parte del libro e che mi coinvolge personalmente per molte coincidenze, a cominciare dal fatto che il colonnello thailandese dell’Interpol che è stato uno degli artefici della sua cattura vive nel mio stesso condominio.

Altra storia interessante e è quella dei “ladri di cadaveri”, che è divenuta una serie per Netflix col titolo Bangkok Breaking. Tra film, libri, racconti e articoli (anche miei) su spie, maghi, fantasmi, rapinatori si può scrivere un altro libro. Tutti uniti anche da luci, colori, umori, sensi di vita e paure di morte.

«La possibilità di un pericolo, come un battito cardiaco irregolare, è imprevedibile», ha scritto Moore nel testo precedente e non riesco a distaccarmi da quel pensiero. Una nota, come molte altre che può personalizzare questo Bangkok.

Considerando tutti questi elementi di fascinazione appare poco comprensibile a una mentalità occidentale o comunque esterna la decisione di sostituire progressivamente il toponimo “Bangkok” con Krung Thep Maha Nakhon. Certo per molti thai Bangkok mantiene un sottinteso ambiguo, equivoco. Quello che gli hanno dato molti occidentali di lingua inglese giocando su Bang, fottere e cock, cazzo. Battuta che ho personalmente sentito diverse volte, io stesso infastidito.

Il cambio di nome, in realtà, fa parte dell’ennesima mutazione della città, del suo percorso di asiatizzazione, di ricerca di una identità. Perché Bangkok presenta anche questo fenomenale paradosso: pur avendo un’immagine così forte, ancora non riesce a definirsi autonomamente, come vorrebbe o come vorrebbero i suoi abitanti. Forse i veri bangkokian sono gli espatriati.

Fuori dagli stereotipi

Tutto quello che precede è una sorta di perché un libro su Bangkok possa rivelarsi interessante e ancor più affascinante. Inoltre, si dovrebbero cogliere i motivi di novità nella presentazione di una megalopoli che ancor oggi ha difficoltà a liberarsi dagli stereotipi e a essere inquadrata in un contesto geopolitico ben più ampio.

In un certo senso uno degli obiettivi che mi prefiggo con questo libro è di rovesciare le prospettive poste dalla “Bangkok” di Lawrence Osborne.

A questo punto, seguendo le linee guida proposte dai curatori (che sembrano delineate proprio per Bangkok), indico di volta in volta alcune “scene” che verranno sviluppate.

A cominciare dal genius loci. Che ho identificato nell’Erawan Shrine, che si può ben definire il centro del centro della Bangkok moderna, commerciale, residenziale, dello shopping. È un altare con la statua del dio Brahma dai quattro volti sul suo elefante Erawan. Eretto settant’anni fa per propiziare la costruzione dell’hotel Erawan, è uno dei luoghi sacri più frequentati di Bangkok, dove, prima o poi, passano tutti a chiedere fortuna, denaro, amore, salute. Nel piccolo spazio attorno si esibisce in permanenza una compagnia di danza tradizionale, stazionano indovini, venditori di biglietti della lotteria, di incensi e ghirlande. Nel marzo 2006 la statua fu decapitata da uno squilibrato (linciato dalla folla). Il fatto fu interpretato come un segno di malaugurio nei confronti dell’allora premier. L’altare fu restaurato in meno di due mesi, ma ciò non cambiò la sorte del governo. Nel 2010, poi, tutta la zona attorno all’altare fu il fulcro delle manifestazioni delle “camicie rosse”, il movimento di tendenza popolare avverso all’establishment che occupò il centro di Bangkok. Proprio di fronte all’altare, a mia memoria, era collocato il centro stampa del movimento.

La zona attorno all’altare è indicata come la via della trasformazione thailandese alla modernità in un testo di Koompong Noobanjong, professore di architettura al King Mongkut’s Institute of Technology.

Bangkok

Questa stessa zona, in effetti, è oggetto di molte analisi sociologiche, antropologiche, urbanistiche. Per esempio: War, Trade and Desire: Urban Design and the Counter Public Spheres of Bangkok. In un altro mio testo veniva già presentata come Genius loci. Anzi, anima dei luoghi.

«“Il vero compito è trovare l’anima proprio dove all’inizio sembra impossibile” scrive James Hillman nel saggio L’anima dei luoghi. Il grande filosofo e psicologo recupera l’antica nozione di un’anima che tutto pervade, anche i luoghi estremi della società del consumo. E se c’è un luogo che dimostra la sua idea in modo esemplare, questo è il centro commerciale di Bangkok. Apparentemente le sue attrazioni sono i mega shopping-mall, i ristoranti, i bar, i locali notturni. Ma questi stessi sono i segni della ultramodernità asiatica, significativa nei suoi aspetti architettonici, economici e culturali. È proprio qui che la vita della città si manifesta in tutte le sue contraddizioni. Una zona, insomma, dove accade di mangiare un’ottima pizza napoletana a un tavolino sulla strada dove un elefantino, condotto in giro per vendere ai turisti noccioline da dargli da mangiare, blocca una lussuosa berlina tedesca guidata da un autista in livrea che trasporta una coppia di thai hi-so che hanno un tavolo riservato nel ristorante accanto. 

“A Bangkok non esisteva una strada dove passeggiare, non c’erano piazze. Adesso l’impianto urbano si sta modificando. Attorno ai grandi centri commerciali vengono aperti spazi pedonali, punti d’incontro. Il progetto è di creare a poco a poco una direttrice metropolitana come la Orchard road di Singapore”, afferma l’architetto Pat Chalermpanth, titolare di uno studio d’architettura di Bangkok. La sua osservazione vale soprattutto per la grande via Rama I (proseguimento della Sukhumvit verso ovest) e in particolare la cosiddetta “central shopping area”, cha ha come fulcro la fermata di Siam, dove s’incrociano le due linee dello skytrain. Una vera e propria piazza, anche questa con una fontana con giochi d’acqua, è stata aperta sul lato nord, a fronteggiare The Siam Paragon, lo shopping mall che si autodefinisce il più lussuoso di tutta l’Asia. E l’acqua scende a cascate sulle pareti di pietra della gradinata delimitata da palme che dalla piazza conduce al Siam Ocean World, il più grande acquario di tutto l’emisfero sud.

Poco oltre il Paragon, letteralmente incastrato tra questo e il grattacielo d’uffici di Central World, si trova il Wat Pathumwanaram, un “tempio reale di terzo grado”, costruito nella seconda metà dell’Ottocento da Rama IV. La sua peculiarità e unicità sta nella posizione, a comporre una specie di oasi sacra, profumata da grandi alberi di frangipani, in quello che sembra essere il regno del consumismo e degli affari. È, per l’appunto, “un’anima dei luoghi”».

