Terremoto in Turchia: la ricostruzione pianificata dall’alto
Terremoto in Turchia. Questa intervista alla professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul, a cura di Luca Onesti e Francesco Pasta, è stata realizzata a sei mesi dal terremoto che a febbraio ha devastato parte della Turchia meridionale e della Siria per analizzare la tipologia di pianificazione imposta dall’alto, dal punto di vista normativo e con una valenza politica, senza tener conto dei problemi ambientali, sanitari e culturali del territorio colpito.
Poi a sei mesi di distanza, con un’inflazione al 46%, carenze di valuta pregiata, difficoltà nel contesto internazionale che vede la Turchia marginalizzata… il tasso di sconto riconosciuto dalla Banca turca è stato rialzato dal 17,5% (già uno sproposito per una qualunque economia) al 25% in un solo giorno, il 24 agosto 2023. Forse qualche difficoltà per i fondamentali dell’economia turca si palesano da questo provvedimento che cerca di riallineare gli eterodossi provvedimenti finanziari della erdoganomics negli ultimi vent’anni.
Turchia, a quasi sei mesi dalle due scosse di terremoto che il 6 febbraio hanno colpito una vasta area della Turchia meridionale e della Siria settentrionale, e dopo la tornata elettorale che ha confermato Erdoğan come presidente della Repubblica, si procede ora alla ricostruzione su un’area di faglia che conta 13 milioni di abitanti. Per comprendere meglio le criticità pregresse e quelle che stanno emergendo per quanto riguarda la pianificazione urbana nella gestione del disastro, abbiamo intervistato la Professoressa Pelin Pınar Giritlioğlu, del Dipartimento di Amministrazione Pubblica, Problemi Urbani e Ambientali dell’Università di Istanbul e presidente dell’Unione degli Architetti e degli Ingegneri Turchi di Istanbul. La mancata applicazione, o l’applicazione strumentale, della legislazione implementata in Turchia negli ultimi venticinque anni a seguito di diversi terremoti e l’idea di pianificazione calata dall’alto con la completa disattenzione rispetto alle caratteristiche culturali e ambientali del territorio, sono alcuni dei temi toccati dall’intervista.
Con la politica dei condoni e la mancata applicazione delle leggi prodotte dopo il terremoto del 1999, abbiamo assistito negli scorsi decenni a quello che lei, in un’intervista a Chiara Cruciati su “Il Manifesto”, ha definito un «patto tra capitale e potere». In che modo sono regolate e ripartite tra governo centrale e autorità locali le responsabilità riguardo ai terremoti e al rischio sismico, in Turchia?
Poiché siamo un paese ad alto rischio sismico, la responsabilità tra il governo centrale e locale e le organizzazioni non governative è regolata dalla legge. Secondo la normativa turca, e secondo la Costituzione, le autorità locali hanno l’obbligo di adottare tutte le misure contro i rischi che minacciano la vita e i beni dei cittadini. Le autorità locali hanno l’obbligo di predisporre la propria giurisdizione contro i terremoti, in base ai rapporti e ai dati scientifici forniti, e hanno determinati obblighi in materia di ispezioni edilizie, devono cioè verificare se gli edifici sono costruiti in linea con il progetto o meno. Se riscontrano edifici a rischio di crollo, di distruzione o di danneggiamento, devono comunicarlo al Comune metropolitano e agire in collaborazione con esso. I Comuni metropolitani hanno l’obbligo di istituire un consiglio di coordinamento dei disastri, regolato dalla legge. La collaborazione e la preparazione contro i disastri e i terremoti sono organizzate anche a livello delle autorità che in Turchia sono chiamate Muhtar, responsabili di un determinato quartiere su scala minore, l’unità amministrativa più piccola della Turchia. Anche a questo livello sono previsti studi e preparativi.
Si è parlato molto della possibilità di un grande terremoto a Istanbul nei prossimi anni. Nel mese di marzo il sindaco Imamoğlu ha presentato il Piano antisismico per la città. Pensa che si stia andando nella giusta direzione a questo proposito?
Il piano annunciato da Imamoğlu è stato pubblicato come risultato di un workshop scientifico al quale sono state invitate tutte le unità, le organizzazioni e le istituzioni interessate. Le Camere professionali hanno partecipato poi a successivi incontri con il Comune metropolitano in merito a questo piano e alla definizione dei ruoli da svolgere.
La difficoltà principale non riguarda però il piano annunciato, ma la sua applicazione, la sua attuazione nella vita reale.
