n. 8 – Siria (I): la precarietà dei siriani accolti in altri paesi
Nella serie di articoli dedicati alle rotte mediorientali della raccolta di analisi stilate da Fabiana Triburgo sulla questione migratoria la sezione siriana si compone doverosamente di alcuni interventi ciascuno dedicato a uno dei molteplici aspetti che presenta questa diaspora, biblica per proporzioni, e vicissitudini toccate ai più di 12 milioni di individui siriani coinvolti nella catastrofe umanitaria che ha fatto seguito allo scatenarsi del conflitto siriano dell’ultimo decennio.
Analizzeremo dapprima nel presente articolo le condizioni attuali di siriani ormai integrati in realtà esterne al paese ai quali ora viene chiesto di rimpatriare, rischiando ritorsioni, torture… la vita e rinunciando alla nuova esistenza costruita faticosamente in esilio. L’analisi proseguirà nei prossimi articoli seguendo un percorso parzialmente a ritroso: le elezioni del 26 maggio, con una disamina della condizione economica e umanitaria in cui si sono svolte; la specificità della Primavera araba nelle diverse regioni siriane, anche collegata alla particolare peculiarità del regime alauita della famiglia al-Assad; le fasi della politica di Bashir – fino alla Primavera araba e dal 2011 in avanti.
n. 8, parte I
I principali conflitti che attualmente interessano le migrazioni forzate e le prassi di esternalizzazione poste in essere dall’Unione Europea e dai singoli stati membri portano a una predeterminazione delle rotte dei migranti.
Quello che oggi è inevitabile chiedersi è se il nuovo Patto europeo sulla migrazione e l’asilo, proposto dalla Commissione UE, possa essere realmente considerato una soluzione della gestione del fenomeno migratorio o se invece vi siano soluzioni legali alternative maggiormente lungimiranti e coraggiose.
Il conflitto siriano: la precarietà dei siriani accolti in altri paesi
Per l’analisi del conflitto siriano, per capire quanto esso possa dirsi risolto o perdurante, è inevitabile guardare alle condizioni della popolazione civile avendo assunto tale conflitto, a dieci anni dal suo inizio, i caratteri di una vera catastrofe umanitaria con 12 milioni e mezzo di persone che necessitano di assistenza, più di 500.000 vittime e circa 7 milioni di sfollati interni al paese, il più alto numero al mondo, e più di 6 milioni di persone fuggite dal conflitto; gli sfollati e i profughi rappresentano circa un terzo dell’intera popolazione siriana. Stiamo parlando di dati, quindi di numeri? No. Oltre al contesto geopolitico attuale a essere importanti vi sono le vicende di ogni individuo, adulto o minore – accompagnato o meno; anche perché tra questi individui ce ne sono alcuni in fuga ancora oggi, così come nel corso degli ultimi dieci anni, che raggiungono l’Italia in situazioni disperate, o l’Europa, o ancora altri paesi della regione mediorientale come il Libano, la Turchia, la Giordania e l’Iran. Persone che hanno tentato con tutte le loro forze di ricostruire la propria esistenza nei paesi di accoglienza e che nel corso degli ultimi anni spesso sono riuscite in questa complicatissima impresa esistenziale portando con sé nell’animo le immagini orride della guerra e delle loro passate esistenze ormai divenute un mero ricordo.
Il “fattore umano”
E ora?
E ora si sta chiedendo loro di ritornare di nuovo in Siria dopo circa dieci anni di integrazione fatta di apprendimento di nuove lingue, di acquisizione di un nuovo lavoro, di nuove relazioni sociali intessute e dopo un iter burocratico che li ha portati a conseguire permessi temporanei di soggiorno in altri paesi e, in Europa – nella quasi totalità dei casi – al raggiungimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria.
Si sta indirettamente però sostenendo a partire dalla scorsa estate, da parte dell’Europa, più precisamente dalla Danimarca, che in Siria non vi sarebbe più alcun rischio effettivo di subire un grave danno in particolare costituito dalla minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (protezione sussidiaria) – né sarebbe più ravvisabile in molti casi ancora il timore fondato di essere perseguitato per uno dei cinque motivi individuabili nella Convenzione di Ginevra del 1951 (status di rifugiato).