 Il Wat Pathumwanaram diventerà poi tristemente famoso perché fu qui che vennero trovati sei corpi di manifestanti uccisi il 19 maggio 2010, al termine di tre mesi di proteste antigovernative, quando esercito e polizia entrarono nella zona occupata dalle camicie rosse.

Il Wat Pathumwanaram, il genius loci, l’anima dei luoghi, sono lo spunto per articolare un’idea che appare fondamentale nelle linee guida, ossia quella delle trasformazioni urbane a ogni livello. In questo caso Bangkok, capitale di un mondo così influenzato dal saiyasat, il sovrannaturale, presenta un unicum (forse solo paragonabile ad alcune città indiane o a Kathmandu), ossia tutto ciò che nella metropoli è legato alla religione, alla spiritualità, al misticismo, alla magia. E anche in questo sta subendo una metamorfosi. «Le forme contemporanee della religiosità thai ora sono più visibili dove la religione popolare è presentata come un prodotto, confezionata, mercificata e consumata», scrive l’antropologa Pattana Kitiarsa in Medium Monks and Amulets.

Le case degli spiriti

Questa parte, quindi, è dedicata a templi, monasteri, centri sacri, luoghi di culto, indovini, maghi, e case degli spiriti. Alle case degli spiriti come simbolo di un sincretismo religioso e magico è dedicato il testo seguente che s’intreccia anche ad altri temi già citati.

«Ogni mattino, alle sei in punto, una vecchia esce dalla sua casa affacciata su un soi, un vicolo, con una scopa e un cestino con qualche frutto, fiori e bastoncini d’incenso. Per dieci minuti si dedica alle pulizie e alle offerte della san phra phum, la casa degli spiriti, un tempietto dedicato agli spiriti, che si trova all’angolo con la Shukumvit, la via centrale di Bangkok. Poco dopo una ragazza vestita alla moda che sta andando al lavoro si ferma in meditazione bruciando un mazzetto di incenso. Ne seguono e passano molti altri, magari solo per un attimo di raccoglimento, sussurrare una rapida preghiera nel tempo di un wai. Le stesse scene si ripetono di fronte alla casa degli spiriti accanto all’Oriental hotel, allo shopping centre Emporium, alle sale di massaggio, ovunque. Le case degli spiriti segnano il territorio thai come punti di riferimento individuali e sociali, fanno parte del panorama urbano e rurale, sottintendendo l’esistenza di una dimensione parallela popolata dai phi, gli spiriti.

I phi sono entità immanenti alla natura di ogni essere, di ogni cosa e di ogni azione, determinano o possono determinare la vita, la storia, la natura. Nel bene e nel male un tale potere deriva – come accade in tutte le culture animiste – dal fatto stesso di crederci, dai pensieri, dalle parole e dalle preghiere rivolte agli spiriti. In Thailandia l’animismo che li ha generati si è poi alimentato ad altre fonti che, a loro volta lo hanno assimilato, canonizzato e adattato a una società e una cultura in trasformazione. I cinesi hanno trasmesso il culto degli antenati (che trovano anch’essi posto nelle case degli spiriti), mentre gli indiani si sono fatti portatori del pantheon dell’hindu-dharma, un sistema che include religione, misticismo, filosofia, arti, scienze e cultura come parti di una singola realtà. In questa corrente di pensiero vanno a confluire le diverse forme di buddhismo delle origini, in cui era più forte una componente magica: gli eremiti e gli arhat, gli illuminati, convivono con dei, semidei, eroi mitici e spiriti.

Questo intreccio mistico-esoterico non si manifesta solo nel gesto del wai o nelle offerte alle case degli spiriti, ma compone la trama di tutta la vita thailandese. La natura come luogo degli spiriti è la scena della nouvelle vague letteraria, così come le catastrofi naturali sono interpretate quali presagi di rivolgimenti politici. Secondo l’astrologo Samrit Klomkliang, per esempio, lo tsunami del 2004 era la nam thuam lok, la piaga delle acque, manifestazione di un ordine cosmico turbato dal comportamento umano (nel caso specifico del premier Thaksin). La stessa causa ha provocato l’ha kin muang, la piaga che distrugge la città, manifestatasi il 21 marzo 2006, quando un giovane ha decapitato a colpi d’ascia il Pha Phrom, la statua del dio Brahma dai quattro volti, collocata nell’Erawan shrine.

La commistione magico-religiosa appare in tutta la sua evidenza proprio nei luoghi di culto canonizzati, sconcertando il visitatore occidentale. Gli indovini, i maghi, i cartomanti, svolgono la loro attività indifferentemente nei mercati o all’interno dei monasteri (che nei giorni di festa divengono essi stessi luogo di mercato). Il Wat Mahatthat di Bangkok ospita quella che è ritenuta la più importante università buddhista del Sudest asiatico, nonché l’International Buddhist Meditation Centre, ma le strade e i vicoli dell’area circostante sono consacrate a un immenso mercato di amuleti, talismani, rimedi naturali che spesso ricordano le pozioni delle streghe».

Bangkok

È difficile separare la superstizione dal sincretismo (così come può verificarsi per alcuni aspetti della religione cristiana), soprattutto per un difetto di conoscenza delle religioni e della cultura che sono alla base dello spiritualismo thailandese (e orientale in genere). Così si possono osservare con divertito scetticismo le cerimonie di un monaco di un Wat di campagna, un santone cui si rivolgono i contadini per esorcizzare gli spiriti, guarire le malattie, ammansire i bambini “cattivi”, predire il futuro. Ma analizzando i suoi riti in modo meno superficiale, se non addirittura strutturale, si scopre che sono modi di volgarizzare norme morali e tecniche di comportamento trasmesse dall’induismo e dal buddhismo, riconducendole a una forma animistica più comprensibile. Traducendo la formula “magica” con cui scaccia il malocchio, ci si rende conto che non sta facendo altro che ripetere le regole dell’Ottuplice Sentiero, dal corretto pensiero alla meditazione, su cui si basa l’etica buddhista e che permettono di raggiungere la salvezza.

Conservare e reinterpretare

Conservazione monumentale / reinterpretazione delle rovine: questo tema è piuttosto complesso, anche per le implicazioni religiose. Nel buddhismo Theravada, infatti, uno dei modi di guadagnare meriti per il proprio karma è fare donazioni ai monasteri affinché vengano riportai allo stato originale. Il che impedisce a molti monumenti di trasformarsi in rovine, ma è anche un concetto che ha impedito a lungo un’evoluzione artistica e architettonica.

Le tracce da seguire in questa parte sono molte.

Innanzitutto, il processo di Singaporizzazione. Anche o proprio perché si dimostra velleitaristico e impossibile per differenze culturali, sociali, religiose e determinato soprattutto da una mal concepita grandeur da parte dei militari.

