24 aprile 2022
La nuova miccia per nuovi scontri, e nuovi razzi e nuove reazioni spropositate di Tzahal: durante il ramadan, la pasqua ebraica e quelle cristiane basta un cerino ed esplode tutto. Gerusalemme ovvio epicentro per rivendicarne il controllo. Eric Salerno ha affrontato questo aspetto di petto in “Gerusalemme”, il libro incentrato sulla urbanistica e la geopolitica gerosolimitane e lo riprende in questo intervento per la trasmissione Prisma di Radio Popolare, incalzato da Lorenza Ghedini e Roberto Maggioni.
Ma questo punto di vista è colto anche da Lorenzo Santucci, il quale lo riassume nella sua recensione del volume per l’Huffington Post del 23 aprile: «La domanda che accompagna il lettore per tutte le pagine, a un tratto viene messa nero su bianco da Salerno: “A chi appartiene Gerusalemme?”. Agli ebrei? Agli arabi? O ai cristiani? Una delle risposte arriva da un suo incontro con Sari Nusseibeh, ex presidente dell’Università Al-Quds, in quella Gerusalemme Est diventata terreno di scontro dopo la guerra dei sei giorni nel giugno 1967 con cui Israele occupò la parte orientale della città sotto controllo giordano. Nella storia di Gerusalemme esiste infatti un prima e un dopo la guerra dei sei giorni: nell’architettura, nella demografia e nell’estremismo religioso che, insieme, hanno peggiorato la vita di chi la abita.
I dati parlano di una povertà che interessa tanto gli ebrei ortodossi quanto i palestinesi, i primi “perché si autoisolano” e i secondi in quanto “vittime del conflitto e di scelte precise da parte dell’amministrazione israeliana”».
I paesi arabi come da 50 anni stigmatizzano, parlano per sollevare polveroni, ma poi dietro al polverone lasciano che il piano sionista prosegua in Cisgiordania e Gerusalemme Est, dove le elite palestinesi si arricchiscono e le forze giovani sono alla disperazione, mentre gli ultraortodossi e i coloni cercano di espandere il controllo del territorio; infatti prosegue Lorenzo Santucci: «La necessità per il nazionalismo israeliano è quella di trovare sempre e dovunque un nemico “per portare avanti il loro progetto, consolidare l’occupazione e rendere sempre meno proponibile la condivisione di Gerusalemme”. Per riuscirci, nel corso degli ultimi decenni si è affidata all’architettura e ai suoi interpreti». La divisione del territorio occupato in una maniera urbanisticamente più edulcorata, in modo da eliminare il più possibile lo scontro diretto tra gli abitanti, i colonizzatori israeliani e la popolazione locale rinchiusa in specie di bantustan, facendo sbiadire l’identità della comunità palestinese e «lL’urbanistica può trasformarsi in un’arma di esclusione di parte della popolazione, anche se si tratta di un terzo di quella complessiva, come nel caso palestinesi. Ma a Gerusalemme, “l’arte dell’urbanistica è stata affinata come proseguimento della politica con mezzi non militari”, scrive Salerno» e ribadisce Santucci.
“La fragilità tra le bianche mura di Gerusalemme produce tensione e scontri”.
24 aprile 2022 – Francesca Bianchi – FreeTopNews
FtNews ha intervistato il giornalista Eric Salerno, autore del libro Gerusalemme, recentemente pubblicato per la casa editrice torinese OGzero. Nel corso della nostra conversazione lo scrittore ha presentato questo testo dedicato alla Città Santa, con cui è stata inaugurata la collana Le città visibili di OGzero. Salerno ha lavorato un decennio per “Paese Sera”; nel 1967, in qualità di inviato speciale e capo del servizio esteri, è passato a “Il Messaggero”, interessandosi ai problemi del Terzo Mondo e del Medio Oriente, dal 1987 al 2017 con base a Gerusalemme. Tra i molti libri pubblicati nel corso della sua carriera: Genocidio in Libia. Le atrocità nascoste dell’avventura coloniale (1979); Israele, la guerra dalla finestra (2002); Uccideteli tutti (2008); Mossad base Italia (2010); Orizzonti perduti, orizzonti ritrovati (2021).
Sig. Salerno, nella sua carriera ha pubblicato molti libri, i più recenti sono usciti per la casa editrice “Il Saggiatore”. Come e quando è maturata l’idea di dare alle stampe il libro Gerusalemme con l’editore torinese “OGzero”?
Tempo fa alcuni amici mi parlarono di una giovane casa editrice, la OGzero, interessata ad inaugurare una collana dal titolo “Le città visibili”, con l’intenzione di cogliere gli aspetti urbanistici, sociali, economici di alcune città significative. Città rese visibili attraverso la narrazione dell’esperienza personale dei vari autori, coadiuvati dalle voci dei testimoni e degli abitanti che forniscono un’interpretazione del territorio, della sua trasformazione nel corso dei secoli. In qualità di inviato speciale e capo del servizio esteri de “Il Messaggero”, per oltre cinquant’anni mi sono occupato dei problemi e delle vicende del Medio Oriente, dal 1987 con base a Gerusalemme, città che posso dire di conoscere bene. All’inizio ero un po’ perplesso, perché non sapevo cosa avrei potuto raccontare di nuovo di Gerusalemme, città a cui sono stati dedicati libri su libri, poi ho deciso di lanciarmi in questa nuova avventura. Gerusalemme è il primo della serie di volumi “Le città visibili”.