Prima del terremoto del 6 febbraio, L’AFAD, (L’Autorità per la Gestione dei Disastri e delle Emergenze, omologo della Protezione Civile italiana), aveva già pubblicato alcuni documenti ufficiali che dicevano che ci sarebbero stati dei terremoti a Hatay e Kahramanmaraş. L’annuncio era stato fatto, ma nonostante questi scenari fossero stati già analizzati, non abbiamo visto alcuna reazione o risposta sul campo reale, sul campo fisico, non abbiamo preso alcuna misura concreta. Quindi, in termini di legislazione e di documenti ufficiali, la Turchia è in un certo senso pronta a far fronte ai disastri naturali, ma non è in grado di generare risposte nella vita reale: questo è il problema principale.
A proposito di questo divario tra la legislazione e la sua attuazione, abbiamo una domanda sulla Legge n. 6306 sulla trasformazione urbana nelle aree a rischio, che è stata approvata nel 2012, dopo il terremoto di Van, e sembra che sia stata applicata in modo piuttosto strumentale. L’obiettivo era quello di accelerare la ricostruzione delle aree urbane a rischio sismico, ma sembra che sia stata utilizzata soprattutto per altre finalità. Cosa ne pensa? Ritiene che la legge in sé sia valida, ma che l’attuazione sia distorta?
In realtà, la legge n° 6306 non serve al suo scopo principale. È questo il problema della legge. L’espressione “disastri naturali” è citata solo due volte nel testo di legge, che peraltro non fornisce soluzioni essenziali e fondamentali contro i disastri naturali. È solo una “legge sui contraenti” (immobiliari) basata sulla demolizione e ricostruzione delle aree definite “a rischio”.
Definisce solo i metodi per farlo, piuttosto che offrire linee guida sulle precauzioni da adottare. Descrive come ricostruire le aree urbane, ma evita di determinare come organizzare, coordinare e fornire soluzioni sociali e scientifiche al rischio sismico.
In effetti, sembra che a volte il rischio sismico venga utilizzato come giustificazione per determinate politiche di pianificazione e sviluppo urbano. Ora, nelle zone terremotate del Sud-Est, si parla di trasferire intere città. TOKI (L’Amministrazione per l’Edilizia Abitativa di Massa) sta già costruendo questi nuovi quartieri fuori dai centri urbani. E a Istanbul, il Ministero per l’Urbanizzazione ha annunciato di voler creare due nuove città satellite per trasferirvi circa un milione di unità abitative. Pensa quindi che il terremoto e la prevenzione possano essere sfruttati come ulteriore spinta per questo tipo di urbanizzazione di terreni non edificati o rurali e per espandere sempre di più le città, come è già avvenuto sotto il governo dell’AKP?
L’idea delle città satellite non è adatta a Istanbul perché lo scopo delle città satellite è di essere costruite fuori dalle città, non all’interno. Ma nel caso di Istanbul un’area esterna al perimetro metropolitano non esiste, perché la città si estende fino ai centri urbani di Tekirdağ da un lato e Kocaeli dall’altro. Ciò significa che le città satellite saranno costruite al suo interno, come nuovi quartieri,
e dunque che i rimanenti spazi vuoti e le aree di riserva all’interno della città, come le aree agricole o le foreste, fondamentali per l’equilibrio ecologico di Istanbul, saranno aperte all’insediamento.
Come pensa che sarà applicata questa politica nella regione del Sud-Est? Pensa che questa ricostruzione possa essere condotta come è avvenuto a Van dopo il terremoto del 2011, e dunque tradursi in un processo di TOKIzzazione e suburbanizzazione replicato su larga scala da Antiochia (Hatay) a Kahramanmaraş?
L’approccio problematico è che si crede di poter far rivivere le città semplicemente costruendo più case, nuove case. L’edilizia abitativa è fondamentale, ma non è possibile far rinascere una città solo costruendo più unità abitative, perché poi sono necessari spazi educativi, spazi di aggregazione, strutture sanitarie, unità industriali e produttive. Bisogna considerare tutti questi aspetti, e molti altri, per far rinascere la città. Non si può solo costruire più case o nuove case; i cittadini di questi nuovi quartieri esterni dovrebbero continuare a vivere in città, dato che i loro posti di lavoro, le opportunità sociali, rimarranno in ambito urbano. I nuovi progetti sono usati solo come strumento di investimento.
Quello di Van è stato criticato come esempio di una politica di pianificazione e di edilizia abitativa dall’alto verso il basso e non partecipativa. E ora, in queste dieci città del Sud-Est è stato dichiarato lo stato di emergenza (OHAL). Come pensa che questo avrà un impatto sulla ricostruzione, dal punto di vista della soddisfazione dei bisogni della gente e delle loro esigenze?