Davvero?
Eppure si continua a parlare di crisi umanitaria nel paese: l’Unhcr considera lo scenario siriano ancora allarmante e le Nazioni Unite più in generale a oggi parlano con riferimento alla Siria di “situazione oramai alla deriva” fino alle affermazioni di uno dei suoi organi più importanti ossia il Consiglio di Sicurezza che ha anticipatamente delegittimato, a esclusione di Russia e Cina, qualunque risultato elettorale dovesse emergere dalle elezioni del prossimo 26 maggio.
Non solo, come vedremo in seguito, citando alcune Coi (Country Origin Information), sarà possibile per ogni lettore farsi un’idea se realmente la Siria odierna possa considerarsi un paese d’origine sicuro.
Vorrei quindi iniziare da alcune singole vicende umane di individui provenienti dal conflitto siriano, pur consapevole che secondo autorevoli autori in materia, la geopolitica deve essere sì definita come il “fattore umano” e non quindi come una sorta di meccanica che prescinde dall’uomo, ma allo stesso tempo debba soffermarsi non tanto nella considerazione dei singoli individui ma piuttosto sulle comunità ossia sui soggetti geopolitici; sono tali soggetti a fare la geopolitica: la pensano, la attuano o la cambiano ma senza le collettività, aventi un’idea della propria missione (o che dovrebbero averla) e aventi dei progetti sul territorio, non ci sarebbe la geopolitica.
Quindi ancora prima di concentrarci sulla comunità siriana e del suo senso di sé, derivante dalla sua storia, dalla demografia, fino alle dinamiche del conflitto in corso e sulle presenze internazionali in esso presenti e soffermandoci sugli altri aspetti qualitativi che descrivono il paese attualmente, ci concediamo questa licenza “tutta umana” di prendere spunto da individui come siamo noi che leggiamo o che scriviamo.
Forzature kafkiane del diritto
Un drammatico fenomeno surreale si è cominciato a registrare in Turchia a partire dal 2016 e già dallo scorso anno ha visto la Danimarca tra i primi paesi europei a imitare “l’esempio turco”, con le dovute differenze, ossia il rimpatrio forzato dalla Turchia in Siria e la detenzione di molti siriani in centri di espulsione in Danimarca nonostante il conflitto siriano sia ancora in corso.
Rimpatrio à la Turk
Una delle storie più note è quella di Anas Al Mustafa, 41 anni fuggito da Aleppo nel 2016 in conseguenza del conflitto armato in Siria e arrivato in Turchia nella città di Konya, città nella quale risiedevano alcuni suoi parenti. In questi anni si è registrato personalmente presso l’Unhcr, ha ottenuto documenti di soggiorno turchi, ha preso lezioni di turco; ha ottenuto un lavoro e conseguito la patente di guida. Ancora, Anas ha fondato successivamente una onlus denominata “A Friend Indeed” lavorando a fianco delle ong italiane e rumene fino ad arrivare ad avere donatori in tutto il mondo per fornire cesti mensili alle 175 famiglie sotto la sua cura soprattutto vedove e bambini, e pagando per loro l’affitto e le bollette. Oggi Anas tuttavia è assistito da avvocatesse italiane per quello che gli è accaduto nel 2020 e che continua ancora oggi per lui come per molti altri siriani in Turchia, come detto, a partire dal 2016.
A maggio del 2020 infatti è giunta la polizia turca presso l’abitazione di Anas, gli ha chiesto se avesse la cittadinanza turca e quando ha detto di esserne in attesa è stato invitato a seguire gli agenti. Da qui il dramma. La polizia una volta giunti in una loro stazione ha sottratto ad Anas i documenti di identità, il telefono e lo ha rinchiuso in una cella senza avere alcuna spiegazione, circondato da molti altri siriani detenuti e che come lui non sapevano cosa stesse accadendo e piangevano. In seguito, gli è stato imposto di firmare un documento con il quale acconsentiva alla sua espulsione dalla Turchia. Anas si è rifiutato ha chiesto quale fosse il reato di cui era accusato e non ha avuto risposte, ha chiesto di contattare un avvocato e l’Unhcr e gli è stato negato. È stato detenuto in prigione per altri sei giorni e quindi è stato minacciato dagli agenti di Polizia turca che se non avesse firmato il provvedimento di espulsione lo avrebbero inviato in un campo profughi in Siria o lo avrebbero trattenuto in prigione. Otto giorni dopo il suo arresto ha firmato il provvedimento ed è stato portato al confine ricevendo un secco rifiuto alla sua richiesta di ottenere una copia del documento di espulsione e gli agenti lo hanno affidato a un centro di isolamento in Siria.