Nell’ambito della reinterpretazione delle rovine un particolare impatto hanno i graffiti che stanno letteralmente ridisegnando Bangkok. In questa prospettiva rientra anche il recupero (a volte solo apparente) di alcuni quartieri specie sul lungofiume destinati a nuove categorie sociali come quella dei Ba-Bo-Bo Bangkokian Bourgeois and Bohemien. Ed è qui che si inserisce il tema delle shophouse, le vecchie case bottega della comunità cinese. In molti casi sono abbandonate. In altre si assiste a un tentativo di recupero (molto spesso vanificato), in altri ancora sono il nuovo oggetto di speculazione.

Le speculazioni immobiliari maggiori vanno a collegarsi a un sistema feudale di proprietà.

I grandi condomini destinati a espatriati e, ancor più, a possibili investitori cinesi, che rappresentano un’economia parallela oggi destinata a collassare. Sembra riprodursi il fenomeno verificatosi nel 1997 dopo la crisi finanziari delle borse asiatiche. Di cui è esempio la “Ghost Tower”, un grattacielo oggi destinazione di culto per i cacciatori di brividi, i graffitari, gli amanti del mistero, dei fantasmi, dei suicidi.

Bangkok

Gli slum

Altro elemento interessante sono gli spazi degli slum. Anche perché a Bangkok gli slum sono incorporati nel tessuto urbano spesso accanto a zone molto ricche. Su questo tema ho ritrovato gli appunti del giorno in cui visitai lo slum di Bang Sue. Riguardandoli mi sembrano ben più forti di un pezzo strutturato ed elaborato. Tanto che comincio a chiedermi se non sarebbe il caso di riprendere gli appunti raw in molte più situazioni. Il crudo e non il cotto.

Slum di Bang Sue. Vicino alla ferrovia. Più a nord poco dell’ultima fermata della BTS. Dice ci vivono circa 16.000 persone. Sembra sia uno dei più pericolosi. Specie per trafficanti di ya baa e killer che vengono reclutati qui per poche centinaia di dollari. Da qui, sembra, siano provenuti molti rossi di quelli pagati.

La stranezza degli slum di Bangkok, integrati nella città.

Padre Adriano dice che sono popolati da 4 milioni di persone. Molti venuti qua a cercare fortuna. Quando il raccolto nell’Isaan va male vengono a Bangkok. Molti fanno i taxisti. Affittano il taxi dal padroncino per circa 1000 baht al giorno.

Molte donne fanno i fiori di carta o fibra di legno per i funerali. Il lavoro viene svolto a catena. Ogni donna ne fa un pezzo. La paga media è di 2.5 baht a pezzo.

Qui fanno lavori che sono il primo anello di una catena di tante cose prodotte in Thailandia.

Una donna, prima la chiamavano la madre yaa, pazza. Adesso la madre amore.

Si cammina su passerelle, in mezzo a una specie di palude. Povertà e soprattutto malattia, soprattutto aids. Lei ha due figli.

Anche le case degli spiriti sono baracche.

Oggi è giorno di festa.

Molta gente al tempio, i bambini a casa.

In tutte le baracche ritratti del re.

La donna vive qui da 8 anni.

La casa gliel’ha comperata padre Adriano perché i malati di aids non erano accettati.

I bambini sorridenti. Tanti wai, molto alti.

Una delle ragazze che lavorano qui l’hanno aiutata ad andare in Italia a studiare. Poi sperano che torni qui ad aiutare.

Interessante sentire come Padre Adriano si rapporta a questa gente. Sembra che racconti favole.

Il cambiamento avviene quando non si limitano a ricevere aiuto ma aiutano gli altri, dice.

La difficoltà del microcredito.

Il gesto della benedizione è quasi sciamanico. Riprende in parte quello dei monaci. Ma il fatto sorprendente è che si facciano toccare la testa. Segno che riconoscono una sorta di potere a padre Adriano.

Non cristiani ma si fanno benedire. La trasmissione di energie positive, ma anche il piacere di essere toccati perché nessuno li sfiora.

Tutto avviene qui, all’interno: vendita di droga, prostituzione, traffico di esseri umani. Una situazione di degrado umano più che di povertà assoluta, almeno secondo i parametri di questa parte di mondo.

Sotto la casa comune un coltello dentro un giornale.

Donna anziana che non si lavava mai.

La prostituta ancora attiva in visita al figlio.

Vengono qui a reclutare bambini e bambine. Le bambine come prostitute. I bambini come compagni di giochi per signori ricchi. Che li mantengono bene e li fanno studiate. Le famiglie quasi sempre sono complici. Anche se il termine non è giusto. In molti casi lo vedono come un bene.

Altra donna. Marito in carcere. La figlia sembra balli bene. Probabilmente avviata ai bar. Ha 12 anni. Secondo un’altra versione fa la maestra di danza. Comunque sia mantiene la madre. Differenze di visioni.

Tutti col telefonino. Vecchi tv.

Il figlio è voluto andare nella casa-famiglia di padre Adriano perché qui litigavano, lo picchiavano.

La donna mostra sacchetti di pillole e medicine per stress, pressione alta, depressione, aids.

Le fogne sotto le case, paludi e stagni con serpentelli d’acqua.

Un piccolo boss locale tatuato accucciato all’interno dello scheletro di una casa.

Il kathoey.

Non sembra esserci traccia di politica. Ma qui ti rendi conto di molte cose e di come la rivolta possa esplodere all’interno stesso di Bangkok.

Il ragazzo che fa l’università aiutato dal Pime e adozioni a distanza. Aiuterà gli altri? Un ciclo. Intrecci di piccole storie.

Popolazione che può superare la rassegnazione e arrabbiarsi.

Le donne raccolte a pregare.

Bangkok

Foto Shutterstock / Waruto Sama Studio

Le differenze verticali

Il tema dei cambi di destinazioni d’uso di territori, quartieri, dei dislocamenti; dei cambi di flussi di merci; del cambio di flussi migratori. Tutti questi temi a Bangkok sono tra i più complessi da sviluppare.

A Bangkok le differenze, più che orizzontali, differenze di quartieri ecc., sono verticali. È una metropoli postmoderna, divisa in un sopra di grattacieli e centri di potere e in un sotto di bassifondi al neon, disseminati da banchetti di street-food. Un’immagine “Bladerunneresque”. Il termine è stato coniato nel 1998 dal thailandese S.P. Somtow, compositore, direttore d’orchestra, scrittore di fantascienza, fantasy, horror. Somtow, a sua volta, si rifaceva a Blade Runner, il film uscito nel 1982 che presentava una Los Angeles del 2019 asiatizzata. Col passaggio del millennio e il trascorrere dei decenni nell’immaginario collettivo la scena si è spostata a Occidente (rispetto a Los Angeles: curioso il relativismo delle coordinate geografiche) ossia in Asia.