A quando risale la sua prima visita a Gerusalemme? Che ricordo conserva di quel soggiorno?
Visitai per la prima volta Gerusalemme negli anni 1978-1979. Andai con vari colleghi giornalisti per seguire la visita dell’allora Presidente americano Jimmy Carter, che si era recato nella Città Santa per aiutare egiziani ed israeliani a stipulare un trattato di pace. Ricordo una passeggiata fatta in tarda serata, quando con alcuni colleghi entrammo nella Città Vecchia. L’atmosfera era molto affascinante, soprattutto per me che non sono legato a nessuna delle tre grandi religioni.
Come cambiò Gerusalemme dopo la creazione dello Stato di Israele e la conquista israeliana?
La città all’epoca era divisa in due parti in maniera netta: la guerra tra ebrei e arabi lasciò la Città Vecchia in mano araba. Chi arrivava lì da Israele poteva avvicinarsi, ma non poteva entrare all’interno delle mura. Per entrare nella Città Vecchia, se non si era in possesso di un permesso da parte delle Nazioni Unite, bisognava passare per la Giordania e la valle del fiume Giordano.
A cosa si riferisce quando, nel libro, parla di sincretico cosmopolitismo?
Gerusalemme è una città dove si vede di tutto a livello di popolazioni e religioni. Vi sono vari livelli di ortodossia ebraica che si incontrano a Gerusalemme. La gente vestita di nero, che ricorda la gente vestita di nero di Teheran e dell’Afghanistan, suscita rabbia e spesso un senso di fastidio, intellettuale e fisico, in molti israeliani non solo laici. Ci sono persone con idee diverse su come dovrebbe essere la città. Molti pellegrini arrivano senza capire che si tratta di una città contestata da due popoli; molti entrano con una guida che racconta. Questo racconto, pur essendo ogni volta diverso, unisce. Si tratta di una città divisa, ma in grado di unire, nel racconto della creazione, chi ritiene che ci sia una forza superiore che ci guida in questo mondo.
Che ruolo ha avuto l’archeologia nella giustificazione di alcune ideologie politiche?
La questione archeologica viene sfruttata da parte israeliana per legittimare l’appartenenza di questa parte della Terrasanta agli Ebrei. Gli israeliani sostengono di essere stati i primi abitanti dell’area. In realtà, l’archeologia restituisce una storia molto stratificata: in superficie, o quasi, una importante presenza islamica, poi cristiana, infine ebraica. Ma gli ebrei non sono stati i primi abitanti di Gerusalemme: c’era qualcuno su quel monte, ma di loro non se ne parla mai. Gli ebrei arrivarono da fuori, come loro stessi raccontano, e conquistarono il luogo che era abitata da un altro gruppo etnico. L’archeologia, oltre alla narrativa biblica, viene utilizzata da Israele come prova dell’appartenenza, da sempre, di questo territorio agli ebrei. “Siamo tornati a casa”, dicono, ma si rifiutano di accettare che nei duemila anni della loro assenza altri avevano costruito ed eletto domicilio su quei monti contestati.
Nel libro parla di una lunga conversazione che ebbe il piacere di fare con lo scrittore Avraham B. Yehoshua; avete parlato molto del fanatismo religioso. Cosa ricorda di quell’incontro?
Sì, ero andato a trovarlo nella sua bella casa sulle pendici del monte Carmelo, a Haifa. Ho creato con lui un rapporto interessante; è una persona notevole. Mi raccontò della sua Gerusalemme. Mi disse che non amava il confronto e lo scontro che ci sono in questa città. Lo scontro non è soltanto tra israeliani e palestinesi. Lo scontro è tra credenti e non credenti. E anche tra le varie comunità religiose. Gli ultraortodossi ebrei, ad esempio, non sostengono lo Stato d’Israele perché ritengono che Israele debba nascere soltanto al ritorno del Messia. Le comunità degli ortodossi si sono estese un po’ ovunque a Gerusalemme e dove arrivano cercano di imporsi. Non tollerano coloro che, nelle feste comandate o nelle ventiquattro ore dalla prima stella del venerdì sera alla prima del sabato, girano in automobile nei quartieri dove abitano. Molte strade, grazie a rivolte anche violente, sono delineate da transenne di metallo per tenere a distanza i diversi. Il venerdì si chiudono alcuni quartieri, il sabato sera si riaprono. Molti anni prima della famosa Intifada dei palestinesi del 1987, l’auto su cui viaggiavo fu bersagliata da giovani ebrei ortodossi perché avevo sbagliato strada ed ero finito in uno dei loro quartieri.
C’è un luogo della città che le è particolarmente caro?
Alcuni posti nelle vicinanze dell’ultima casa in cui ho vissuto mi sono cari per motivi affettivi. Inoltre, trovandosi l’abitazione a ridosso della Città Vecchia, ricordo che quando mi affacciavo alla finestra vedevo il passato, antico e meno antico, ma non lo scempio del presente.
Quali sono i quartieri che cambiano identità, a cui fa riferimento nel libro?
Ho lasciato Gerusalemme prima dello scoppio della pandemia. Ho visto trasformarsi interi quartieri nel giro di pochi anni. Bisogna tenere presente che con la rivolta palestinese qualcosa accadde anche nel conflitto tra laici e religiosi. La città per alcuni anni aveva mostrato un volto nuovo, quasi una crescita della presenza laica. Quindici anni dopo la realtà è di nuovo cambiata. Come a Emek Refaim, strada principale della cosiddetta “German colony”, così chiamata perché numerosi tedeschi protestanti si erano insediati in quel quartiere e avevano costruito molte case lì. German Colony era il vecchio quartiere dei Templari, per anni rifugio della classe benestante degli israeliani laici: la via, gremita nei giorni di festa fino all’inverosimile per alcuni anni, oggi diventa un deserto dal pomeriggio del venerdì alla sera del sabato. L’unico rifugio è il bar-ristorante all’interno di uno storico cinema, il Lev Smadar.