Dal centro Anas dopo qualche giorno, per la paura, è fuggito nascondendosi da alcuni suoi amici a Idlib nel Nordovest della Siria; si è sentito in pericolo sia perché è a capo di un’organizzazione umanitaria sia perché sostiene che chi ha accesso alla valuta occidentale è un nemico per il suo paese e infine per il fatto di essersi rifiutato più volte in passato di prendere le armi nel conflitto siriano e per conto del governo di al-Assad e per le forze di opposizione: a chi di competenza le valutazioni in merito al fondato timore nel caso specifico di ritornare nel paese di origine (la Siria) – uno dei requisiti fondamentali alla base del riconoscimento dello status di rifugiato così come definito dalla Convenzione di Ginevra.
Al riguardo per un ulteriore approfondimento si veda anche il Report dell’Easo – Syria Military service (Coi) dell’aprile del 2021 sull’introduzione della coscrizione obbligatoria dei siriani per gli uomini, dai 18 ai 40 anni nelle truppe governative tenendo in considerazione che i disertori e gli obiettori di coscienza potrebbero essere considerati come appartenenti a un determinato “gruppo sociale” ossia uno dei cinque motivi alla base della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato.
Un amico di Anas, in seguito alla sua fuga in esito alla deportazione in Siria, è stato rapito ed è stato messo in rete un video che lo ritraeva mentre veniva torturato chiedendone il riscatto; Anas ancora oggi non ha notizie su dove si trovi il suo amico.
Anas ha dunque deciso di tornare in Turchia attraverso dei trafficanti, camminando per più di un giorno di nuovo in direzione di Konya, continuando a nascondersi. Un’avvocatessa italiana, titolare di uno studio di diritto Internazionale, ha deciso di rappresentarlo gratuitamente con altre sue colleghe ma finora ogni tentativo legale, compreso quello dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, non può determinarsi perché è in corso ancora il giudizio turco attualmente in Appello nei suoi confronti per un non meglio precisato reato.
Inoltre, come detto, non vi è alcun provvedimento che attesti la sua espulsione dal territorio turco. La stampa sta cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla sua vicenda e Anas continua a nascondersi e ha paura che in questo modo potrebbero essere deportati anche i suoi amici che continuano a ospitarlo di nascosto.
Non c’è più rifugio in Danimarca
Per quanto riguarda i paesi dell’Unione europea, in particolare occorre soffermarsi sulla Danimarca che recentemente ha messo in atto i procedimenti di revoca dei permessi di soggiorno dei siriani sostenendo che Damasco e alcune regioni limitrofe sono al sicuro: è chiaro che continuando a raccontarsi cose non reali si finisce col crederci (forse) ma si perde la stima degli individui e ciò nonostante con riferimento alle politiche di accoglienza dei rifugiati la Danimarca conosca trascorsi esemplari. La Danimarca attualmente accoglie circa 35.000 siriani.
Una delle storie in questo caso è quella di Faeza Satouf anche lei siriana riconosciuta rifugiata dalla Danimarca nel 2015, rischia ora la revoca dello status di residenza temporanea danese legato al riconoscimento della protezione internazionale. Dal suo arrivo in Danimarca ha imparato il danese, si è diplomata e ha ottenuto un impiego in un supermercato. Secondo le autorità danesi nel suo caso il fondato timore non esisterebbe più perché, non essendo un uomo, non le verrebbe chiesto di arruolarsi nelle milizie governative. La sussistenza del fondato timore nel suo caso verrebbe esclusa nonostante il padre sia ben noto alle autorità siriane e ricercato in Siria. Al riguardo si analizzi anche il Rapporto di Human Rights Watch (Coi) sulle detenzioni arbitrarie in aree che prima erano dominate dai ribelli che in seguito hanno firmato accordi con il regime di Damasco.