L’immigrazione dall’Isaan, il Nordest della Thailandia, la regione più povera, è un altro punto che ricorre in tutto il libro in diverse forme. Un fenomeno descritto nella Graphic Novel del già citato Claudio Sopranzetti, Il re di Bangkok. Un fenomeno che oggi si sta invertendo col ritorno ai villaggi e alle campagne di tutti e tutte coloro che hanno perso il lavoro per il Covid.

Nel frattempo, si è modificato il fenomeno migratorio birmano. Dopo il colpo di stato del febbraio 2020 è aumentato il numero di birmani “ricchi” che si sono rifugiati in Thailandia sia perché contrari al nuovo regime sia perché pur essendo legati ai militari volevano evitare una situazione potenzialmente pericolosa e, soprattutto, disagevole. Al tempo stesso, causa Covid, si è ridotto il numero dei lavoratori frontalieri ed è aumentato il numero dei profughi. Fenomeni che toccano Bangkok, pur marginalmente. Molte domestiche e camerieri nei ristoranti, infatti, provenivano dalla Birmania.

Altra componente fluttuante della popolazione di Bangkok che incide profondamente sulla struttura urbana è quella degli expat. In alcuni casi le comunità di espatriati hanno creato vere e proprie enclave (specie lungo la zona di Sukhumvit) che in seguito sono divenute poli d’attrazione per diverse classi sociali.

Specifico anche il tema della comunità cinese (che ritroviamo anche in altre sezioni) in un percorso storico che passa dalla prima immigrazione – che ha poi formato la comunità sino-thai divenuta la più importante economicamente – sino all’ultima generazione di cinesi che più che spostare la famiglia, come accadeva, spostano capitali investendo in Thailandia (soprattutto nel settore immobiliare). Un fenomeno che però sta rallentando se non fermandosi in seguito al Covid con conseguenze disastrose per l’economia thai.

 Bangkok e il suo caos

Un altro mio testo, emblematico della ricchezza di diversità di questa città. È sul quartiere di Kadeejeen, che rappresenta un unicum nella stessa Bangkok.

«È una sera di dopo pioggia: l’aria è ancora fresca prima di divenire afosa e profuma dei fiori di frangipani. Passeggio su una banchina lungo il Chao Phraya, il fiume di Bangkok. Non c’è rumore di traffico, solo dei battelli. Le luci sono i lampioni sulla banchina e le lanterne di un tempio. Sullo sfondo si accende lo skyline di grattacieli del centro. Vedo anche casa mia. Ci si può arrivare a piedi ma sembra all’orizzonte.

È strano. Anche chi ci abita vicino non lo conosce. E quando lo scopre magari vorrebbe venirci a vivere» dice Niramon Kulsrisombat, giovane professoressa dello Urban Design and Development Center dell’università Chulalongkorn. Parla di Kadeejeen, un chilometro quadrato di quartiere intersecato da trok e khlong, le calli e i canali che rendevano Bangkok la Venezia d’Oriente, dove convivono comunità buddhiste, taoiste, cristiane e musulmane.

Si trova sulla riva destra del fiume, poco a sud del Wat Arun, il tempio dell’alba, uno dei più famosi monumenti della capitale thai. Sull’altra sponda, c’è la festa mobile del Pak Klong Talad, il mercato dei fiori, e di Chinatown, una delle più grandi dell’Asia. A osservarlo da quella riva, Kadeejeen appare un panorama discontinuo: la guglia verde di una moschea, i pinnacoli bianchi dei chedi, i reliquiari buddhisti, i tetti ricurvi coperti da tegole dei templi cinesi, magazzini e facciate di case in legno, spazi che sembrano lembi di boscaglia da dove spuntano alberi di mango, papaya e banani, la facciata neoclassica della chiesa cattolica che ha “battezzato” il quartiere. 

Kadeejeen significa “abitazione cinese dei monaci”: la chiesa di Santa Cruz, costruita nel 1769 da un vescovo francese e dai suoi fedeli portoghesi, fu distrutta da una delle cicliche esondazioni e ricostruita nel 1835 imitando lo stile delle pagode cinesi. Quella che si vede oggi è la terza versione, costruita nel 1916 su disegno degli architetti italiani Annibale Rigotti and Mario Tamagno. Le dook malai, le ghirlande di fiori offerte agli spiriti degli antenati e al Buddha, sono deposte sotto la statua della Madonna».  

Bangkok

Fonte: Sitta Kongsasana

«“Una lettura del caos di Bangkok è un esercizio di comprensione della funzione del caos nella vita d’ogni giorno”, ha scritto Ross King, studioso delle “identità contestate” nelle città asiatiche. Secondo King il “caos” di Kadeejeen ha determinato la “giustapposizione”, l’accostamento tra elementi diversi. Altrove, alla ricerca dell’ordine, si verifica una “sovrapposizione”.

“La maggioranza dei parrocchiani sono thai-cinesi, ma gli antenati sono portoghesi”, dice la signora Tang, segretaria-perpetua di Santa Cruz, rivendicando sia la propria ascendenza lusitana e religione cattolica, sia il culto degli antenati che il buddhismo thai ha sincretizzato da quello cinese.

“Quest’area è l’epitome della composizione urbana di Bangkok. Ogni comunità riflette il proprio patrimonio culturale in tutti i suoi aspetti ma tutte sono strutturate secondo il tradizionale sistema sociale di “Baan-Wat-Rongrian”, comunità-tempio-scuola dice Niramon.

“Nella nostra scuola solo il dieci per cento degli è cattolico”, dice J. “Bosco” Wittaya Kooviratana, parroco di Santa Cruz. “Gli altri sono buddhisti e musulmani. L’insegnamento di religione è sia cattolico sia buddhista. I ragazzi musulmani, invece, la studiano nelle scuole della moschea, ma gli imam locali vengono spesso qui per incontrarsi con me e i monaci buddhisti. C’è armonia”. 

Secondo Niramon deriva da una tradizione cosmopolita. Qui, infatti, si trovava la dogana dove si fermavano le navi mercantili dirette ad Ayutthaya, settanta chilometri più a nord. Capitale del Regno del Siam sino al 1767, che aveva stretto relazioni con Cina, Giava, Malesia, India, Ceylon, Persia, Giappone, Portogallo, Francia, Olanda e Inghilterra. Kadeejeen divenne poi il centro di Thonburi, nuova capitale tra il 1767 e il 1772, dove il re Taksin il Grande fu seguito dai suoi alleati portoghesi, da mercanti cinesi e vietnamiti. Con la deposizione di quel re e il trasferimento della capitale sulla riva sinistra del Chao Phraya, è iniziato anche il declino di Kadeejeen. In tempi più recenti il quartiere è stato penalizzato dalla sua struttura: non è accessibile in auto ed è stato abbandonato da chi ha trovato lavoro nei nuovi insediamenti industriali.

“Molti degli abitanti hanno affittato le loro case a gente venuta da fuori, che non rispetta le nostre regole”, lamenta Vorachai Pilasrom uno dei leader della comunità.