Cosa rappresenta culturalmente e politicamente Gerusalemme per i palestinesi?
Rappresenta la loro capitale. Dobbiamo sempre ricordarlo, ogni volta che si parla di Gerusalemme. Arafat aveva firmato un accordo di pace con Israele. Per loro era scontato che una parte di Gerusalemme sarebbe diventata la capitale di uno Stato che sarebbe nato accanto a Israele, non al suo posto.
Cosa sta accadendo adesso a Gerusalemme?
Attualmente c’è la solita tregua armata. Le autorità rispondono a logiche diverse. La parte israeliana spesso impone scelte tali da scoraggiare la convivenza con i palestinesi. Pesano sulla realtà quotidiana di Gerusalemme le paure, spesso esagerate e inculcate da politici come l’ex premier Netanyahu, il quale impediva agli arabi di riunirsi in certi luoghi per timore, sosteneva, che potessero creare manifestazioni di protesta contro Israele. Lo scorso anno la polizia intervenne con lacrimogeni e altri strumenti antisommossa, fino a provocare la reazione di Hamas da Gaza e la risposta pesantissima d’Israele. Netanyahu e altri come lui, prima e ancora oggi, si servono della paura per consolidare l’occupazione e rendere sempre meno proponibile la condivisione di Gerusalemme. Itzhak Rabin, il leader che i sostenitori di Netanyahu paragonavano a Hitler, esortava gli israeliani a uscire dalla mentalità del ghetto. Il premier attuale ha subito compreso che non c’è bisogno di vietare ai musulmani di gustarsi il Ramadan; che non ha senso impedire loro di pregare sulla Spianata delle Moschee. Purtroppo ci sono fanatici da una parte come dall’altra. Gli ultimi scontri furono provocati dalla minaccia di un gruppo di ebrei estremisti di salire sulla Spianata delle Moschee, che è, in quanto “monte del tempio”, luogo anche per loro sacro, e compiere alcuni riti proibiti.
Gerusalemme rappresenta davvero la “grande città” più povera di Israele? Dove si concentra la povertà?
Le statistiche confermano che degrado e povertà regnano nei quartieri degli ebrei ortodossi e dei palestinesi, i due gruppi che rappresentano la maggioranza della popolazione della città. I primi si autoisolano, i secondi sono vittime del conflitto e di scelte precise da parte dell’amministrazione israeliana. Ci sono situazioni pesanti: in alcuni contesti vediamo famiglie ebree di oltre dieci persone che vivono in piccoli appartamenti. La parte araba soffre economicamente per la sua condizione molto particolare: non sono cittadini israeliani e non possono andare e venire liberamente nei territori occupati (la Cisgiordania). L’autorità israeliana impedisce o frena ogni forma di sviluppo economico-sociale degli arabi di Gerusalemme nella speranza di vederli emigrare. Quelli che restano, anche quando le loro famiglie aumentano numericamente, ottengono con difficoltà licenze per costruire nuove abitazioni o ampliare quelle esistenti.
A chi appartiene Gerusalemme?
Vorrei poter dire che Gerusalemme appartiene a chi vi abita e paga le tasse. Appartiene spiritualmente alle tre religiosi monoteistiche. E appartiene anche a un non credente come me, perché nella sua storia, nei suoi conflitti, sono radicate le radici della nostra cultura occidentale. Un progetto originario di spartizione della Palestina, approvato dalle Nazioni Unite, metteva Gerusalemme e Betlemme al di fuori della spartizione, sotto un controllo internazionale. Tanti israeliani non vanno mai a Gerusalemme. Molti palestinesi, che considerano Gerusalemme la loro casa, la loro capitale, non sono mai riusciti ad andarci a causa del conflitto.
Quando tornerà a Gerusalemme? Cosa si augura per il futuro di questa città?
Vorrei che la gente iniziasse a guardare Gerusalemme con un interesse anche laico, ma senza deturpare il paesaggio con iniziative urbanistiche che sono molto discutibili. Quanto a me, tornerò volentieri quando potrò farlo. Gerusalemme è una città piena di ricordi; ho tanti amici lì. Mi piacerebbe andarci in un clima diverso. Non sono ottimista: la globalizzazione come futuro positivo è fallita e il nazionalismo diventa sempre più forte. I popoli della Terrasanta devono imparare a vivere uno accanto all’altro. Altrimenti vedremo soltanto sangue e distruzione, come è accaduto nei lunghi anni della vita di Gerusalemme.
Quale messaggio si augura possa arrivare ai lettori di Gerusalemme?
Mi auguro che nei lettori nasca il desiderio di andare a visitare questa città incredibile, cercando di capirla. Innanzitutto occorre rendersi conto della dimensione del conflitto: tutto si svolge in uno spazio minimo, corrispondente all’incirca a due piccole regioni italiane. Valori ed elementi qualificanti delle religioni monoteistiche sono uguali: ribadisco che oltre al virus del nazionalismo, non si tratta di uno scontro tra credenti, ma di uno scontro tra ciò che chi gestisce le religioni costringe a credere.
