Abbiamo registrato a metà luglio nella trasmissione radiofonica Bastioni di Orione di Radio Blackout a più voci tre punti di vista sul rebus afgano, tre spunti di analisti degli affari internazionali, ognuno a partire dal proprio ambito di competenza, intrecciando i discorsi laddove andavano a sovrapporsi.
“Mettere a fuoco l’Afghanistan”.
Da questi stessi protagonisti della diretta radiofonica i concetti sono stati sviluppati, ampliati e argomentati in tre articoli utili per comprendere meglio su quali basi erano già stati stipulati accordi che tutelavano le potenze da possibili perdite di posizione con l’avvento dei Talebani… solo gli afgani non hanno partecipato a nessun vertice. E quindi sono alla mercé degli studenti coranici.
13 luglio 2021. Afghanistan interno dell’esterno dell’interno
Emanuele Giordana ha una conoscenza pluridecennale delle sensibilità della zona e il suo approccio ci pare coerente con l’interpretazione più plausibile delle strategie normalmente messe in atto dai contendenti. Infatti per quanto i Talebani possano occupare territori periferici e snodi comunicativi (siano essi infrastrutture stradali, siano i canali della spettacolarizzazione mediatica); benché quasi senza colpo ferire s’introducano in città come Kunduz e combattano per appropriarsi di Lashkar-gah e si avvicinino a Mazar-i-Sharif, difficilmente potranno esercitare il potere e mantenerlo in centri così abitati, luoghi tanto ostili come il Nord del paese – per quanto siano stati rifugio dei veterani dell’Isis, potenziali truppe uzbeke e tajike a supporto dell’occupazione dei distretti di confine –, soprattutto se la popolazione, come ci testimonia Seyf da Kabul (che commenta, entusiasta – lui laicissimo –, notti segnate da alti «Allah Akbar» lanciati dai tetti della capitale contro i Talebani; gli stessi che anche Giuliano Battiston nei suoi articoli su “il manifesto” e “Lettera22” segnala), non intende avvallare la presa del potere da parte di una fazione così oscurantista.
La zona delle operazioni talebane di inizio agosto e delle esercitazioni russe terminate il 10 agosto
Yurii Colombo ci parla da esperto del mondo che orbita attorno agli interessi di Mosca, che nell’infuocato agosto dell’Asia centrale è impegnata in esercitazioni a ridosso di un confine blindato dai Talebani, in particolare quell’area settentrionale storicamente tajika – e dunque alleata dei russi – attraverso cui scorrono i traffici più importanti di merci legali o meno. Meno di 100 chilometri costituiscono il confine afgano/tajiko, ma sono importantissimi, da difendere mostrando apparati militari agguerriti, ma anche con mosse diplomatiche come accogliere una delegazione talebana a livello istituzionale, nonostante sia una organizzazione illegale a Mosca. Ma anche il resto della galassia dei paesi centrasiatici è preoccupato al punto da chiudere i valichi di frontiera turkmeni e uzbeki (riferimenti ancora adesso per i Signori della guerra come l’inaffidabile Dostum, di origine uzbeka, cresciuto nell’Armata Rossa e protagonista di infinite sgradevoli giravolte)
L’intervento di Sabrina Moles ci torna utile per inquadrare i primi passi cinesi ai confini dell’Afghanistan, un confine condiviso anche in questo caso per meno di 100 chilometri, ma una linea molto importante sia per la Via della Seta di Xi (Belt Road Initiative), sia per il contenimento degli uyguri, che abitano proprio le terre confinanti dell’Hindu Kush, sia geopoliticamente perché le alleanze – e segnatamente quella con il Pakistan, arcinemico della comune rivale India – evidenziano le differenti fazioni e le possibili noncuranze tra potenze con ambiti di interesse differenti. E anche nel caso dello sguardo orientale emerge una sofferenza di una comunità tra quelle che costituiscono l’Afghanistan: il Kirghizistan è disponibile a conferire la nazionalità ai gruppi kirghizi appartenenti a quella cultura che venissero dislocati dalla manovra di “pulizia etnica” orchestrata dall’accordo sino-pachistano nel Corridoio: i profughi verrebbero sostituiti da realtà che possono agevolare il controllo dei commerci di quel territorio vitale per la Cina (e per il Pakistan)
Un interessante scambio tra punti cardinali di osservazione
I russi ancora scottati dalla avventura sovietica: hanno preferito identificarsi in uno dei protagonisti clanici, i tagiki, a cui Mosca ha promesso appoggio militare senza coinvolgimento diretto per ottenere una sorta di cuscinetto, che allontani dai confini russi i Talebani, che già controllano i confini lungo il fiume Amu Darya; però Yurii Colombo ricorda come la recente guerra caucasica al fianco degli armeni è stata un fallimento. E anche in questo caso Putin ha cominciato a cercare una qualche intesa con chi probabilmente controllerà l’Afghanistan: i Talebani pare abbiano cercato di monetizzare con i russi l’assicurazione che non attaccheranno i loro alleati.
