Dall’industria schiavistica a quella turistica
Con l’abolizione della schiavitù finì l’epoca di splendore di Gorée che doveva la sua fama e la sua ricchezza al commercio di quello che all’epoca veniva chiamato “avorio nero”, una forma mercantilista e disumanizzante di chiamare le persone vittime della tratta.
Di fronte alle sue coste nacque Dakar, la futura capitale del Senegal, e Gorée si svuotò progressivamente. Dei 5000 abitanti che contava alla fine dell’Ottocento, oggi se ne contano poco più di 1000. L’isola divenne un luogo di riposo e svago per le famiglie benestanti dei politici coloniali in cerca di tranquillità e oggi, anche grazie al lavoro svolto dall’Unesco, è un luogo che riceve un flusso importante di turisti internazionali.
L’orrore dello schiavismo in epoca moderna
Per le strade dell’isola, dove non circolano automobili e il tempo sembra essersi fermato, le costruzioni color pastello si alternano a edifici in rovina che ricordano antichi fasti del tempo che fu. Una ricchezza che nascondeva un orrore senza pari, perché mentre al secondo piano di queste mansioni si consumava la vita in stile “europeo” con cerimonie, balli e riunioni d’affari, al piano terra “vivevano” un vero e proprio inferno le persone “ammassate” in attesa di essere vendute: infatti mentre al piano superiore viveva il proprietario della Masion des Esclaves, al piano inferiore tutto era stato costruito nei minimi dettagli per il commercio umano. Un’architettura della tortura con celle anguste dove venivano divisi uomini, donne e bambini; ma esistevano anche prigioni (luoghi ancora più angusti e claustrofobici), dove annientare la resistenza psicologica dei più ribelli, oltre a una stanza utilizzata per l’alimentazione. In quest’ultimo spazio venivano “ingrassati” gli schiavi prima di essere venduti, secondo dei protocolli che prevedevano di raggiungere un certo peso prima delle trattative con i proprietari delle navi negriere. Si creava volontariamente anche una separazione fisica tra i bambini (da 4 a 12 anni) e le loro madri, per impedire a queste ultime di udire il pianto dei figli, e preservare così la loro “salute” e quindi il prezzo di vendita della “merce”. La Casa Museo dell’isola di Gorée è il perfetto esempio di queste costruzioni del terrore. Il pianoterra di questo edificio poteva arrivare a contenere fino a 200 persone, divise in celle di poco più di 2 metri quadrati, dove erano costrette a rimanere in piedi ed espletare i loro bisogni nella stessa posizione. All’arrivo i prigionieri passavano la prima ispezione dove si controllava la dentatura, si cercavano segni di malattie, cicatrici, qualsiasi indizio che potesse diminuire il prezzo. Gli uomini, in forza, che pesavano almeno 60 kg erano destinati immediatamente alla vendita. Tra il primo e il secondo piano della mansione, due scale semicurve, venivano esposte le persone sequestrate e schiavizzate per essere mostrate e negoziarne il prezzo con i potenziali acquirenti.
Foto di Diego Battistessa
Una volta acquistati, non veniva dato il loro tempo di dire addio a nessuno, venivano fatti passare per un angusto corridoio nella cui parte finale si trovava una porta affacciata sul mare: il luogo tristemente noto come la porta del non ritorno. L’ultimo punto di contatto fisico con il proprio continente, la propria terra, il proprio universo: il primo passo nella tratta oceanica che li avrebbe portati vero il “Nuovo Mondo“.
Una simbolica porta sull’isola di Gorée, da dove le imbarcazioni schiaviste salpavano verso il continente americano, trasportando nelle stive gli schiavi catturati come manodopera nei campi oltreatlantico. Foto di Adriano Boano
Merce all’ingrasso
Chi però non pesava almeno 60 kg e non dimostrava di essere sufficientemente in forza, veniva obbligato a mangiare, secondo le stesse pratiche usate per ingrassare il bestiame. Catene, ceppi e pesanti palle di ferro logoravano polsi, collo e caviglie, impedendo ogni tentativo di fuga, rompendo la resistenza psicologica e facendo piombare queste persone nella più totale rassegnazione. L’incapacità di comunicare tra loro (spesso venivano da luoghi, etnie e culture diverse) aumentava il sentimento di solitudine, portando alcuni di loro a tentare il suicido. Morirono a migliaia, in queste e nelle altre case degli schiavi dell’isola. Morirono di malattie, morirono di botte, morirono di paura, violentati in ogni modo possibile e immaginabile, abusati in ogni aspetto della dignità umana: morirono anche quelli che restarono vivi.
☞e continuarono a morire in catene oltreatlantico