23 Aprile 2022 – Lorenzo Santucci – Huffington Post
Nel libro “Gerusalemme” di Eric Salerno l’immagine di una città sospesa tra religione, nazionalismo e violenza.
A Gerusalemme la tensione è tornata a salire come non accadeva da un anno. A maggio scorso come oggi, il centro delle violenze rimane quello che per gli ebrei è il Monte del Tempio mentre per i musulmani è Haram al-Sharif, la Spianata delle Moschee. Lo stesso che lo scrittore utopista Theodor Herzl immaginò come un “palazzo di pace”, dove i vari capi di Stato si potessero incontrare per discutere su come risolvere i problemi di tutti. L’idea abbracciava un po’ quella di una Gerusalemme internazionalizzata così come suggerito anni fa dall’Onu, ma sembra destinata a rimanere utopia, appunto. Piuttosto, questo luogo è conosciuto come uno dei più contesi al mondo, dove con una certa fatica si prova a distinguere religione, nazionalismo e violenza. Un po’ come nella Gerusalemme di Eric Salerno, raccontata nel suo libro edito da Orizzonti Geopolitici: una città sempre più caratterizzata dal fanatismo religioso che le sta facendo perdere quell’aura di santità.
La domanda che accompagna il lettore per tutte le pagine, a un tratto viene messa nero su bianco da Salerno: “A chi appartiene Gerusalemme?”. Agli ebrei? Agli arabi? O ai cristiani? Una delle risposte arriva da un suo incontro con Sari Nusseibeh, ex presidente dell’Università Al-Quds, in quella Gerusalemme Est diventata terreno di scontro dopo la guerra dei sei giorni nel giugno 1967 con cui Israele occupò la parte orientale della città sotto controllo giordano. Nella storia di Gerusalemme esiste infatti un prima e un dopo la guerra dei sei giorni: nell’architettura, nella demografia e nell’estremismo religioso che, insieme, hanno peggiorato la vita di chi la abita.
I dati parlano di una povertà che interessa tanto gli ebrei ortodossi quanto i palestinesi, i primi “perché si autoisolano” e i secondi in quanto “vittime del conflitto e di scelte precise da parte dell’amministrazione israeliana”. Con quest’ultima Salerno – che Gerusalemme l’ha raccontata nelle colonne dei giornali, l’ha vissuta da cittadino per poi emigrare altrove senza mai tagliare quel cordone che l’ha portato a scrivere, di nuovo, su di lei – intende la necessità per il nazionalismo israeliano di trovare sempre e dovunque un nemico “per portare avanti il loro progetto, consolidare l’occupazione e rendere sempre meno proponibile la condivisione di Gerusalemme”. Per riuscirci, nel corso degli ultimi decenni si è affidata all’architettura e ai suoi interpreti. Il futuro di Gerusalemme viene pertanto disegnato sulla carta e messo in pratica da architetti che guardano per lo più al passato, quando non si abbandonano ai loro concetti.
L’urbanistica può trasformarsi in un’arma di esclusione di parte della popolazione, anche se si tratta di un terzo di quella complessiva, come nel caso palestinesi. Ma a Gerusalemme, “l’arte dell’urbanistica è stata affinata come proseguimento della politica con mezzi non militari”, scrive Salerno. Testimonianza diretta sono le idee esposte dai suoi interpreti. Le decisioni non sono prese a caso ma hanno un fine preciso: il Museo della Tolleranza, tanto per dirne uno, sorge sopra quello che un tempo era un cimitero islamico. Ma, nel libro, gli esempi di come si tenti la cancellazione della cultura araba si susseguono uno dopo l’altro e sono un modo per l’autore di ripercorrere le strade di questa città. Ci sono le eccezioni, certo. Il noto architetto israeliano Moshe Safdie aveva proposto un piano per includere i palestinesi di ritorno dai campi in Libano e Giordania che piaceva anche al leader laburista Shimon Peres, ma aveva troppo poco potere in mano per convincere l’allora primo ministro Levi Eshkol. Come una guida turistica, Eric Salerno ci mostra quello che era Gerusalemme, quello che è e quello che, forse, sarà un giorno. Dipende da che strada decideranno di prendere i suoi governanti. Se rimane quella intrapresa, sottolineava Spyro Houris, la città si troverà ad affrontare lo stesso destino di Alessandria, trasformata da capitale multiculturale a monolitica per via delle scelte che l’hanno obbligata a un futuro “cupo e monolitico”.
La trasformazione di Gerusalemme è evidente ed è mossa dalla paura del diverso. La funivia-cabinovia, che dovrebbe collegare la vecchia stazione ferroviaria al Muro del Pianto e quindi a evitare i luoghi musulmani, probabilmente non si farà ma la sua funzione, come dichiarato dall’ex sindaco Nir Barkat di fronte ai militanti del partito di centro-destra Likud, serve “a chiarire nuovamente a chi appartiene questa città”. La ghettizzazione palestinese nasce da un timore atavico che l’arabo possa rappresentare una minaccia, quindi meglio recintarlo, escluderlo. Anche con la demografia – altra arma che in mano alla politica può provocare danni – in modo tale da sopraffare numericamente il nemico e impedire che possa un giorno ripensare a un modello urbano. Due a uno: doveva essere questo il rapporto tra ebrei e musulmani, noncurante di come le popolazioni più oppresse sono anche quelle che mettono al mondo più figli, simbolo di come la lotta debba continuare generazione dopo generazione. Al 2020, il tasso di crescita israeliano era all’1,8%, quello palestinese invece al 2,5%.