Il leader talebano Mullah Abdul Ghani Baradar a Mosca per la conferenza di pace (8 luglio 2021)
Situazione militare a inizio agosto
La Sara Khitta
Ma qualche forma di scontro armato si è scatenata, come i nostri interlocutori, che potete ascoltare nel podcast, immaginavano, perché una guerra civile è richiesta dal business del traffico d’armi; ciò che è imponderabile era quanto sarebbe stata intensa, la durata e chi ne sarebbe stato coinvolto. Poi gli scontri armati sono divenuti guerra aperta (e forse gli americani non hanno voluto credere a chi limetteva sull’avviso, visti i tradimenti di tutti gli accordi siglati dai Talebani), anche per la presenza di una squadra d’élite come la Sara Khitta (Il Gruppo Rosso), addestrata come le truppe d’eccellenza dei più sofisticati eserciti mondiali; la loro base pare sia in Paktîkâ, la regione frontaliera orientale abitata da tribù pashtun che fanno capo alla famiglia Haqqani. il cui leader Sirajuddin è uno dei triumviri a capo dei talebani, quello più vicino ad al-Qaeda, secondo “Mediapart“. Questa forza speciale ha fatto la prima comparsa nel 2015 nell’Hellmand, ora è stata impiegata per attaccare le 5 principali città (Herat, Mazar, Kunduz, Kandahar, Ghazni), ma Bill Roggio su The Long War Journal considera che sia riduttivo comparare queste truppe ai commandos capaci di affrontare il nemico con regole d’ingaggio che prevedono il contatto, perché sono anche forze speciali, usate per occupare valichi e controllare vie di comunicazione.
Forze speciali talebane in addestramento con il capo Ammar Ibn Yasir, palesemente uno straniero pure lui come gli americani o i russi o l’impero britannico
Quale dibattito interno alle forze talebane e loro strategia
I Talebani hanno agito strategicamente attaccando le zone del Nord del paese mentre le forze governative sono dislocate maggiormente al Sud: interessante al proposito l’analisi di Antonio Giustozzi sull’evoluzione e le dinamiche interne all’organizzazione, i rapporti tra ala militare e politica, le relazioni con le famiglie e quanto sono diversi rispetto a vent’anni fa. Gli “studenti” islamici hanno occupato i posti di frontiera senza quasi colpo ferire, controllando il transito delle merci e così facendo un’azione di propaganda, come nel caso di Spin Boldak, il valico con il Pakistan; infine il traguardo dei negoziati di Doha comporta una corsa ad arrivarci in posizione di preminenza e dunque avendo fatto azioni di forza; eliminando il tappo della presenza militare straniera, si dà la stura alla violenza repressa scatenando la spirale. Si è venuto dunque a creare un garbuglio di interessi che va a detrimento soprattutto dei giovani.
Ma i Talebani dovranno presto affrontare due gravi problemi, uno interno e uno “esterno”. Quello interno: la conquista territoriale ha rafforzato la componente militare del movimento, che era stata abilmente condotta dal leader Haibatullah Akhundzada ad accettare la sua linea politica: accordo con Washington e mantenimento dei canali diplomatici. Ora che anche Kabul non è lontana dalle mire dei militanti, è da vedere chi prevarrà nel dettare la linea sul “che fare”. L’altro problema è più decisivo. Nella loro avanzata i Talebani hanno macinato territori su territori, ma hanno anche macinato e distrutto vite umane, raccolti estivi, contribuito a sradicare donne e bambini dalle loro case, innescato un’enorme spinta migratoria.
Continuano a dire ai cittadini e ai funzionari governativi di non preoccuparsi. Ma i resoconti delle loro conquiste – dai distretti periferici di Kandahar al distretto hazara di Malistan, nella provincia di Ghazni – sono infarciti di abusi, rappresaglie, omicidi mirati, documentati tra gli altri da Human Rights Watch e dall’Afghanistan Independent Human Rights Commission. Bravi a conquistare i territori, non gli afghani e le afghane. La cui vita è diventata ancora più vulnerabile di prima. La linea del fronte si è spostata dentro le città. A meno che non ci sia un cessate il fuoco, ha sostenuto Deborah Lyons, rappresentante speciale dell’Onu per l’Afghanistan, il risultato sarà «una catastrofe senza precedenti nella storia» [Giuliano Battiston, Schiaffo talebano all’ex Alleanza del Nord, “Lettera22”, 11 agosto, 2021]
I Talebani sono una forza retriva, reazionaria del paese, ma sono anche sottomessi al consenso nel paese, oggi: sanno di non avere popolarità, se non derivante dall’errata gestione di questi vent’anni di occupazione e di bombardamenti ed eccidi, perché il periodo del regime talebano fu di fame e stenti, oltreché di mancanza di diritti. E gli afgani non vogliono tornarci, perciò Emanuele Giordana si dichiara fiducioso nella pressione della cittadinanza per evitare la continuazione di 40 anni ininterrotti di guerra e che l’unica strada sia l’accordo di tutti gli afgani e si possono rilevare come passi in questa direzione una maggiore tolleranza da parte talebana del rispetto dei diritti delle donne, persino nelle zone da loro controllate, o l’apertura ad altre etnie diverse da quella pashtun. Ed è proprio la rottura di questa cappa clanica a poter rappresentare quel poco di buono che hanno rappresentato questi vent’anni di occupazione militare, se si immagina cosa ha potuto significare in termini di contaminazione culturale il contatto instauratosi tra le genti che hanno attraversato il territorio. Nonché gli afgani della diaspora, come il nostro Seyf e le sue istantanee.
