La devastazione corre sul filo… elettrico
Un flumicidio premeditato
L’agonia del fiume Tabasará iniziò nel 2007 con la complicità dello stato panamense che autorizzò una concessione per la società Genisa – Generadora del Istmo S.A. (creata ad hoc per la realizzazione del progetto idroelettrico di Barro Blanco): società che iniziò nel 2011 i lavori di costruzione in un clima di forte tensione. Le critiche erano legate alle preoccupazioni sull’impatto del progetto nonché alla mancanza di un’adeguata consultazione pubblica e alle violazioni dei diritti umani perpetrate dalla stessa società.
Quest’ultima, dopo un lungo processo di negoziazioni iniziato nel febbraio 2015, tra alcuni rappresentanti indigeni e lo stato panamense (con intervento dell’Onu), venne estromessa definitivamente dal progetto nel 2016: quando la centrale era già stata costruita per un 95%.
Con l’acqua alla gola
L’accordo siglato nel 2016 creò però non pochi attriti all’interno della comunità Ngäbe-Buglé, giacché non tutti i membri riconobbero la legittimità di tali accordi, che sancirono de facto l’inizio delle attività della centrale idroelettrica.
Dopo Genisa arrivò Cobra (impresa facente parte fino al 2002 del gruppo Impregilo e oggi parte del gruppo spagnolo Acs) e sul suo sito web si legge che il progetto è iniziato il 15 febbraio 2011 e si è concluso il 23 gennaio 2017: circa 6 anni di lavori. Quello che però attira di più l’attenzione è questo paragrafo che descrive le difficoltà nella realizzazione della centrale e della diga.
«La sfida più grande che venne affrontata durante i lavori fu la chiusura della diga, poiché a causa del tipo di idrologia del fiume Tabasará, c’erano inondazioni durante tutto l’anno e non c’era una stagione secca che facilitasse il getto del cancello di deviazione».
Non c’è traccia dunque delle problematiche legate all’inondazione del territorio indigeno ancestrale Ngäbe-Buglé e delle denunce dei caciques (leader indigeni) che lamentavano i danni irreparabili che avrebbero subito quasi 500 persone delle comunità di Quebrada Caña, Nuevo Palomar, Comunidad Cultural Kiad, Labramona e Calabacito, del distretto Müna, regione di Kodrí.
Non si parla neanche del movimento 10 di aprile e delle molteplici manifestazioni di protesta, blocchi stradali e scontri con la polizia che hanno caratterizzato la presidenza di Juan Carlos Varela (2014-2019). Un processo di invisibilizzazione di una resistenza costante e coraggiosa schiacciata da una centrale idroelettrica da 28,84 MW.
Popoli Indigeni di Panama
Quella dei Ngäbe-Buglé, che costituiscono il gruppo indigeno con la popolazione più numerosa (al censimento del 1990 superavano già i 123.000 abitanti), è una lotta che dura da anni ma il loro fronte non è l’unico aperto.
Sei Comarcas di emancipazione
A Panama, secondo i dati del censimento del 2010, sono 417.559 le persone che si riconoscono come indigene, un numero che corrispondeva per quell’anno a poco più del 12% della popolazione. Parliamo però di un gruppo molto eterogeneo che si diversifica in otto popoli indigeni: Ngäbe, Buglé, Guna, Emberá, Wounaan, Bri Bri, Naso Tjërdi e Bokota. Per questi popoli ancestrali, dopo le due indipendenze di quella che oggi è la Repubblica di Panama (nel 1821 dalla Corona spagnola e nel 1903 dalla Colombia) è iniziato un lungo e lento processo di emancipazione e rivendicazione di diritti nel nuovo spazio geografico e amministrativo del giovane paese centroamericano. Un processo fatto di accordi, scontri e rivoluzioni che ha portato il movimento indigeno a ottenere un certo grado di autonomia. A oggi infatti esistono a Panama 6 Comarcas Indigene (Contee) le cui leggi costitutive contengono il riconoscimento della tradizionale struttura politico-amministrativa di questi popoli, della loro autonomia, della loro identità e dei loro valori storico-culturali, nel sistema-stato panamense. Le 6 Contee Indigene coprono oggi un’area di 1,7 milioni di ettari e sono state create in epoche diverse: Guna Yala (1938), Emberá-Wounaan (1983), Guna Madungandi (1996), Ngäbe-Buglé (1997), Guna Wargandí (2000) e Naso Tjër Di (2020).