Numeri che non servono però a spiegare una città complessa, difficile da interpretare ed estremamente violenta. Salerno, con oggettività, punta il dito da un estremo all’altro contro chi cerca di appropriarsi della città indebitamente: Hamas, per aver lucrato sulla debolezza di alcuni dei leader e della comunità palestinese che avevano “sempre evitato di trasformare un conflitto generato dalla conquista e la spartizione di un territorio in una guerra di religione”; Israele, per la sua paura di convivere e, quindi, per la sua violenza gratuita e ingiustificata. Quasi come chi non riesce a spiegarsi quanto la “Religione”, questa “grande nuvola grigia, talvolta nera, che aleggia come una cupola sulla città”, riesca ad annientare un luogo che è stato crocevia di culture e, quindi, fedi differenti. Se lo è chiesto anche lo scrittore Avraham B. Yehoshua, che proprio a causa della spiritualità di Gerusalemme ha deciso di andarsene. Quando ritorna, non riesce a starci per più di un giorno per via della posizione che questa ha assunto a causa del nazionalismo senza freni che fa odiare agli israeliani laici “tutto ciò che simboleggia la religione”.
A Gerusalemme, architettura ed estremismo religioso hanno camminato fianco a fianco per anni. La città si è allargata, a tratti ha cambiato pelle, è diventata moderna come le teste dei suoi grattacieli rimanendo ancorata al suo passato fatto di moschee, sinagoghe e chiese. Molto spesso costruite in pietra, come le sue case, rigorosamente bianche. Il colore che è la sintesi di tutti gli altri e che doveva contraddistinguere la città, forse per sottolineare la coesistenza della diversità culturale e religiosa che la caratterizzava e che invece, oggi, rimane causa di morte.
20 aprile 2022 – Barbara Marengo – Ytali
Con Eric Salerno parliamo della grave crisi internazionale innescata dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, con uno sguardo a quanto contemporaneamente accade in Israele, dove la Pasqua ebraica ha coinciso con quella cristiana e con il secondo venerdi di Ramadan, in un clima di forti tensioni. Nato a New York da madre ebrea russa e da padre italo americano, Salerno è autore di molti saggi sulle sue esperienze di inviato speciale e di corrispondente del Messaggero da Gerusalemme (il suo ultimo libro, uscito da poco, si chiama appunto Gerusalemme).
Pochi giorni fa – racconta Salerno – mi sono capitate sotto gli occhi alcune carte di mio padre, che è stato vice-direttore di Paese Sera: nel 1955 un suo commento racconta di una incursione israeliana nella striscia di Gaza che in quell’epoca non apparteneva al contenzioso israelo–palestinese ed era controllata dall’Egitto. Erano gli anni della contrapposizione tra Stati Uniti e l’Unione Sovietica e nell’analisi Michele Salerno spiegava i complessi giochi delle due superpotenze per dividersi il controllo del Vicino Oriente. Più di mezzo secolo è trascorso. L’Urss non c’è più ma i giochi vanno avanti e all’ombra del conflitto Russia – Ucraina si sono riaperti i complessi giochi mediorientali e non si sa bene dove porteranno. L’ Ucraina è in Europa quindi a noi vicina, diciamo spiritualmente, ma il Medio Oriente in fatto di chilometri è più vicino a noi (Roma dista da Kiev 2360 chilometri, e da Damasco 2283) e soprattutto è là, nel sud del Mediterraneo, che si gioca la grande partita del petrolio come abbiamo visto in questi giorni.
Oggi con una guerra in Europa quali sono le prospettive per un accordo di pace tra israeliani e palestinesi e quali le mediazioni possibili per far terminare lutti e distruzioni?
Il quadro generale che abbiamo sotto gli occhi è grave: dopo una serie di incontri proposti da israeliani e turchi come mediatori con le delegazioni Ucraina e Russa, le trattative si sono arenate e nessun colloquio è in vista. In Medio Oriente, però, i giochi vanno avanti in funzione di nuovi possibili allineamenti. Il più clamoroso salto si è visto quando un tribunale di Ankara ha deciso che il processo contro gli assassini del giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi ucciso nel consolato saudita a Istanbul si dovrà tenere in Arabia Saudita. Situazione a dir poco paradossale visto che persino gli Usa considerano il mandante principale dell’omicidio lo stesso principe della corona saudita. Il quale, peraltro, proprio per cercare di cambiare la posizione della Casa bianca si è rifiutato di abbassare il prezzo del petrolio come richiesto da Biden, che si preoccupa delle difficoltà interne negli USA. E a proposito di riallineamenti, i sauditi sembrano avvicinarsi alla Cina. Questi giochi diplomatici sono soltanto all’inizio e possono riscaldarsi. La questione ucraina non è finita né sappiamo quando finirà e cosa mai potrà succedere nel frattempo. Serpeggiava una certa soddisfazione a livello europeo sul fatto che probabilmente si sarebbe arrivati a un nuovo accordo con Teheran sul nucleare, mentre adesso il Presidente Biden, seguendo le pressioni che gli arrivano da Israele, ha fatto dei passi indietro e non è detto che l’accordo si faccia. E senza accordo tutto può succedere. Non mi sorprenderebbe se Israele lanciasse un attacco contro qualche istallazione iraniana, come ha fatto in passato, coinvolgendo in eventuali azioni belliche anche il Libano per schiacciare Hezbollah ed il suo arsenale.