“A chi vuole visitarlo consiglio sempre di mangiare e bere prima”, scherza Niramon. Il che, in una città dove a ogni angolo si trova almeno un banchetto che vende zuppe, è più che un paradosso.

In compenso, girovagando per i trok, dove le porte sono sovrastate dalle immagini della Sacra famiglia, della Madonna, dagli specchi taoisti per respingere i demoni o da piccoli azulejo, si scopre una bottega dove preparano i khanom farang, i “dolcetti stranieri” che riprendono una ricetta portoghese. Non sono quelli che mangiava Pessoa al “Café a Brasileira” di Lisbona – anche perché qui usano uova d’anatra e non c’è ripieno – ma Jek e Maam, le sorelle che rappresentano la quinta generazione di pasticceri, assicurano di prepararli come 200 anni fa. “Abbiamo solo ristrutturato il locale. Più alla moda”.

È uno dei piccoli segni di ciò che Nirman chiama la “nostalgia per le belle vecchie cose che si diffonde nella società thai” e che può innescare un processo di “rigenerazione” urbana sostenuto dalla “nuova attenzione della politica per la cultura”.

Seguendo questo progetto i trok sono stati ridefiniti come “piste ciclabili” ed è stato realizzato un tratto di passeggiata lungofiume che va dal monastero buddhista di Wat Kalaya sino alla base del Memorial Bridge costeggiando il tempio dao-buddhista di Kian An Ken e la parrocchia di Santa Cruz. Il piano era di proseguire, collegandosi alla zona sud di Kadeejeen. Peccato che il percorso sia bloccato da una palazzina in cemento. Dicono sia un casinò gestito dalla mafia locale.

Aggregazione, mercati e socialità

“I luoghi di aggregazione attorno allo scambio di merci, come i mercati popolari e la proliferazione come un virus di elementi alieni come gli outlet”.

Questo punto delle linee guida tocca una delle specificità di Bangkok, attrazione turistica, parte stessa del tessuto urbano, I mercatini sono aperti ovunque, lungo le strade principali, nei soi, attorno ai templi e alle zone monumentali. Sono, come nell’uso asiatico, un conglomerato di prodotti di ogni tipo e genere, destinati sia ai turisti (in epoca pre-Covid) sia ai locali. Uno per tutti quello di Chatuchak. È la madre di tutti i mercati thailandesi, probabilmente uno dei più grandi di tutta l’Asia, visitato ogni weekend da oltre 200.000 persone. Comprende quasi 10.000 punti vendita Chatuchak è un piccolo mondo a sé, un microcosmo di cultura e tradizioni thai. Altri mercati come il Tha Prachan, il mercato degli amuleti e dei talismani, o il Pak Klong Talaat, il più grande mercato all’ingrosso di fiori, piante e prodotti ortofrutticoli rappresentano un unicum di Bangkok. In realtà i mercati rappresentano un metaverso di Bangkok che credo debba proprio essere analizzato in quanto tale.

Il fenomeno ha una sua deviazione in quello degli shopping-mall, i templi della Bangkok contemporanea. Attenzione però a non considerarli non-luoghi in opposizione ai mercati in quanto anche i mall sono un’espressione della cultura edonistica thailandese.

I mercati e i mall hanno tutti subito profonde mutazioni (in alcuni casi sono divenuti “rovine” nel senso dato al termine da Marc Augé) in conseguenza del Covid e della crisi economica. Solo i mercati, invece, sono toccati dal processo di singaporizzazione in atto che li limita, li circoscrive, quando non li abolisce quali luoghi simbolo di un’identità misera, sporca. Problema che così non solo non viene risolto ma addirittura amplificato. Eliminando banchetti e bancarelle, infatti, viene a mancare chi si occupava della pulizia della strada.

In questo specifico ci sono poi casi più complessi. Innanzitutto quello di Chinatown, in quanto quartiere di mercati, di aggregazione, centro gastronomico e culturale, toccato sia dalla volontà dei governi semicivili di cambiare volto a Bangkok, sia dal Covid, con la conseguente scomparsa del turismo cinese.

Altro esempio interessante che s’interseca (come i precedenti, peraltro) con la tematica degli spazi adibiti o riservati ad aggregazione improntata alla socialità, è quello del quartiere di Banglampoo e, in particolare di Khaosan Road, il nucleo storico degli hippies, poi dei backpackers con tutte le luci e le ombre, i problemi, gli equivoci, gli stereotipi che questo comporta. Il che non piaceva a Sakoltee Phattiyakul, vicegovernatore di Bangkok che ha proceduto a un’operazione di maquillage che ha totalmente snaturato il genius loci.

La smart city

Il tema delle smart cities trova a Bangkok una rappresentazione plastica, sia pure in divenire. È One Bangkok, un iperprogetto di quartiere nel bel mezzo della città. E proprio accanto ai margini dello slum di Khlong Toey. Il tutto, ovviamente, amplifica sia i meccanismi di controllo sia l’immagine bladerunneresque.

La mobilità urbana si esprime soprattutto nel contrasto tra il sistema integrato del rapid transit (metropolitana, skytrain, ossia la metropolitana sopraelevata, monorotaia e bus rapidi) e il sistema di trasporti pubblici di bus e songtaew (pick-up adibiti al trasporto persone). Tanto il primo è efficiente, rapido e comodo, tanto l’altro è scomodo, soggetto a un traffico interminabile e soprattutto sprovvisto di aria condizionata. In compenso quest’ultimo è economico mentre il primo è molto costoso, tanto che è utilizzato solo dal 3 per cento della popolazione locale. Un tema che andrebbe ampliato riconsiderando l’importanza dei mototaxi.

Efficienza sanitaria: hospitality e servizi

Il sistema sanitario thailandese e il livello delle sue strutture ospedaliere, almeno considerandolo in relazione all’area Asean, si può considerare tra i migliori, se non il migliore. La stessa immagine del Siriraj hospital, dove ha praticamente trascorso gli ultimi anni della sua vita il precedente re, è la rappresentazione di un sistema efficiente.

A livello personale osservo ogni giorno le code di persone che attendono per un tampone o per la vaccinazione nell’ospedale accanto al mio condominio e ne ricavo un’impressione “tranquillizzante”.

Il testo che segue presenta un’altra realtà del sistema, quello degli ospedali privati e del loro impatto nella struttura sociale e urbana, ma dà anche qualche cenno sul pubblico.

«La card del BNH (il Bangkok Nursing Home Hospital) o del Bumurngrad Hospital, è una specie di talismano per viaggiatori ed espatriati in Sudest asiatico.

