Casco Viejo. Panama City coloniale
Il luogo che più di tutti sta soffrendo la gentrificazione è la Città Vecchia di Panama, dove casi come quello della scuola Nicolás Pacheco simboleggiano la resistenza implacabile degli ex residenti del quartiere contro le politiche predatorie del capitale.
Sulla gentrificazione e sul diritto ad abitare
Prima però di parlare di questo caso simbolo e di raccontare come si è giunti alla situazione odierna, è importante fare una riflessione sul concetto di gentrificazione e sul diritto ad avere un luogo nel quale abitare con dignità. Per fare ciò condivido le considerazioni di Carla Luisa Escoffié Duarte, direttrice del Centro per i Diritti Umani della Libera Facoltà di Giurisprudenza di Monterrey. È l’autrice del libro El derecho a la vivienda en México. Derechos homónimos pubblicato da Editorial Tirant lo blanch.
Nelle parole di Escoffié Duarte, che ho tradotto da un suo articolo apparso su “Este País” il 21 giugno 2022 scopriamo che:
«Questo concetto è causa di continui dibattiti e lotte all’interno del mondo accademico, motivo per cui non è possibile accontentare tutte le voci. La sua stessa formulazione è solitamente tanto elementare quanto complicata. È un concetto emerso negli anni Sessanta come proposta concettuale di Ruth Glass. I processi che ha cercato di descrivere in Inghilterra presentano somiglianze e distanze da ciò che accade oggi nelle città dell’America Latina. Di conseguenza, sono state proposte classificazioni geografiche, storiche e qualitative su cosa sia la gentrificazione.
Attualmente, l’America Latina si sta spostando sempre più da uno scenario alla Burning Plain a uno più simile a Blade Runner. Secondo i dati UN-Habitat, oltre l’80% della popolazione della regione vive attualmente nelle città. Secondo i dati Inegi, nel 2020, due terzi della popolazione messicana vivrà nelle città e più della metà in città con 100.000 o più abitanti. Questo fenomeno non implica la scomparsa della vita rurale, ma piuttosto un’alchimia rurale-urbana… dove la città appare come il nuovo scenario di conflitti e tensioni tra classi, generi, identità, religioni ed esperienze. Ciò lo rende anche il nuovo spazio di monopolio da parte delle grandi potenze economiche. Il territorio rurale ha continuato a essere di grande interesse ed è ancora ambito per la produzione che utilizza manodopera a basso costo, ma è emerso un nuovo campo di coltivazione: l’agricoltura immobiliare. Le città sono gli spazi in cui possono germogliare grandi progetti residenziali che non richiedono un’abitazione a breve termine per avere successo economico. Il processo di finanziarizzazione dell’edilizia abitativa consiste proprio nel fatto che gli immobili vengono convertiti in attività finanziarie a fini speculativi. Ecco perché gli edifici vuoti che proliferano nelle zone centrali delle grandi città non rappresentano il fallimento di quel mercato, ma piuttosto le sue forme di accumulazione territoriale contemporanea».
L’abitazione come territorio, la casa come feticcio
Escoffié Duarte già in queste poche righe ci aiuta a cristallizare una dinamica che sta attraversando tutta la regione, come per esempio avevo avuto modo di raccontate intervistando la giornalista Bianca Graulau per “El Páis” sul caso similare di Porto Rico.
L’avvocata messicana però va oltre nell’analisi e ci spinge nell’articolo già citato (e nel suo libro) a una riflessione più profonda che ha a che vedere con il diritto a un luogo in cui vivere in modo dignitoso spiegando cosa intende quando afferma: l’abitazione come territorio, la casa come feticcio.
«Parlare di diritto alla casa in questo contesto implica parlare dei rapporti di potere e delle disuguaglianze socioeconomiche-territoriali che persistono nella regione. Per capirlo dobbiamo prima capire che abitare non è la stessa cosa di avere una casa. La casa è una costruzione architettonica materiale e tangibile. L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali. La casa è un oggetto, abitare è un’azione. La casa è uno spazio, abitare è vivere»..
Esistere in quanto abitare
L’abitazione è l’insieme dei processi attraverso i quali una persona abita uno spazio, motivo per cui è costituito da elementi materiali e immateriali
Si parla quindi di diritto ad abitare e non di diritto alla casa. Il diritto umano consiste nell’avere uno spazio in cui vivere, che può essere garantito attraverso la proprietà, ma anche attraverso altre modalità come cooperative abitative, affitti e persino rifugi temporanei per donne vittime di violenza o giovani lgbt+ rifiutati dalle loro famiglie.