Dunque, un quadro di grande incertezza e movimento nel quale i Palestinesi rappresentano un fattore minimo. Gli scontri sulla spianata delle moschea, le azioni terroristiche nelle città israeliane delle ultime settimane (portate avanti soprattutto da giovani frustrati che non sanno cosa fare della loro vita) la repressione israeliane con numerosi morti e feriti, sono gravi ma, al momento, soltanto una piccola turbolenza. C’è una stabilità relativa nei territori palestinesi (Cisgiordania) a vantaggio soprattutto di una élite guidata dal presidente Abu Mazen (Mahmoud Abbas) che è sempre stato contrario alla lotta armata. Al contrario di Arafat sapeva bene che i Palestinesi con i mezzi militari in loro possesso non avrebbero mai sconfitto Israele. L’anziano leader non abbandona perché sa che nuove elezioni quasi certamente porterebbero a una vittoria di Hamas che già ha il controllo della striscia di Gaza. Hamas dall’altra parte si arricchisce e si rafforza con il sostegno dei Paesi del Golfo e lo status quo attuale va bene anche, direi soprattutto, a Israele.
Detto questo tutto può succedere, un calcolo sbagliato, un attentato, come quello gravissimo avvenuto a Tel Aviv pochi giorni fa: psicologicamente terribile, perché Tel Aviv è una città che si considera e vive fuori dal conflitto, non come Gerusalemme cuore e simbolo costante della lotta dei due popoli per la stessa terra.
L’Europa per la prima volta in settanta anni si trova di fronte ad una guerra alle porte di casa: una pace nel Mediterraneo sarà mai possibile?
Il Medio Oriente non è mai stato in pace da quando Francia e Gran Bretagna, con il consenso di Mosca (c’era ancora lo zar), si divisero le spoglie dell’Impero ottomano e gettarono le basi per la creazione di Israele. Il problema dei confini usciti da colonialismo è sempre più pressante, può succedere di tutto. Oggi abbiamo una Siria a pezzi, un Iraq che cerca di sopravvivere dopo essere stata massacrata (un milione di morti) da Stati Uniti e suoi alleati, uno Yemen in guerra (c’è una tregua ma non si sa quanto reggerà), una Libia devastata, oltre al conflitto tra palestinesi e israeliani per la stessa terra. E dobbiamo riconoscere uno degli elementi, a mio parere, più dolorosi: l’Europa unita non riesce a trovare la via giusta e il Regno Unito, dopo il Brexit, ci offre la follia di Boris Johnson che ha deciso di inviare i profughi “illegali” in Ruanda, paese guidato da un regime tra i meno democratici del continente africano.
Cosa pensa dell’invio di armi così massiccio a sostegno della resistenza Ucraina?
Le armi servono per combattere. Io vorrei vedere sforzi più concreti per una tregua da parte dell’Europa che sta seguendo, in modo acritico, la politica della Casa Bianca quando appare chiaro che il presidente americano non vuole mettere fine alla guerra in tempi brevi. Siamo sicuri che gli americani vogliano negoziare? Non è che il loro vero obiettivo sia l’eliminazione di Putin e l’indebolimento della Russia e soprattutto dell’Europa?
Assistiamo a un crescendo quotidiano di uso di armi e rivendicazioni: come finirà questa guerra?
Non credo che si arriverà all’uso di armi nucleari. Le armi tattiche funzionano, richiedono più tempo. Intanto la gente muore (anche se un balletto di cifre che non coincidono), le bombe russe hanno appiattito città e villaggi, ci sono provocazioni ucraine e disinformazione che fa parte della guerra.
Tornando alla situazione in Israele, sembra di assistere ad una storia di tensione infinita, come scriveva suo padre nel lontano 1955.
In Israele la situazione politica è indebolita dalle dimissioni della deputata Idit Silman che sosteneva la mini-maggioranza del governo Bennet, ma in realtà l’idea di tornare alle elezioni non piace a nessuno. Sarà un governo fragile di fronte ad una situazione interna che si barcamena tra le richieste degli ortodossi più o meno, sotto controllo, e la difficile posizione del partito arabo che vi partecipa. Bennett sta cercando di fare un lavoro diverso da Netanyahu, che un po’ di mascalzonate ne ha fatte ma tutto sommato per il disegno di questa Israele ha portato avanti con coerenza la sua idea senza lasciarsi intimorire dall’atteggiamento dei laburisti che volevano dimostrare di essere tolleranti pur convinti che se lo Stato Palestinese non si fosse realizzato sarebbe stato meglio. Secondo questa teoria condivisa da quasi tutti, ormai, non esiste nemmeno l’ ipotesi dei due stati per due popoli. Esiste da tempo invece un piano – diciamo teorico -pratico – preparato dai militari su richiesta di esponenti politici: se arrivasse l’occasione giusta, leggi attentato massiccio contro i coloni all’interno della Cisgiordania o di Israele che possa giustificare una ritorsione in grande stile, l’esercito sarebbe pronto a spingere la popolazione palestinese al di là del Giordano.
Ora se tale piano si avverasse domattina – un attentato massiccio e la ritorsione israeliana – in questa circostanza di guerra tra Russia e Ucraina, tra Occidente e Oriente, non si opporrebbero che poche decine di politici in Italia e in Francia, nessuno negli USA, proclamando che è ora di finirla con il “terrorismo”.
