Non nominare il nome del Vietnam invano
Il Vietnam è divenuto una figura retorica. Una metafora. Un’allegoria, Un’evocazione. Una sineddoche generalizzante o particolarizzante, del tutto per la parte e viceversa. Pur con tante declinazioni è usata quasi sempre a sproposito, conferendole il valore che ha assunto in Occidente. Molto spesso, per esempio, indica una battaglia disperata conclusasi con la sconfitta. Che non sarebbe di certo l’interpretazione che un vietnamita darebbe della guerra combattuta e vinta contro gli americani, “la guerra americana”.
Nell’inconscio collettivo il Vietnam si è trasformato da toponimo a topos. Una mutazione che comincia sul finire degli anni Sessanta quando si intensifica il coinvolgimento statunitense e con questo il movimento di contestazione che diviene un fenomeno politico e culturale globale. La Storia diventa narrazione tre anni dopo la fine della guerra. Nel 1978 escono i film Tornando a Casa di Hal Ashby e Il cacciatore di Michael Cimino. Apocalypse Now di Francis Ford Coppola è presentato l’anno seguente. E così il Vietnam si trasforma in scenario di metafore esistenziali, denuncia politica, tragedie individuali e psicodramma nazionale americano. C’è poi un intermezzo politicamente scorretto con Rambo e Rambo 2 la vendetta (dell’82 e dell’85, entrambi interpretati da Sylvester Stallone). Il tema della “sporca guerra” torna sugli schermi in tutta la sua reale violenza nel 1986 con Platoon di Oliver Stone, seguito nel 1987 dallo straordinario Full Metal Jacket di Stanley Kubrick e nel 1989 da un altro film di Stone, Nato il Quattro Luglio, interpretato da Tom Cruise. C’è poco da stupirsi dell’affermazione di un operatore italiano in Vietnam: «La guerra? È stata un immenso spot pubblicitario».
In questa prospettiva il Vietnam si è cristallizzato in un periodo storico che non comprende né le cause né le conseguenze della guerra. È come se la riflessione, l’analisi fossero un elemento di disturbo, una complicazione inutile. Quanti sanno che l’ultima guerra in Vietnam fu combattuta contro i cinesi in seguito all’invasione vietnamita della Cambogia? Ragionare poi su queste diramazioni geopolitiche ci fa davvero entrare in una dimensione quantica, come se si parlasse di universi paralleli. Il Laos, la Cambogia, la Birmania, la Malaysia, l’Indonesia, la Thailandia, tutte le tessere del domino che componeva lo scenario delle guerre d’Indocina nel quadro della Guerra Fredda sembrano pianeti minori di un’altra galassia, storie di confine. A parte la Cambogia, forse, evocatrice dell’orrore dei Killing Fields. Quelli del film più che dei khmer rossi. I khmer rouges come alcuni, con vezzo sofisticato, ancora li chiamano, quasi fossero alla corte di Sihanouk.
Tutto questo m’è venuto in mente tra un round e l’altro di un allenamento alla Kru Pathee Muay Thai Gym, nome tanto lungo quanto è piccola la palestra appena aperta del maestro, Kru, Pathee. Guardavo le mail sul telefonino e vedevo una sequenza di Vietnam tra i Google alert. Riguardavano “Cirino Pomicino e il suo Vietnam in terapia intensiva”. Qualche giorno dopo, quando già avevo cominciato a riflettere su questa breve storia, sempre tra un round e l’altro di un allenamento, ecco altri Google alert vietnamiti: I Parioli hanno qualcosa di sinistro. Il film può sembrare un Apocalypse Now ai Parioli. Un Apocalypse After!. Intervista a Pietro Castellitto, Benedetta Porcaroli e Giorgio Quarzo Guarascio su Enea, film che racconta una Roma Nord da film di guerra”.
Non conosco il cuore di tenebra dei Parioli, ma in quel momento mi sono apparsi Conrad, Coppola, Marlon Brando, il colonnello Kurtz, Tim Page, il fotografo pazzo del Vietnam che nel film è interpretato da Dennis Hopper, i reporter scomparsi in quella guerra. Requiem.