Tuttavia, i discorsi egemonici – definiti principalmente dalle élite del settore architettonico e immobiliare – mirano a confondere questi concetti. L’obiettivo è molto semplice: che la popolazione confonda il proprio bisogno con una questione di avere (casa) invece che di essere (abitante di un luogo materiale e immateriale).
Fatte queste necessarie considerazioni possiamo dunque passare a introdurre cioè che sta succedendo nella Cittá vecchia di Panama con il violento processo di gentrificazione già menzionato.
Riavvolgiamo il nastro di Casco viejo
La zona coloniale della Città di Panama, chiamata “Casco Viejo”, ha rappresentato il primo insediamento europeo sulla costa americana fin da quando nel 1519 Pedro Arias Dávila promosse la sua fondazione. Un centro che si trasformò in breve nel quartier generale dei rappresentanti della Corona spagnola e un punto strategico sulle rotte commerciali coloniali e sulle spedizioni che avvenivano verso il Sudamerica (come quella per la conquista del Perù). All’inizio del Diciassettesimo secolo la città contava circa 10.000 abitanti che animavano una vita cosmopolita che si svolgeva in case, alberghi, taverne, conventi, un ospedale, una cattedrale, un forte, una piazza principale, tutti collegati da strade e ponti in entrata e in uscita dalla città. Sappiamo però quanto il Mar dei Caraibi all’epoca fosse rifugio di corsari e pirati, e nel 1671 fu proprio il pirata inglese Henry Morgan a guidare un feroce attacco alla vecchia Panama, saccheggiandola e riducendola in macerie. Sono queste rovine che conformano il Complesso Monumentale Storico di “Panama Viejo”, che comprende appunto le rovine dell’insediamento coloniale e le vestigia archeologiche del periodo preispanico.
Dopo l’attacco e la distruzione lasciata da Morgan, la corona spagnola trasferì la città nel 1673 a sud, su una piccola penisola circondata da scogliere rocciose. È questa nuova città che corrisponde a quello che oggi è conosciuto come Casco Viejo di Panama, zona considerata patrimonio mondiale dell’Unesco fin dal 1997.
L’Unesco come inizio della fine per i residenti
Fino a questo punto le ricostruzioni, delle autorità della città (e del governo) e dei residenti storici del Casco Viejo, coincidono. Però è negli anni Novanta del secolo passato che si inizia a delineare una frattura nella narrazione.
Questa la versione edulcorata dalla autorità:
«Prima del 1997, il Casco Viejo soffriva di alti livelli di criminalità che causarono lo sfollamento della maggior parte dei suoi abitanti. Tuttavia, dal 2000 in poi, Casco Viejo ha vissuto un processo di gentrificazione volto alla ristrutturazione della maggior parte degli edifici abbandonati della zona. Nascono così centri culturali, ristoranti moderni, nuove boutique e alberghi con bar sulle terrazze. La riabilitazione di Casco Viejo ha riformato molti membri di bande e gangster che ora si dedicano a offrire visite guidate ai turisti. Lo spaccio di droga era l’attività più diffusa nel centro storico, è il caso della banda di Ciudad de Dios. I giovani si ritrovarono senza lavoro e cercarono un modo per sopravvivere nel business della droga. Fortunatamente, l’arrivo di nuove imprese, del turismo e del boom economico ha aiutato questo settore a prendere una nuova direzione nella loro vita. Ora camminano per le strade del centro storico, luoghi di svago, cultura e storia, e dimenticano la violenza e le loro brutte esperienze personali».
Il degrado riqualificato con l’eterno riciclaggio
In base a ciò che avete appena letto, mentre il resto della Città di Panama si espandeva e pensava in grande (vedremo più avanti un progetto multimilionario che iniziò proprio nel 1997), la zona del Casco Viejo era un ricettacolo di delinquenti, perdigiorno, persone di bassa o nulla disponibilità economica e con un limitato livello educativo. In base a questa narrazione (spiegata e difesa in questo articolo di stampa locale) l’opera lungimirante e magnanima dello stato e delle autorità cittadine ha veicolato milioni di dollari (anche procedenti dal riciclaggio come abbiamo visto con lo scandalo dei Panama Papers) per la riqualificazione di questa zona della città.
Trincee e barricate
Basta però passeggiare per le vie Casco Viejo per imbattersi in sacche di resistenza, vere e proprie trincee urbane, che raccontano un’altra storia, una più simile a quello che ci ha spiegato precedentemente Carla Luisa Escoffié Duarte.