Lo stato di emergenza è stato usato come un facilitatore e uno strumento per il governo per accelerare il processo e l’attività di costruzione. Si è trattato di un’opportunità tale da indurre il presidente a emanare il decreto presidenziale n. 26, subito convertito in legge, che ha tracciato la strada per avviare i progetti di costruzione senza rispettare alcun principio costruttivo o di pianificazione, senza seguire approcci scientifici, dati, opinioni. Questo modo di procedere ci dimostra che, dopo i tanti terremoti che sono seguiti a quello del 1999, il governo non ha tratto alcun insegnamento e ha insistito nel seguire la stessa strategia. Pertanto, i nuovi progetti che verranno attuati, non dovendo rispettare o seguire nessuno dei principi di pianificazione, porteranno ancora una volta a edifici e città fragili, con un certo rischio di fronte alle catastrofi naturali.
Volevamo chiederle un parere sulla questione della gestione dei detriti post-sisma, per la quale ci sono state anche delle proteste nella provincia di Hatay. La rapida demolizione e lo stoccaggio senza precauzioni di questa enorme quantità di macerie sta infatti causando preoccupazione per la presenza di amianto e altri materiali pericolosi per la salute e la natura. Cosa pensa di quanto sta accadendo e come si potrebbe operare diversamente?
Attualmente esiste un importante problema di salute pubblica in questo campo.
È un problema talmente cruciale che potrebbe estendersi a tutte le aree colpite dal terremoto e non solo. Naturalmente esiste un metodo scientifico su come effettuare queste attività di demolizione e tutti gli scienziati hanno denunciato il rischio di iniziare queste attività senza precauzioni, perché l’amianto è una sostanza le cui proprietà cancerogene sono state dimostrate. Prima di queste attività avrebbero dovuto evacuare le zone interessate, ma hanno iniziato subito le demolizioni. Oltre al problema della salute pubblica, c’è anche un problema economico e di proprietà, perché le macerie dell’area vengono attualmente sgomberate e rimosse da alcune aziende private e poi gettate in siti, siano essi pubblici o privati, che hanno un valore economico e vengono compromessi o fortemente danneggiati.
E ancora, gettando i rifiuti nei laghi e nei siti naturali, si crea anche un grande problema ambientale.
Un’altra domanda su Antiochia, Hatay, una città che nella storia antica è già stata distrutta da un terremoto e ricostruita. Come si può rispettare e continuare a far vivere il suo ricco patrimonio architettonico e culturale? La ricostruzione urbana potrebbe mettere in pericolo le caratteristiche particolari di questa città, conosciuta per essere un mosaico di diversità e un esempio di tolleranza e coesistenza? Secondo lei, qual è la logica della dichiarazione, dopo due mesi dal sisma, di “zona a rischio sismico” (secondo la Legge n. 6306) per il centro storico?
Qui si sovrappongono due aspetti problematici. Per prima cosa, questa zona è un’importante area di civilizzazione. Allo stesso tempo, essa è un insediamento della linea di faglia in cui vivono tredici milioni di persone. Quindi, in linea di principio, bisogna proteggere il modello culturale, la struttura sociale e la civiltà stabilita in quell’area e allo stesso tempo bisogna garantire che tredici milioni di persone vivano in sicurezza. Dopo la Seconda guerra mondiale, per alcune città europee che erano state distrutte (per esempio, Dresda) si è seguito il modello per cui il tessuto sociale e culturale della città doveva essere preservato, ma andavano comunque ricostruite. Una tabella di marcia corretta dovrebbe seguire questi due principi:
in primo luogo la sicurezza dovrebbe essere garantita, in secondo luogo il tessuto culturale dovrebbe essere protetto.
Dopo il terremoto, in Turchia, il Ministero ha invece immediatamente annunciato un progetto standardizzato, che potrebbe essere posto in essere dovunque ed è completamente irrilevante per l’identità sociale, culturale e autentica della provincia di Hatay e della città di Antiochia. La ricostruzione in realtà dovrebbe anche tenere conto delle relazioni sociali e tradizionali, del metodo e dei sistemi di produzione, della geografia e del clima. Si dovrebbero prendere in considerazione tutti questi fattori, ma quello che succede spesso è che questi vengono trascurati completamente, generando lo stesso progetto che viene applicato in qualsiasi luogo.
In febbraio avevamo sentito Murat Cinar, giornalista di origine anatolica impegnato anche nel sistema di aiuti alle genti terremotate; la sua conoscenza della società e del territorio – ma anche della propaganda e retorica del presidente turco – appare a distanza di 6 mesi, e dopo le elezioni che hanno visto ancora una volta prevalere la narrazione populista di Erdogan, di una lucidità e premonizione confermate dalla manipolazione delle coscienze e dal patto del presidente con lo zoccolo duro della società turca patriarcale, nazionalista, militarista e tradizionalista (compresa una larga fetta della comunità curda connivente con il persecutore dei curdi).