Diversamente dalla Turchia, la Danimarca però non ha relazioni diplomatiche con la Siria e quindi dopo la revoca della “protezione di residenza temporanea” i siriani non vengono deportati al confine con la Siria ma vengono inseriti in centri di detenzione come quello vicino a Copenaghen indotti in questo modo inevitabilmente a fuggire in altri paesi europei in particolare in Svezia e in Germania. Si stima che circa 30 rifugiati siriani in Danimarca abbiano ricevuto in seguito alla richiesta di rinnovo del permesso di soggiorno temporaneo la sentenza di rigetto della Corte d’Appello.
Modello danese, una tentazione di pericolosa emulazione per la Germania
La situazione è grave, soprattutto se altri paesi europei decideranno di imitare quanto sta avvenendo in Danimarca. Come noto la Germania è il paese europeo che detiene il maggior numero di profughi siriani, provenienti soprattutto dalla rotta balcanica, avendo aperto, tra il 2015 e il 2016, le proprie frontiere a 1,2 milioni di rifugiati siriani. A riguardo è importante riflettere che oggi sia i corridoi umanitari che i reinsediamenti (resettlement) devono essere considerati come dei canali di immigrazione regolari e sicuri. In particolare il reinsediamento è considerato uno strumento di protezione internazionale in grado di poter ridurre il traffico di esseri umani dalle zone di guerra e che al contempo concede agli stati la possibilità di stabilire, su base volontaria, quanti rifugiati accogliere all’interno del proprio territorio.
Va tuttavia sottolineato che ancora oggi la quasi totalità delle domande di reinsediamento provengono dall’area Mena (Middle-Est e Nord Africa) da parte di molte persone che hanno ottenuto l’asilo all’estero nei campi profughi dove però non godono di condizioni di sicurezza e del pieno godimento di loro diritti in qualità di rifugiati. Al momento sono ancora oggi i siriani a presentare il maggior numero di richieste di reinsediamento.
Questo tuttavia è avvenuto in Germania prima dell’accordo con la Turchia per bloccare il flusso dei migranti dell’Ue, ormai noto, stipulato nel 2016 e del quale ci occuperemo in seguito soffermandoci sul fenomeno dell’esternalizzazione delle frontiere.
Duldung
A distanza di circa sei anni il 75 % dei rifugiati in Germania è riuscito a trasferirsi dai centri gestiti dal governo in appartamenti privati, il 60% ha ottenuto a distanza di più di 5 anni un lavoro in Germania. Tuttavia, esiste una diversa condizione dei migranti accolti in Germania in particolare richiedenti asilo la cui domanda non è stata accolta e ha ottenuto il cosiddetto status di Duldung (“tollerato”) che non dà loro il diritto di rimanere in Germania ma al contempo non li rende suscettibili di espulsioni immediate.
Tale status consente loro di lavorare o di svolgere tirocini, alcuni invece non hanno nessuno ”status” in esito al respingimento della loro domanda di protezione internazionale: in quest’ottica si auspica che in sede della richiesta di rinnovo dei permessi di soggiorno, rilasciati in esito al riconoscimento della protezione internazionale, i siriani non subiscano lo sconfinamento – per una presunta risoluzione del conflitto siriano come è avvenuto in Danimarca – in tali altre categorie prive di una tutela pari a quella assicurata ai titolari di protezione internazionale, più specificatamente, con riferimento allo status di rifugiato a quella costituita dal principio di non respingimento.
Credo sia intuibile comprendere cosa questo possa comportare in ambito giuridico, stante la permanenza dei criteri del Regolamento di Dublino che restano pressoché invariati nel loro impianto fondamentale anche nel Nuovo Patto Europeo sulla Migrazione e l’Asilo del 23 settembre 2020 proposto dalla Commissione Europea: si sta giocando con gli individui che rischiano di essere “palline da ping pong” tra paesi europei che non sempre sono “giocatori leali” non solo nei confronti dei migranti – anche richiedenti asilo – mentre compiono il loro viaggio per approdare in prossimità dei confini europei, ma ora anche quando gli stranieri – pur titolari di protezione internazionale – hanno compiuto dei virtuosi processi di integrazione individuale nei paesi di accoglienza.