Per esempio, striscioni con slogan del tipo Senza abitanti non c’è patrimonio, oppure Il paese si vende al miglior offerente sono posizionati di fronte a una scuola in Plaza Herrera, dove vivono decine di famiglie, unite nell’Associazione dei residenti di San Felipe, che lottano contro uno sfratto coatto che li vuole fuori da questa zona della città. Lo spiegano bene Leila Nilipur e Melissa Pinel, giornaliste indipendenti, autrici del riconosciuto podcast “Indomables”, nell’episodio intitolato La trinchera (la trincea).
Patrimonio dell’Umanità vs Patrimonio umano
«I residenti del quartiere storico della Cittá di Panama vengono cacciati dalle loro case. Abbandonate dalle élite per decenni, le loro dimore coloniali erano deteriorate, ma non vuote. Centinaia di famiglie vivevano lì, mantenendo il quartiere vivace e pieno di tradizione. Ma non appena l’Unesco ha dichiarato il quartiere storico dimenticato Patrimonio dell’Umanità, gli sfratti sono stati immediati. E quei vecchi edifici furono trasformati in alberghi o ristoranti di lusso. Nel frattempo, un gruppo di vicini lotta per una causa che sembra persa: impedire che il loro quartiere perda il suo patrimonio umano».
Fin da prima della Pandemia, questi residenti hanno reagito contro quello che sentono e vivono come un sopruso.
In una intervista al giornale “La estrella de Panama” spiegava che con il piano di riforma e riqualificazione del Casco Viejo li hanno cacciati dalle case dove sono cresciuti. «L’affitto della casa più cara costava 150 dollari al mese, adesso le case ristrutturate non si affittano per meno di 1200 dollari al mese. Ditemi chi può pagarlo», denuncia la presidentessa dell’Associazione dei residenti di San Felipe, Esther Sánchez, già nel 2019.
Esther è una delle vittime del vorace boom immobiliare nel centro storico di Panama scoppiato nel 1997 quando l’Unesco ha dichiarato la zona patrimonio dell’umanità per i suoi numerosi luoghi storici (Piazze Mayor, Herrera, Bolívar, Chiese di San José, San Francisco…) ed edifici come il Teatro nazionale o quello della Presidenza della repubblica, il Palazzo di giustizia o Bólivar, la Casa Góngora e Boyacá, oltre a un ricco patrimonio architettonico di edifici civili presenti in tutte le sue strade, molti dei quali consumati dalle fiamme nell’incendio del Diciassettesimo secolo e recuperati ecletticamente con nuovi stili aggiunti successivamente: dal coloniale al neoclassico e persino all’art déco.
Dal 2000, l’Ufficio per il Restauro e la Valorizzazione del Complesso Monumentale Storico della Città Vecchia della Città di Panama (Oca) inizia a operare con il Piano Generale per la riabilitazione e il restauro di un’area già occupata da classi sociali con basso podere acquisitivo. Negli anni successivi alla dichiarazione dell’Unesco come patrimonio dell’Umanità della zona, si assiste a un massivo investimento di capitali privati e Fondi stranieri (principalmente europei, canadesi e nordamericani), che non contemplavano nel loro piano di “sviluppo” la permanenza della popolazione locale.
Perciò automaticamente si inizia un piano di espulsione capillare delle persone con minor possibilità economica, con più basso tasso di alfabetizzazione e isolata da gruppi sociali di appoggio. Non stupisce che il piano messo in atto dalle autorità cittadine si chiamasse direttamente “Plan de Evacuación del distrito histórico del Casco Antiguo”, come riportato da questo articolo del giornale nazionale “La Estrella de Panamá”. Come detto, lo slogan del capitalismo che ha invaso questa zona della città è chiaro – Rivive il Centro Storico, rilanciamo il Turismo, rilanciamo la qualità, rilanciamo la comunità. Non si intende però rilanciare un tessuto sociale di quartiere, bensì il varo di un megaprogetto che include anche lo sviluppo della cosiddetta Cinta Costera 3 (che circonda la penisola), per far diventare tutta l’area una boutique a cielo aperto dove il turismo internazionale possa assaporare la “Vecchia Panama” dentro alberghi di lusso e bar/discoteche di tendenza. Un luogo non solo dove non possano più abitare i vecchi residenti ma dove risulta complesso anche per gli abitanti della città poter accedere ai servizi, sempre più cari e diretti in modo netto e chiaro a un potere d’acquisto che non è alla portata della maggior parte delle e dei panamensi.