Basta telefonare appena sbarcati al Suvarnabhumi Airport e mezz’ora dopo si è accolti da un’efficiente, impeccabile impiegata in tailleur che ti accompagna al reparto dove ti attende il medico. Se devi ripartire da Bangkok il giorno seguente, ti consiglia un ricovero in day hospital per le analisi del caso. Nelle ore che seguono sei costantemente accudito da sorridenti infermiere e più tardi, in genere dopo aver consumato un pasto scelto tra quattro menù (due orientali e due occidentali) oppure à la carte, il medico ti illustra in dettaglio il tuo quadro clinico, che sarà poi inviato via mail con tutti i risultati delle analisi. Se non ci sono problemi, ti dimettono, consegnandoti un sacchetto che sembra quello di una boutique di Gucci, con la fattura, il referto e le medicine.

Ospedali come il BNH o il Bumurngrad sono anche la meta per il check-up annuale, che si svolge in giornata (previa prenotazione ventiquattro ore prima),

Ma considerarli solo per le emergenze o il controllo periodico è riduttivo. Almeno secondo Thanasit Siripokhakul, responsabile marketing del BNH. “Il turismo medico sta entrando in una nuova fase. Non si approfitta più della vacanza per un check-up ma ci si va a far curare e se ne approfitta per una vacanza. In quest’ottica si valuta il rapporto qualità-prezzo, non il risparmio” dice Thanasit, che vanta l’altissima specializzazione del suo istituto nel campo della chirurgia spinale mini-invasiva.

Tecnologie d’avanguardia, standard medico, ottimo rapporto qualità-prezzo e la cultura thai per l’ospitalità, hanno reso la Thailandia un medical hub, destinazione privilegiata per viaggiatori che hanno scelto di curarsi qui. Secondo il Kasikorn Research Centre sono un milione e mezzo circa di pazienti di 150 nazioni.  «Senza contare gli expat, gli stranieri residenti in Thailandia, ci sono diverse tipologie di turismo medico» spiega Ruben Toral, direttore marketing del Bumurngrad. “C’è chi approfitta di una vacanza per sottoporsi a trattamenti soft: cure dentistiche, interventi estetici. Ci sono business traveller che si prendono un giorno libero per un check-up. C’è chi è arrivato per cure più importanti ma vuole cogliere l’occasione di andarsene un po’ in giro”.

Il Bumrungrad International Hospital Campus di Bangkok.

Per soddisfare le esigenze di tutti, gli ospedali finalizzati al turismo medico e al mercato degli expat hanno aperto nelle centrali Shukumvit e Sathorn road, tra i grandi alberghi e i grattacieli delle banche e delle multinazionali, e si sono attrezzati con business centre, agenzie di viaggio e disbrigo pratiche, interpreti. Oltre a tutti i servizi di un hotel cinque stelle: ristoranti, coffee shop, Spa.

L’attrazione maggiore dell’hospitality, dunque, è rappresentata dai servizi. I costi sono un richiamo soprattutto per gli americani, che qui risparmiano circa otto volte. Per i cittadini della Comunità Europea, grazie alle politiche di welfare, la convenienza è limitata alle prestazioni non coperte dai servizi sanitari nazionali e il risparmio maggiore è soprattutto nei tempi di attesa, praticamente azzerati.

Lo sviluppo della Thailandia come medical hub, tuttavia, ha creato qualche timore sulle conseguenze sul sistema medico nazionale. Un ragionevole dubbio riguarda dove preferiscano lavorare i medici. Difficile credere che siano molti gli “illuminati” che sceglieranno di operare nelle più remote province del paese, anziché in un ospedale privato. Secondo il dottor Nabahawacharakul, però, i problemi sono compensati dai progressi: “Sono molto orgoglioso del servizio medico thailandese: sono stati fatti enormi passi avanti da quando mi sono laureato, vent’anni fa”.

Orgoglio a parte, è un fatto che il sistema sanitario thai si sia rivelato efficace: gli indici di aspettativa di vita e mortalità infantile sono tra i più positivi dei paesi in via di sviluppo e nettamente migliori di quelli dei paesi dell’area. Dal 1975, infatti, il governo ha iniziato un programma di welfare per assistere le fasce più povere. Quindi è stato istituito il Social Security Scheme, un sistema di previdenza misto (contributi obbligatori e assicurazioni private), in cui la contribuzione media era del 4.5% sullo stipendio. Nell’ottobre del 2001, per garantire a tutti l’assistenza medica, è stato introdotto lo Universal Health Care Scheme, più conosciuto come “piano dei 30 bath”, un programma di assistenza medica secondo cui ogni cittadino può essere visitato a una tariffa standard di 30 bath (circa 60 centesimi) per visita, mentre i medicinali sono gratuiti.

Per far fronte all’aumento della spesa si sta rivalutando la medicina tradizionale: è stato calcolato che il solo uso delle erbe medicinali anziché farmaci di sintesi può far risparmiare allo stato circa 3 miliardi di bath l’anno (62 milioni di euro). Il valore della medicina tradizionale, però, non è solo economico. “La medicina occidentale richiede ricerche e dati. La nostra comprende una quantità di fattori che non si possono verificare con l’esperienza. Si basa su un concetto di forze che devono essere poste in equilibrio, piuttosto che sul concetto sintomo-analisi-cura. Ma quando il sapere popolare è tradotto in cultura contemporanea, si possono scoprire nuovi modelli terapeutici” spiega Pennapa Subcharoen, direttrice del National Institute of Thai Traditional Medicine».

La cultura globale asiatica a Bangkok

Lo spirito della città dal punto di vista della storia culturale, la custodia e la valorizzazione delle espressioni artistiche, la creazione di eventi e delle loro interpretazione tra musica, arte, discipline artistiche e loro influenza… Sarebbe bello riuscire a ricondurre a questa analisi più scientifica l’atmosfera della città, per cui il piglio è assolutamente lasciato all’estro dell’estensore: narrazione personale, analisi impersonale, dati su cui improntare il fulcro della propria esperienza amalgamando lo sguardo esterno con il coinvolgimento emotivo.

«A Bangkok ti rendono protagonista. Se sei bravo o no, non importa», dice Andy Martin, un vecchio musicista e viaggiatore. Se dopo molti vagabondaggi si è stabilito qui – si esibisce all’Adhère, un club di Banglamphu – è per lo spirito di Bangkok. Secondo lui è blues.

La linea guida, che condivido appieno, è tutta qui, con una coincidenza assolutamente non casuale.

Questa parte è una delle più complesse del libro. Cito alcuni elementi:

  • Bangkok come location di film. Pre-Covid ne venivano girati oltre mille.
  • Come tema di film.
  • Oggetto di serie televisive Netflix.
  • Bangkok come scena letteraria, nei romanzi di Tew Bunnag, Prabda Yoon, figura di spicco dell’ambiente culturale e creativo thailandese o Saneh Sangsuk.
  • Bangkok come scena musicale. Da quella dei locali di jazz e blues a quella dei gruppi rap, una realtà molto attiva e interessante. Il più noto è Rap Against Dictatorship, il cui primo lavoro “Prathet Ku Mi” (Questo è il mio paese) è divenuto virale globalmente. Vi consiglio di guardare il video.