1925. La rivoluzione Guna e la repubblica di Tule
Una menzione speciale in questo processo di emancipazione e lotta per i diritti, merita la rivoluzione Guna scoppiata tra febbraio e marzo 1925 e che portò alla creazione dell’effimera repubblica di Tule. La ribellione fu la risposta del popolo indigeno Guna alla forzata occidentalizzazione imposta dal governo centrale che cancellava così secoli di storia dei nativi. Dopo gli scontri si arrivò a un accordo e la Comarca di Guna Yala fu la prima a essere creata. Da sottolineare che proprio dalla lingua di questo popolo indigeno arriva il concetto di Abya Yala, termine precolombiano che sempre più comunemente viene utilizzato dai popoli ancestrali e dai movimenti antiegemonici per riferirsi alle Americhe.
La gigantesca discarica del Cerro Patacón
Dalla devastazione idrica nelle comarcas al fuoco tossico in periferia
Non sono però solo i territori ancestrali delle popolazioni indigene a soffrire un deterioramento costante e un attacco frontale di una speculazione economica senza scrupoli: la stessa sorte è vissuta anche nella periferia della capitale e dentro la stesso Città di Panama. È il caso del Cerro Patacón, un luogo dantesco dove si concentra più del 40% della spazzatura prodotta in un paese di 4,5 milioni di abitanti, dove arrivano, al giorno, circa 2 tonnellate di rifiuti. Un centro di raccolta dei residui capitolini, meglio conosciuto come uno dei più grandi disastri ambientali e sanitari del paese centroamericano. Si tratta di un vero e proprio mostro di rifiuti, che secondo molti esperti è già collassato, con infiltrazioni nelle falde acquifere del sottosuolo, una contaminazione diretta del fiume Guabinoso che lo circonda e con frequenti incendi che liberano nell’aria miasmi tossici. La discarica copre più di 130 ettari, ma alcuni studi ambientali spiegano che la tossicità di questo gigante di rifiuti provoca un impatto negativo sui 9000 ettari circostanti: basti pensare che alcuni quartieri della capitale (Città di Panama) che si trovano a più di 3 km di distanza dalla discarica, soffrono direttamente la contaminazione area e gli effetti degli incendi che si sviluppano sul Cerro Patacón.
La situazione è raccontata nel dettaglio da Errol Caballero, nell’encomiabile lavoro giornalistico del 2019 dal titolo La salud del Cerro Patacón pubblicato da Connectas – plataforma periodistica para las Americas.
In questo documento, che conta anche su materiale audiovisuale, troviamo parole lapidare che spiegano come la situazione sia completamente fuori controllo:
«La contaminazione mette a rischio la salute delle comunità vicine alla discarica di Città di Panama e le autorità stanno indagando sulla concessione della società Urbalia, per aver compromesso le fonti idriche a causa della mancanza di controlli. A sua volta, lo Stato non vigila sull’azienda, non offre soluzioni al problema e viene denunciato dagli abitanti della zona».
Una situazione già vista. Un’azienda privata che ottiene una concessione e massimizza i profitti non preoccupandosi delle esternalità negative e dell’incolumità della popolazione, uno stato inerte quando non connivente, che non fiscalizza e non effettua controlli. Nel reportage di Caballero troviamo però anche dure testimonianze, come questa:
«Jackeline Chango, 39 anni, è residente a La Isla, un quartiere marginale costruito sulle rive del Mocambo, uno dei fiumi che attraversa la zona. Quando il sistema di distribuzione dell’acqua potabile viene a mancare – come accade spesso nel settore – lei, insieme al marito Domecin e ai suoi figli, tutti di etnia indigena Emberá, si devono lavare nel ruscello. Lo fanno per necessità, sapendo che quell’acqua è completamente contaminata dalla spazzatura.