Un problema secondo me per Israele, per le sue scelte interne e nei confronti dei palestinesi, sono in qualche modo le comunità ebraiche in Europa che a differenza di molti ebrei negli Stati Uniti o sono silenziose o sono schierate in maniera acritica a favore di tutto ciò che fa quel paese. Di questo si sente parlare molto in Israele. E il dibattito si collega anche a un altro fenomeno di cui si parla poco all’estero. Sono circa un milione gli ebrei israeliani che hanno scelto di vivere all’estero. Chi per motivi economici (il paese è uno dei più cari del mondo) sia per motivi ideologici e per non far crescere i loro figli in un paese sempre in guerra.
18 aprile 2022
In questa bella intervista di Luigi Spinola trasmessa da Radio3mondo Eric fa il punto sulla nuova crisi a Gerusalemme.
Quello a cui si assiste nelle strade gerosolimitane in questi giorni, come sempre, prende a pretesto la concomitanza di appuntamenti religiosi per far emergere la divisione, da cui è pervasa la città, nonostante la pietra bianca che formalmente è un fattore unitario. Dall’occupazione del 1967 in avanti la città è simbolicamente e nei fatti oggetto di divisione e erosione del territorio con l’espulsione il più possibile di ogni cultura araba nei confini di Gerusalemme, sia nella sua parte Ovest che Est. Eric Salerno ha lungamente abitato quelle vie, le ha descritte nel loro sviluppo, evidenziando l’intervento di una urbanistica sionista che piega l’archeologia con lo scopo di cancellare le tracce di culture che hanno costituito lo spirito di Gerusalemme lungo i secoli.
17 aprile 2022
Nella congiunzione astrale in cui a Gerusalemme nel plenilunio si festeggiano pesach, pasqua e ramadan Eric Salerno ha parlato del suo nuovo libro su Gerusalemme con Roberto Festa durante la trasmissione La domenica dei libri di Radio Popolare.
Da questa sorta di autobiografia da laico non credente abitante della città santa sorge subito la complessità del reticolo urbano e si evidenzia subito l’approccio critico di Eric alle scelte architettoniche di cambiamento operate in senso anche geopolitico. A cominciare dalla importanza della pietra bianca, un colore che – sembra banale, ma non lo è – lega tutti i quartieri e dovrebbe ispirare un senso di pace sia in senso religioso, sia tra le varie comunità.
Ma poi lo skyline che si affaccia alla visione di un osservatore della conca in cui è racchiusa la città vecchia è costituito da grattacieli che sottraggono fascino al genius loci, già ferito dalle due guerre (invasione giordana del 1947 e quella israeliana del 1967) che ne hanno cominciato a deturpare e ferire lo spirito fino alla attuale accelerazione della giudaizzazione di Gerusalemme Est; emblematico l’uso della creazione dei parchi in funzione di un’espropriazione gentrificatrice che serve per allontanare i palestinesi da certe zone della città: l’apoteosi dell’esegesi archeologica volta a mistificare la centralità dei luoghi. L’apartheid psico-architettonico.
Gerusalemme si pone come città dell’Intolleranza e lo si coglie proprio guardando alla differenza nell’uso delle vie di Gerusalemme Est/Ovest; e si percepisce come tra le sue vie il conflitto scorre eterno e inarrestabile: abitarci non è attraente.
Eric Salerno era intervenuto sollecitato da OGzero sul ruolo di Israele nelle guerra ucraina e in questa intervista spiega meglio la sua adesione a un documento di riconosciuti maestri del reportage da zone di guerra che stigmatizzano il modo raffazzonato e propagandistico con cui vengono riportati gli eventi della guerra in Ucraina in modo palesemente schierato, senza controllo della notizia né di ciò di cui si è testimoni.
Ascolta “Dalla Disneyland della religione alla gentrificazione dei parchi gerosolimitani” su Spreaker.
29 marzo 2022 – Barbara Marengo – Ytali
Alla città delle tre grandi religioni monoteiste, città simbolo con tremila anni di storia e un presente dalle tante contraddizioni, Eric Salerno dedica un libro, di informazioni e di emozioni, come nel suo stile di grande reporter.
Un racconto che si snoda attraverso le pietre bianche di Gerusalemme, un racconto lungo i millenni di questa città-simbolo, un racconto scritto da chi a Gerusalemme ha abitato e attraverso le voci di testimoni ripercorre storia passata e presente della città che racchiude l’essenza delle tre religioni monoteistiche, Ebraismo, Islam, Cristianesimo: Eric Salerno, giornalista e autore di numerosi libri, di famiglia ebraica, nato a New York e cittadino del mondo, esplora il “genius loci” di questa intensa città per la collana “Le città visibili” (editore Orizzonti Geopolitici Zero).
Da villaggio a metropoli, attraverso cambiamenti urbanistici che hanno stravolto quello che era il nucleo antico della città, dove tempi, chiese e moschee intrecciano le vite degli abitanti, attori di una storia che parla di Patria sia per gli ebrei sia per i palestinesi, storia marcata da lutti e attentati, da diritti ad avere un luogo dove vivere e diritti negati, da quelle pietre bianche che Salerno descrive e osserva da vicino: città esplorata dall’alto grazie al Timelapse di Google Earth “che consente di passare dalla visione più recente del satellite al passato”, correndo indietro nel tempo fino a mostrare com’era la Città trentasette anni fa, com’erano le sue pietre, bianche perché cosi decise, nel 1918, il responsabile del mandato britannico: pietra bianca, com’erano bianche le tavole di Mosè, chi può dirlo? Pietre usate da Davide per uccidere Golia? Pietra angolare che accompagna il cammino di Gesù in questa terra bellissima? Pietra come quella usata da Pietro per fondare la Chiesa? Pietra dalla quale il profeta Maometto è asceso al cielo?