Per quanto il milieu culturale possa apparire a volte ingenuo e superficiale (sempre condizionato dall’edonismo dello spirito thai) Bangkok comincia a divenire uno dei centri della cultura globale asiatica, un melting pot di tendenze, un laboratorio di visioni. È come se tutti qui venissero contagiati da una specie di realismo magico che s’infiltra in ogni narrazione.

«Hai già mangiato?»

Le linee guida del libro suggeriscono “l’analisi dell’incidenza del comparto eno-gastronomico su una città, se questo è particolarmente rappresentativo”. A Bangkok lo è (solo quello gastronomico, non enologico, anche se i thai iniziano ad apprezzare il vino).

Qui un testo dedicato alla gastronomia, in particolare allo street food. È stato realizzato in epoca prepandemica. Ora la scena ha subito una profonda mutazione che credo sia destinata a mantenersi. Ma lo street food sarà sempre più centrale nella vita dei bangkokiani anche per le ristrettezze economiche.

«Altra iniziativa di marketing governativo è l’edizione della guida Michelin dedicata a Bangkok, che ha riscosso più attenzione mediatica del rinvio delle elezioni al 2019.  Ciò che ha fatto davvero notizia è l’assegnazione di una stella al Jay Fai, un “umile” ristorante a pochi passi dal quartiere dei backpackers (l’omelette al granchio è davvero stellare).

“Kin khao reu yang?”. In Thailandia è un saluto comune, specie tra le classi popolari. Significa “Hai già mangiato?”. Qualunque sia la risposta, in genere è seguita da un Kong kob kiao, un invito a “mangiare una cosa”.

I thai mangiano tre volte il giorno, a colazione, pranzo e cena, ma soprattutto alternano i pasti principali, piuttosto leggeri, con una serie di spuntini. Sono momenti di sanuk, gioia di vivere, concetto basilare nella cultura locale. Proprio per questo preferiscono farlo in compagnia e fuori casa. Nella maggior parte dei casi si ritrovano “foot bat”, sul marciapiede, con un’espressione anglo-thai che indica lo street food, il mangiare per strada, generalmente seduti di fronte a un rot khen, un carretto-cucina, a un banchetto o in un piccolo ristorante sotto una tettoia. A Bangkok ne sono censiti circa 1600, cui si aggiungono quelli senza licenza. Senza contare gli hahp, i banchetti umani, quei bilancieri di bambù cui sono sospese due ceste di cibi pronti che il venditore porta in giro sin nei vicoli più stretti. All’opposto, nei più lussuosi shopping mall, interi piani sono consacrati allo street food in versione hi-tech. Ideali per chi vuole provare il cibo di strada senza preoccupazioni igienico-sanitarie.

Bangkok

Come non c’è angolo della metropoli in cui non si ritrovi un banchetto, persino ai piedi dei grattacieli delle multinazionali di Sathorn road, ogni momento è buono per uno snack. I rot khen e le cucine dei mercati aprono verso le 5 del mattino e proseguono ininterrottamente sino alle 21. Durante le ore d’ufficio è un andirivieni ai banchetti di kanom, dolcetti a base di riso glutinoso, pasta di cocco e gelatine. Sono il pretesto per una pausa, l’equivalente thai dell’espresso. David Johnson, inglese stabilito in Thailandia, direttore della casa editrice Asia, lo chiama “Kanom Factor”: “Può risolvere quei momenti di tensione che si creano in ufficio” assicura.

In serata ci si sposta ai tavoli dei night market, i mercati notturni (che aprono verso le 18), dove i banchi di gastronomia si alternano a quelli d’abbigliamento. Da mezzanotte in poi il punto d’incontro sono i venditori ambulanti che battono i quartieri a luci rosse come Nana o Patpong e i soi, le vie, laterali di Sukhumvit road, l’arteria principale di Bangkok. La loro specialità sono i takataen, i grilli fritti: le ragazze dei bar ne sono ghiotte.

“Finché c’è riso nei prati e pesce nei fiumi, la gente sarà felice” recita un antico detto thai. Ma la cultura gastronomica nazionale va ben oltre questa semplicità buddhista. Da secoli la Thailandia è polo d’attrazione per migranti, mercanti e trafficanti di ogni parte dell’Asia, che prima o poi si ritrovano tutti a Bangkok, portando con sé dei, demoni, droghe e spezie.

Bangkok

«A Bangkok si può gustare il miglior street food del mondo perché il mondo s’incontra nelle strade di Bangkok”, sostiene Vatcharin Bhumichitr, guru della cucina thai. Vi si ritrovano gusti e sapori khmer, lao, malaysiani, indiani, birmani, cinesi».

“I noodles sono una delle grandi religioni laiche della Thailandia”, ha scritto Ung-aang Talay, il più noto dei critici gastronomici locali. E i tagliolini, in tutte le loro varianti, sono la base dello street food».

Luci rosse

«La collocazione e la gestione degli eventuali quartieri a luci rosse e come si inseriscono all’interno del funzionamento cittadino» è un tema proposto nelle linee guida. Per Bangkok è un tema inevitabile, complesso, ambiguo, che molto spesso falsa qualunque immagine della città e del paese. Un tema che intendo sviluppare sia in forma narrativa, sia “antropologica”.

«L’industria del sesso si è sviluppata dagli anni Cinquanta e Sessanta, durante le guerre di Corea e del Vietnam, quando i militari americani trascorrevano in Thailandia il periodo di R&R, rest and recreation. Da allora ha continuato a espandersi. Ma se il fenomeno è divenuto così rilevante, la responsabilità non va ascritta all’influenza occidentale, come spesso fanno i critici della “globalizzazione”. Deriva da un atteggiamento culturale locale. «La società ha sempre accettato il concubinaggio e la prostituzione» spiega la professoressa Pasuk Phongpaichit. E frequentare i bordelli è una forma di socializzazione. Alcuni sono un vero e proprio status symbol, club esclusivi a cui possono accedere solo i rappresentanti dell’élite. Contrariamente a quanto si crede, gli imprenditori e i manager occidentali si trovano spesso in imbarazzo quando sono invitati a concludere la giornata di lavoro “in compagnia”.

Secondo questa cultura in cui il sesso non è “peccato”, la prostituzione non comporta un giudizio negativo. Lo si avverte in modo preciso nei villaggi più remoti, dove ci si vanta della figlia che “è andata a lavorare a Bangkok”. Per molte donne la prostituzione diviene così la scelta più comoda: per l’acquisto di abiti firmati, superare un momento di delusione o addirittura per elevarsi socialmente. In molti casi, stanche di lavorare come cameriere, cominciano a prostituirsi e tornano nel ristorante dove servivano per esibire i segni materiali dei nuovi guadagni. Magari con un fidanzato che mantengono solo per dimostrare che esercitano potere su qualcuno.