9 agosto 2021, mercato kabulino di kote sangi mirwais maidan
La fibrillazione degli altri “stan” e l’allerta russo…
Emanuele Giordana ci ricorda come i russi già 3 anni fa, durante l’offensiva afgana avevano rafforzato i dispositivi di difesa tagiche; l’intento è duplice e mira anche a tenere fuori dai territori delle ex repubbliche sovietiche le basi americane. Peraltro anche per gli Usa l’intento è duplice: fa comodo poter dire che si ritirano dall’Afghanistan, puntando a interventi dalle navi dislocate strategicamente nel territorio per controllare il fronte sud dell’ex Urss, ma è pure importante il deterrente antiraniano.
Yurii Colombo tiene ad accendere un riflettore sui vari “stan”: in particolare Uzbekistan e Turkmenistan non hanno alcuna intenzione di rientrare sotto l’ombrello russo, e già non sono entrati nell’alleanza. Sono neutrali; e infatti Mosca ha già cercato di sensibilizzarli al pericolo talebano. Infatti proprio l’Uzbekistan ha già iniziato a trattare direttamente con i Talebani, ai quali – secondo Yurii – interessa per ora aprire falle e con i russi sembra ci stiano riuscendo, dopo l’invito a Mosca, le dichiarazioni e l’irritazione di Putin nei confronti del governo di Kabul.
Su questo si innesta anche il problema dei molti jihadisti coinvolti nella guerra siriana e nei tanti focolai di guerra che vedono l’utilizzo di mercenari alla ricerca di nuovi padroni; e se c’è stato uno scontro tra Talebani e militanti dell’Isis, i perdenti staranno cercando di riorganizzarsi (probabilmente in quella zona tagika che torna come luogo centrale in questa fase). E per Mosca questo è un problema molto sentito, visti gli episodi nei decenni scorsi di attentati islamisti – ceceni, ma anche ultimamente kirghizi – che hanno segnato la sensibilità alla sicurezza antijihadista di Mosca e dei suoi servizi.
La questione imperiale vede a seconda dell’approccio con occhiali moscoviti, han o dalla realtà afgana, impressioni che si differenziano molto: dalla considerazione russa che aveva secondo Yurii Colombo scarso interesse imperiale per il territorio afgano rispetto al Great Game dell’impero britannico o della grande partita sovietica della Guerra Fredda, fino alla Cina stessa che si andrebbe a posizionare su ancora altre forme di interesse rispetto all’invasione americana.
… e l’inserimento cinese, alleato del Pakistan filotalebano
Perciò nella discussione si inserisce Sabrina Moles, che riconosce come l’Afghanistan è stato coinvolto nella Belt Road Initiative solo tangenzialmente, proprio perché considerato instabile. La Cina ha preferito avvicinare il Pakistan che ora è un alleato particolare nella regione, di cui interessa nella logica cinese una stabilizzazione per poter fare affari. L’altro aspetto interessante è che il corridoio afgano condiviso con il territorio cinese si affaccia sulle estreme propaggini dello Xinjiang, territori a ovest del Taklimakan, di grandi mercati interetnici… nazione uygura, con cui i Talebani sono stati invitati a tagliare i ponti in cambio del riconoscimento della loro autorevolezza a riempire il vuoto di potere lasciato dal ritiro americano in presenza di un governo fantoccio che è ancora più debole di quello di Najibullah, lasciato a suo tempo dai sovietici.