Calzada di Amador (Causeway)
Visitando oggi la Città di Panama è impossibile non sentir palare della Calzada di Amador, più conosciuta tra le nuove generazioni con il nome di Causeway. La storia di questa passeggiata unica, circondata dall’acqua risale agli inizi del secolo, quando le tre isole Naos, Flamenco e Perico erano ancora separate e collegate solo attraverso piccole barche o traghetti. Quello che oggi conosciamo come Amador Causeway è un enorme frangiflutto costruito tra il 1908 e il 1914 con terra e rocce estratte dagli scavi del Canale, con lo scopo principale di proteggere l’ingresso del Canale dalle forti correnti della Baia di Panama e di diventare una base militare statunitense (la prima fu installata nel 1911).
Il Biomuseo, che oggi si trova proprio nella Calzada de Amador ha dedicato un esteso e dettagliato progetto alla storia di questo luogo simbolo della città, un progetto che permette attraverso foto e testimonianze di fare un salto nel passato.
È così che scopriamo Causeway, per lungo tempo foce del Rio Grande, un enorme delta pieno di mangrovie e paludi, dove si trovava il molo La Boca, parte del sistema portuale della città di Panama. All’inizio del Ventesimo secolo, il fiume fu ostruito con una diga, le sue mangrovie e le sue paludi furono cancellate e il canale trasformato fino a diventare l’ingresso del Canale di Panama. Come detto, dal 1911 al 1996 Amador fu sede di basi militari statunitensi, e le truppe utilizzarono la strada rialzata per raggiungere le batterie di artiglieria costiera delle isole di Naos, Perico e Flamenco.
Il progetto del Biomuseo denuncia come per 75 anni pochissimi panamensi abbiano potuto camminare lungo il bordo del Canale sulla Amador Causeway, perché questa striscia di territorio larga 16 chilometri era sotto controllo (e sovranità) degli Stati Uniti tra il 1904 e il 1979, come abbiamo avuto modo di spiegare nel capitolo La Zona del Canale.
Prima del 1979, le uniche persone che potevano entrare ad Amador erano il personale militare statunitense, i lavoratori delle basi civili, i dipendenti della Canal Company e i membri dei club sociali e sportivi che avevano strutture ad Amador, come il Balboa Yacht Club che oltre all’attracco per le imbarcazioni da diporto, disponeva di un bar-ristorante che fu sede di numerose feste, finché un incendio nel 1999 distrusse l’intero edificio.
Nel 1930 iniziò a operare il traghetto Thatcher, che offriva un servizio gratuito per facilitare il transito tra Cittá di Panama e l’interno del paese, che era stato separato dalla costruzione del Canale. Questo traghetto operò fino al 1962 quando fu inaugurato il Ponte delle Americhe: all’epoca circa 40 navi attraversavano Amador per entrare e uscire dal Canale (per un ulteriore approfondimento si può consultare a questo indirizzo)
L’Amador Causeway è oggi una delle zone più vive della città e finalmente è disponibile per tutta la popolazione, anche se il suo alto interesse turistico ha prodotto un rialzo dei prezzi di beni e servizi, che ovviamente produce un effetto indiretto di esclusione sociale.
Non a pagamento rimane però la vista, una delle più privilegiate di tutta la città. Verso est si può vedere un panorama che va dal Cerro Ancón, passando per Chorrillo, Casco Antiguo fino ai grattacieli della città. A ovest vediamo l’ingresso del Canale, Veracruz, Punta Chame fino all’isola di Taboguilla.
L’isola di Taboga
Dalla Calzada di Amador (isola Flamenco) si prende il traghetto per arrivare, in circa 30 minuti, a Taboga, popolare isola utilizzata per le gite familiari del fine settimana dalla popolazio ne cittadine e sempre di più anche dai turisti, che la trovano facile da raggiungere (e molto più economica della internazionalmente famosa Bocas del Toro). Emblematica di certo atteggiamento turistico da cui sorge la richiesta di “bonificare” territori è questa breve descrizione di Taboga che si può trovare su Lonely Planet: «Un’unica strada e traffico praticamente inesistente fanno di quest’isola tropicale, situata a soli 20 km dalla costa, un luogo perfetto per fuggire dal trambusto della capitale: Panama City. Soprannominata “Isola dei Fiori”, è coperta di profumatissimi boccioli per gran parte dell’anno. Il pittoresco villaggio di Taboga, fondato dagli spagnoli nel 1515, ospita una delle chiese più antiche dell’intero emisfero occidentale».