Per moltissime giovani, poi, la prostituzione è un obbligo determinato dal vincolo del debito. Le donne, infatti, non possono divenire bikkhuni, ossia monache Theravada. Il che significa che alle bambine di famiglie povere, specie nelle remote zone rurali, è praticamente preclusa ogni forma d’istruzione. Ancor maggiori le implicazioni psicosociali: col noviziato, infatti, i ragazzi acquisiscono meriti non solo per il loro karma, ma anche per quello dei loro genitori. Il che consente di ripagare il debito morale (e materiale) contratto con loro. Le ragazze, invece, non hanno tale possibilità e questa, in alcuni casi, è la ragione che le spinge in città cercando di far fortuna come prostitute.

Alcune di loro, le più belle o fortunate, si assicurano una vita migliore come “mia noi”, moglie minore. Figura difficile da definire negli schemi socioculturali occidentali, aiuta a comprendere la concezione thai del rapporto sessuale: è un’amante, ma di status superiore, anche perché è lei stessa uno status symbol e, in quanto tale, è spesso accettata dalla moglie “maggiore”. La stessa concezione del sesso distinto da valutazioni morali spiega anche la presenza così evidente dei kathoey, i travestiti o transessuali (spesso definiti anche lady boy) che in Thailandia rappresentano davvero il terzo genere, nel senso che sono accettati (anche se spesso in modo caricaturale) in tutti gli strati sociali.

È chiaro tuttavia che tanta disinvoltura e lo sfruttamento economico che ne è derivato abbiano creato non solo equivoci ma anche deviazioni culturali.

“Le tre cose più importanti per un uomo sono il sesso, il denaro e il potere”. Parola di Chuwit Kamolvisit, fondatore del Phak Rak Prathet Thai, Amare la Thailandia, un partito ultrapopulista. Chuwit, noto come “il re delle sale da massaggio” è l’ideatore dei bordelli di lusso thai. “Ho applicato lo stile della lounge alla sala da massaggio per creare un ambiente rilassante”, spiega Chuwit, che ha introdotto anche altre innovazioni. “Le ragazze sono free-lance, vanno e vengono quando vogliono e possono rifiutare un cliente. In questo modo ho reclutato quelle che non sarebbero state disponibili». È nelle salette Vip dei suoi locali che si ritrovano, senza cercare di nascondersi, i rappresentanti politici ed economici dell’ammart, l’élite thailandese. “In parlamento ho incontrato molti vecchi clienti”, dice Chuwit.

“La nostra società ha sempre accettato il concubinaggio e la prostituzione. Perdere la verginità in un bordello è un rito di passaggio per i giovani thai”, spiega la professoressa Pasuk Phongpaichit della Chulalongkorn University di Bangkok, autrice di “Guns, Girls, Gambling, Ganja”, saggio sull’economia illegale. «Frequentare i bordelli è una forma di socializzazione, un’occasione d’incontro tra colleghi, un modo informale di fare affari. Alcuni sono un vero status symbol riservati ai rappresentanti delle élite».

“Per la nostra concezione del sesso, così intrecciata alla religione, non riusciamo a comprendere gli orientali”, dice John Burdett, ex avvocato inglese espatriato in Thailandia, autore di thriller che hanno per protagonista un detective buddhista. “Per loro è più importante assolvere i propri obblighi nei confronti della famiglia, del villaggio, non ‘perdere la faccia’ con comportamenti che possano danneggiarli. E il sesso non rientra tra questi. Personalmente mi sento molto più libero qui”.

Tanta “libertà” può essere motivo d’imbarazzo per gli occidentali in cui sia più radicata la cultura della colpa. Tanto che una guida per businessman in Thailandia mette in guardia contro gli inviti alle cene di lavoro avvertendo che spesso si concludono in un bordello. Una volta là, non ci si può limitare a bere un whiskey. Rifiutare la compagnia sarebbe considerato scortese, significherebbe davvero far perdere la faccia al proprio ospite.

Contrariamente all’opinione diffusa secondo cui sarebbe stata l’influenza occidentale a “corrompere” l’originaria innocenza orientale, quindi, sono gli occidentali, in particolare gli anglosassoni, a sentirsi minacciati dalla disinvoltura sessuale asiatica».

Lo spettacolo della Condition Humaine

«“Siedi e goditi lo spettacolo della Condition Humaine”, dice Eric, un francese espatriato in Thailandia. Il suo palco è il bancone di un pub all’ingresso del NEP, il Nana Entertainment Plaza, una delle zone a luci rosse di Bangkok. È una specie di corte occupata da una decina di locali identici: un tavolo da biliardo e un bar dove siedono ragazze in top e microshort. Nei palazzi attorno, sulle scale e sulle terrazze, si aprono altri bar, ristoranti, bordelli, sale massaggi. Ai piedi di una rampa di scale mobili è collocato un san phra phum, un tempietto dedicato ai Phi, gli Spiriti. Le ragazze s’inchinano, giungono le mani sulla fronte nel gesto del wai, bruciano un mazzetto d’incenso, depongono un mango o un dolcetto per propiziarsi una serata proficua. “I farang, gli stranieri, non capiscono che per queste ragazze loro sono soprattutto un mezzo di emancipazione sociale. Quando una cameriera comincia a prostituirsi vuole tornare nel ristorante dove lavorava per far vedere che ce l’ha fatta. Magari ci va con un fidanzato che lei mantiene. E le sue colleghe la osservano con invidia”. Per molte giovani, poi, la prostituzione è un obbligo determinato dal vincolo del debito morale contratto con i genitori. In Thailandia, poiché non è loro concesso di far parte della comunità monastica e quindi estinguerlo in tal modo – guadagnando meriti per la famiglia – spesso sono costrette a prostituirsi per compensarli in denaro.

Tutto ciò ha radicalizzato l’equivoco che grava sul viaggio in Thailandia, identificato come un pretesto per uomini in cerca di sesso facile. Spesso è così, ma ce ne sono molti altri che cercano l’ultima occasione della vita: realizzare il sogno di un posto di tranquillo esotismo, dove non c’è stress e possono sentirsi liberi in dolce compagnia. Lo dimostra il costante aumento delle “mia farang”, le mogli di stranieri. “Le donne thai hanno meno pretese e sono più disponibili a comportarsi secondo il ruolo tradizionale femminile”, dice l’ineffabile Eric. Una delle parole inglesi più ripetute da queste donne è handsome: bello, prestante. L’aggettivo, applicato indiscriminatamente, alimenta le illusioni degli occidentali che pensano di avere uno speciale charme o speciali attributi».

Tieniti Informato con OGzero

Ti terremo aggiornato sulle principali novità di OGzero

Non invieremo Spam – Poche email ma buone –