Papa
I periodi di guerra si somigliano tutti
È il periodare del loro racconto che risulta più o meno edulcorato, più o meno artificiale… più o meno orripilato, a seconda di quanto le industrie belliche e i poteri militari condizionano lo spirito del tempo.
Sono tante le figure – retoriche o meno – che affiorano dal lemma “Vietnam”, non tanto territorio geografico, quanto deposito di memoria generazionale a cui corre qualsiasi situazione bellica, come fosse la Ur-guerra – dopo quelle europee novecentesche – che, segnando la battuta d’arresto (ahimè, temporanea) dell’imperialismo coloniale, nasconde sempre la speranza che faccia da modello per l’ultimo conflitto scatenato in corso e di conseguenza iteri la débâcle dell’imperialismo americano. In questo senso non pare cristallizzato in quegli anni – “formidabili” nel ricordo di Minà, un genio a costruire miti: piuttosto è un paradigma negativo anche per la potenza bellicosa che attualmente bombarda e massacra, partendo dal campo occidentale.
Il primo scatto che evoca il Vietnam è Kim Phuc, la napalm girl fotografata l’8 giugno 1972 da Nick Ut – ho due anni in più di lei e un ricordo nitido di empatia che ha segnato la mia sensibilità per il reportage fotografico (visto due anni dopo da ginnasiale già “politicizzato); non poteva essere diversamente e senza dubbio quel Munch vietnamita ha contribuito a preparare la disfatta Usa innanzitutto nelle coscienze immacolate dei sinceri pacifisti, che poi trovarono conferme nei film di Coppola e Cimino. È la follia conradiana di Kurtz/Brando mescolata alla giustizia sommaria immortalata da Eddie Adams il 1° febbraio 1968 nello sparo del generale Nguyễn Ngọc Loan sul Viet Cong. Una brutalità che Idf ha moltiplicato in modo esponenziale su Gaza, ma evitando che si possa ricondurre il massacro al perpetratore, cautelandosi: Tzahal applica la stessa giustizia sommaria del colpo fissato da Adams nel Vietnam (quello originario – e forse Biden si riferiva a quel loro errore originale e non tanto all’Afghanistan, quando metteva sull’avviso Bibi) e schiaccia il grilletto prima che il giornalista possa divulgarlo… perché il Viet Cong giustiziato si è scambiato di ruolo con il reporter, anzi sono diventati 118 i giornalisti “vietcong” uccisi preventivamente senza nemmeno il particolare di un braccio con la pistola fumante a registrare il gesto tragico da tramandare. Anche Tim Page e Dennis Hopper sono morti, ma da vecchi e non per mano di un drone. La spersonalizzazione del testimone.
Nel decennio successivo il concetto di Guerra Sucia – per eccellenza di marca argentina – trovava il suo compimento a Las Malvinas, restituendo alla retorica coloniale per eccellenza, quella britannica per un po’ il suo ruolo, che poi continua a mettere a disposizione del proprio clone americano. E forse proprio lì comincia a imporsi il pennivendolo embedded, che racconta le guerre dalla parte degli eserciti; nascondendo l’eccidio non si crea horror vacui, ma semplice elencazione di numeri dei sacrificati. La spersonalizzazione della vittima.
Elucubro a seguito del mugugno di Papa puntellato a uno spigolo di uno stanzone in attesa di accedere agli sportelli di un’anagrafe torinese, tra un round e l’altro della burocrazia che sovrintende al conseguimento di un Atto notorio, un corpo a corpo con gli altri individuati da numerini della coda e con il moloch dei documenti, che solo può attestare l’esistenza in vita o in morte. Ben più di un bombardiere che cancella “solo” l’esistenza, lasciando unicamente agente orange, quel napalm – di nuovo un lemma mitico – ancora attivo nella sua missione di sterminio nella regione del Sudest asiatico.
el Gaviero
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