Delegazione talebana al completo per ottenere l’appoggio della Cina in cambio di affari e della rinuncia alla diffusione del jihad in Xinjiang
La provocazione di Emanuele Giordana a proposito dei cinesi è un augurio che davvero decidano di occuparsi dell’area afgana e in buona misura lo hanno già fatto con dei contratti capestro: i cinesi si sono accaparrati risorse, miniere e possono contrapporsi a tutti gli altri protagonisti, rispetto ai quali ha una sostanziale differenza: non prediligono la via militare per il controllo del territorio; poi non hanno remore a trattare con chi detiene il potere, chiunque egli sia. Persino i Talebani. Il principio è sempre quello improntato a “commercio e modernizzazione economico-infrastrutturale”, come ben spiegato da Giulia Sciorati su “China Files” (Cinastan3 – Quale Cina nell’Afghanistan post-statunitense?): «La Cina continua a supportare una soluzione politica e non militare al conflitto afghano, proponendosi ciclicamente come ospite degli incontri di dialogo tra il governo afghano e le forze talebane … Se, dal punto di vista cinese, il processo di pace rimane “a guida e proprietà afghana,” l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO) è identificata come l’organismo multilaterale attraverso cui preservare la stabilità regionale, ed è proprio la SCO che Pechino vorrebbe ricoprisse un ruolo più centrale nelle vicende afghane. Come ricordano i ricercatori Niva Yau e Raffaello Pantucci, rispettivamente della OSCE Academy di Bishkek in Kirghizistan e della Scuola di Studi Internazionali S. Rajaratnam di Singapore, l’atteggiamento scelto dalla Cina nella gestione della questione afghana post-statunitense – sostanzialmente limitato e ancorato a questioni di sicurezza interna – non tiene conto di quelle che sono, invece, le aspettative dei paesi centrasiatici che accoglierebbero di buon grado una Cina “con un ruolo più lungimirante e sostanziale in Afghanistan”».
Zhang Jiadong scriveva il 6 luglio su “Global Times” che, «rispetto ad altre potenze, la Cina ha l’opportunità di partecipare agli affari afghani senza impantanarvisi».
Yurii Colombo è perplesso riguardo alla possibilità che si possa arrivare a una reale alleanza tra Russia e Cina, venuta meno negli scontri tra le due potenze comuniste degli anni Sessanta. Anche Sabrina concorda, seppure proprio riguardo al rapporto con gli “stan” si potrebbe individuare una sorta di organismo di sicurezza accomunante Mosca e Pechino, solo che attraverso la Shanghai Cooperation Organisation la Cina tende a essere egemone con i semplici fini di controllo dei confini e di estensione degli affari. Mentre i governi laici delle ex repubbliche sovietiche centrasiatiche assoldano guerriglieri uyguri in funzione antitalebana.
Un ultimo aspetto riprende il ruolo specifico del Pakistan nel contesto afgano che Sabrina conferma esistere realmente come collaborazione con Pechino, benché Islamabad abbia proprio in questi mesi convulsi dialogato riguardo alla Bri sul confine afgano con entità non istituzionali; l’interesse deriva anche dall’ingombrante presenza dell’India e dall’importanza del corridoio sino-pachistano con interessi per 62 miliardi.
Come riportato da Fabrizio Poggi su “Contropiano” in un articolo chiarificatore, comparso il 7 agosto:
«Sulla questione dell’Afghanistan, Delhi è preoccupata per il fattore islamista, soprattutto se i talebani prenderanno il potere: un pericolo esterno e interno, dato dal Pakistan e dall’ex stato di Jammu e Kashmir, trasformato in territorio federale nel 2019. Qui, sostiene Vladimir Pavlenko (“IA Rex”), gli interessi dell’India, da un lato, convergono con quelli russi e cinesi (destabilizzazione islamista in Asia centrale e Xinjiang); dall’altro, sono in conflitto con gli interessi USA. Delhi non dimentica che è stato l’intervento Usa in Afghanistan a creare questa situazione di crisi nella regione. E, però, si trova stretta da due lati: da una parte, la cooperazione con gli Stati Uniti nell’ambito del QSD; dall’altra, gli interessi comuni con Mosca, Pechino e Islamabad nella SCO, in cui l’Afghanistan è inserito come osservatore. Anche solo così, conclude Pavlenko, “la SCO è un meccanismo molto più affidabile, che non la partnership “Indo-Pacifico” con gli Stati Uniti”: dipende dall’India la “scelta tra consolidamento eurasiatico, trasformando la SCO in strumento di congiunzione transcontinentale di Ueea (Unione economica euroasiatica) e Belt and Road, e la scissione dell’Eurasia: più precisamente, la separazione e la rinascita dei “limitrofi”, ora usati da forze esterne per aumentare la tensione”».
E poi: «Secondo Mohammed Ayoob, che ne scriveva il 2 agosto sull’australiano “The Strategist”, l’unico paese scontento dell’uscita Usa dall’Afghanistan sarebbe proprio l’India, mentre Pakistan e Cina si preparerebbero a colmare il vuoto e Russia e Iran, sebbene temano i talebani, sarebbero contenti della mossa Usa».