Artificial Islands
Il caso delle Ocean Reef Islands
Si tratta di uno dei progetti più ambizioni realizzati nella regione negli ultimi anni e consiste nella costruzione di due isole artificiali collegata alla costa (nella zona di Punta Pacifico) per mezzo di un ponte. Sul sito della compagnia che promuove la vendita degli esclusivi appartamenti di questo enclave di ricchi creata artificialmente fuori dalla città, letteralmente in mezzo all’oceano, troviamo la frase di marketing: trasforma il tuo modo di vivere la città. Come se non fosse sufficientemente chiaro, in mezzo alla promozione per la vendita delle unità ancora in costruzione, ai possibili acquirenti in merito al piccolo porto privato, si specifica quanto segue:
BENVENUTI IN PARADISO. Una Marina di prim’ordine nella Repubblica di Panama. Più di 150 ormeggi fino a 60 metri (200 piedi), protetti da due isole private dove esclusività e lusso permettono di vivere la propria esperienza con un’incomparabile varietà di servizi che vanno oltre il tradizionale.
Resort isolato per ultraricchi in apartheid dorato
Insomma, un luogo creato artificialmente, un progetto originariamente concepito nel 1997 come ultima fase dello sviluppo dell’area di Punta Pacifica, una delle zone ricche di Panama (dove sorge l’Hotel Marriott per intendersi): le prime isole residenziali costruite dall’uomo in America Latina. Un luogo dove gli ultraricchi possono sentirsi tali nella loro privacy senza doversi mischiare con il resto della capitale di un paese con un tasso di povertà in preoccupante crescita. Già nel 2019, le statistiche i dati ufficiali sulla povertà generale di Panama (dati offerti dal Ministero di Economia e Finanza) avevano raggiunto il 21,5% della popolazione, ovvero 917.069 persone; di cui, il 10%, viveva in condizioni di estrema povertà (o indigenza): cioè 428.005 persone. E questi erano i numeri prima del Covid19 e della crisi del prezzo dei combustibili causati dalla coda lunga della guerra in Ucraina.
Ocean Reef Islands è composta da due isole (Isola I e Isola II) di 103.251 m² e 87.552,95 metri quadrati unite da un ponte. Una comunità residenziale privata che conta con un eliporto, uno yacht club, e che è situata nel centro di Panama City pero senza doversi “mischiare” con il resto della città (e soprattutto dei cittadini/e).
Lo stesso gruppo immobiliare che si è incaricato del progetto, fornisce sul sito l’e-book della costruzione. Si tratta di Los Pueblos, un gruppo panamense costituito da varie imprese che fin dal 1985 si occupa dello “sviluppo” della città di Panama. Uno dei nomi noti e fondatore del gruppo Los Pueblos è Mayor Alfredo Alemán, che nel giugno 2020 veniva segnalato da Forbes come una delle persona più ricche di Panama (e una delle più ricche dell’America Centrale) con un investimento di 1,9 miliardi di dollari. Un’enorme ricchezza che però non è cosa rara a Panama dove troviamo per esempio il 78enne, Stanley Motta, azionista in Motta International, Copa Holdings, Gruppo Assa, Inversiones Bahía, TVM Media, Banco Intercontinentale di Panama, con un attivo totale di 4,347 miliardi di dollari (al 2019) e inserito in questo 2023 sempre da “Forbes” nella lista delle persone più ricche del mondo.
Riflessione finale
Panama insomma, non smette di sorprendere. Con i suoi contrasti, le sue moderne spavalderie che si stagliano alte nel cielo o in alto mare, circondate da radici di tradizione, storia e folklore, le sue complesse vicissitudini, il suo calore (climatico e umano), la sua capacità di diventare casa per chiunque e allo stesso tempo di togliere la casa a chi qui ha sempre vissuto.
Dalla selva del Darien, al mar dei Caraibi, passando per il maestoso Canale, l’antica base militare statunitense, l’Oceano Pacifico e l’Oceano Atlantico, le contee indigene e i luoghi della (R)esistenza afrodiscendente.
Una babele di mondi, di storie, di lingue, di natura selvaggia, di geografie di lotta e insorgenza. Rifugio di malfattori, terra promessa di migranti, forgia di donne indomabili e crocevia di quasi tutto ciò che si consuma nel mondo.
Concentrato di disuguaglianza eppure paese di opportunità, sede degli uffici regionali dall’Onu ma anche delle società che riciclano tonnellate di dollari, solidarietà e corruzione, cosmogonie ancestrali e fast food… Chiunque arrivi a Panama per la prima volta sentirà di conoscerla da sempre eppure conoscerla davvero nella sua complessità è probabilmente impresa quasi impossibile, fin qui in queste 7 puntate abbiamo provato a mostrare quanti problemi e temi si nascondono in questo istmo da cui fuoriescono poche informazioni… se siamo riusciti a incuriosirvi, troverete tra qualche tempo un ulteriore approfondimento… probabilmente anche in formato cartaceo.
Fine