Suo figlio Kelvin, cinque anni, non era però cosciente del pericolo e mentre faceva il bagno nel ruscello ha bevuto alcuni sorsi d’acqua. Due giorni dopo hanno dovuto portarlo all’ospedale Santo Tomás, sofferente per dei dolori muscolari. I medici hanno identificato un batterio che aveva colpito uno dei polmoni. Suo padre gli ha donato sangue, ma non è bastato a salvarlo. Dopo aver subito un arresto cardiaco, Kelvin è morto a mezzogiorno del 31 dicembre, la vigilia di Capodanno».
Urbalia: basura business
La storia di questo enorme disastro che oggi incide negativamente sulla vita degli abitanti della zona e sul territorio, si fa risalire agli anni Ottanta, quando venne chiusa la vecchia discarica di Panama. Fin dall’inizio la gestione fu statale e si proiettava un’aspettativa di utilizzo di 25/30 anni della struttura di raccolta dei residui. Nel 2008 però il Consiglio Comunale della Città di Panama (organo che all’epoca aveva la potestà su queste decisioni) ordinò la concessione della discarica a una società spagnola, Urbasel Protosa. Solo due anni dopo, avvenuto un cambio di governo, l’appalto venne passato a Urbalia, mantenendo lo stesso contratto iniziale. Nel 2011 l’impresa Urbalia fu comprata dalla colombiana Interaseo SA., di proprietà di colui che viene definito lo “Zar della spazzatura”, cioè William Vélez Sierr. Già nel 2016 il Ministero dell’Ambiente di Panama aprì due procedimenti amministrativi contro Urbalia per «mancato rispetto delle misure stabilite negli strumenti di gestione ambientale» e finalmente il 27 marzo di quest’anno, le autorità statali di Panama hanno eseguito un’operazione di controllo sulla situazione del Cerro Patacón e a radice di quanto riscontrato hanno estromesso Urbalia dalle operazioni (a poche settimane dalla scadenza naturale del contratto). Attualmente vige lo stato di emergenza ambientale per il collasso di un mostro di rifiuti che continua a costare salute e vita alle persone più vulnerabili che già vivono in una situazione di estrema marginalità.
Testimoni locali di sopraffazione
Di fronte a tutto quanto letto finora, è importante poter far riferimento a voci di attivisti locali, voci lucide, che conoscono il contesto e che possono guidarci verso un’analisi di una profonda complessità, unificando tutti i territori diversamente devastati dal capitalismo. Una di queste voci è sicuramente quella di Olmedo Carrasquilla Ávila , ecologista, comunicatore sociale, attivista e dirigente di Covec che in una recente intervista per il giornale nazionale “La Estrella de Panamá” ha saputo manifestare in modo chiaro l’incoerenza dell’attuale azione di governo. Carrasquilla, intervistato nel contesto di una profonda crisi di siccità che ha colpito Panama in questo 2023, denuncia la mancanza di una politica chiara in materia socio-ambientale da parte di un governo che da un lato dichiara lo stato di emergenza ambientale per la scarsità d’acqua e dall’altra continua ad autorizzare concessioni minerarie a imprese per le cui operazioni servono ingenti quantità di acqua.
In questo podcast da “Liberation Font”, trasmissione di Radio Blackout del 13 dicembre, si trova un efficace riepilogo insieme a Diego Battistessa riguardo ai temi fin qui da lui trattati e dei molti snodi di interessi della finanza innanzitutto (che sotto traccia rappresenta l’impossibilità di concedere reale indipendenza a Panama), della gentrificazione interna, dello spolpamento predatorio di risorse da parte del colonialismo, dello sfruttamento imperialista di infrastrutture