“Pietre memoriali di vita” che corrono indietro nei millenni, pietra che in ebraico si dice “eben” e figlio si dice “ben”, stabilità della stirpe e della nazione. Bastano le pietre, oggi studiate dagli archeologi, per stabilire che Gerusalemme fu da sempre abitata da tribù di Israele? Dalla città di Salomone, mille anni prima di Cristo, fino all’estesa Gerusalemme di oggi, le pietre parlano del “conflitto che schiaccia la dimensione dei luoghi”, un conflitto di rivendicazioni, contese, luogo simbolo delle tre religioni monoteiste: dalla romana Aelia Capitolina al regno latino d’oriente, dai crociati a Saladino, dall’impero ottomano al mandato britannico, dalla guerra dei sei giorni all’oggi pieno di tensioni, “due rivolte palestinesi, un accordo di pace (Oslo) che non è mai andato oltre le prime fasi, ”scontri di civiltà”, come qualcuno ha definito l’ondata di terrorismo di stampo islamista e gli assalti folli dei “buoni” che hanno destabilizzato il Vicino Oriente e propaggini, hanno relegato i palestinesi nel dimenticatoio.
I cambiamenti urbanistici che la città ha subito in questi anni sono descritti dall’autore, fuori e dentro le mura antiche, con piani di sviluppo tesi a “emarginare” i palestinesi espulsi dalla città in una sorta di “pulizia etnica”, con occupazione da parte israeliana di villaggi palestinesi antichi trasformati in moderne zone residenziali.
A chi appartiene Gerusalemme? Tanti sono i testimoni sentiti dall’autore, che raccontano la “loro” Gerusalemme, arabi ed israeliani, laici e religiosi, colpiti da lutti ed incomprensioni insanabili: luoghi e persone che Eric Salerno conosce bene, luoghi che negli anni hanno cambiato identità, tanto da far dire allo scrittore Avraham che non esiste più il luogo ideale dove “la città araba incontra la città israeliana, ma regna la diffidenza e il distacco tra quartieri.
Scrive Salerno:
L’equilibrio, si fa per dire, o meglio lo squilibrio tra ebrei e arabi si va rafforzando non soltanto con la foresta di grattacieli per uffici e abitazioni ma anche con la demolizione di interi quartieri e di molte vecchie case…..
Ebrei e arabi che molte volte si confondono per un aspetto fisico comune, semiti e con dna in comune, e purtroppo con lutti in comune. Uno spazio urbano, che l’autore denuncia, stravolto dalla necessità del controllo dovuto ai flussi turistici, alla natura (creazione di parchi tematici su aree palestinesi) e all’archeologia tesa a legittimare l’appartenenza antichissima al popolo eletto della città fin dai primordi, un uso “semplicistico della religione” con un eccesso di interpretazione favolistica che molti governi hanno avallato.
Religione usata in maniera ideologica, con una “ortodossia invasiva” in un “clima sociale soffocante” che molti israeliani abbandonano per vivere con meno tensioni a Tel Aviv.
Muro del Pianto, spianata delle Moschee, Santo Sepolcro, intersecati in poche centinaia di metri, dove pellegrinaggi ininterrotti di credenti si mescolano ai turisti, pietre candide e assolate, punteggiate dagli abiti rituali degli ebrei, dei frati cristiani, dei pellegrini musulmani.
E se all’interno del Santo Sepolcro i cattolici siriani, copti, armeni, etiopi, ortodossi, attorno alla pietra che ospitò il corpo di Cristo, si azzuffano per il controllo di poche porzioni di selciato, a volte a colpi di crocefisso brandito a mo’ di alabarda, come potrebbe esserci all’esterno un clima sociale disteso? La tensione si trasforma in progetti alquanto bizzarri, con dispute tra architetti disposti a cancellare presenze arabe o conciliare le differenti società. I nuovi quartieri fortezza, che sembrano veri e propri bunker a metà costa sulle colline fuori le mura, dividono i territori palestinesi con superstrade, in un eterno cantiere: un paesaggio stravolto, che Eric Salerno osserva dal monte Scopus, una foresta di gru che occhieggiano attorno alle mura antiche. Accanto a tante pietre che dividono, l’autore cita anche quelle che uniscono, come quelle che hanno edificato l’ospedale Hadassah, dove convivono e lavorano in un “melting-pot” incredibile popolazioni diverse e indispensabili l’una all’altra.
Mentre sempre le pietre, anzi il cemento dell’alto muro che divide i villaggi palestinesi dal territorio comunale di Gerusalemme, “trancia in due intere famiglie” per “ridurre il più possibile la continuità del mondo palestinese e l’idea che Gerusalemme Est possa un giorno diventare la capitale di uno stato palestinese indipendente” .
Tremila anni di storia di una città assediata 37 volte, conquistata e persa, oggi preda di immobilità negoziale che lascia tanti problemi irrisolti, e l’architettura assieme allo sviluppo urbanistico è uno di questi.
Pietra bianca che unisce e divide: idee fantascientifiche come quella che prevederebbe una cabinovia tra il Monte degli Ulivi ed il Santo Sepolcro con vista sulla valle della Gehenna, piloni e stazioni di salita e discesa, 73 cabine che ogni ora ondeggerebbero sulle antiche strade, porte, mura, monumenti, per alcuni “crimine contro Gerusalemme”.